IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: ALESSANDRO MANZONI

Il cinque maggio

La notizia, appresa dalla «Gazzetta di Milano» del 16 luglio del 1821, che Napoleone è morto nel suo esilio di Sant'Elena, spinge prepotentemente Manzoni a una riconsiderazione della figura e dell'opera del grande condottiero corso, alla luce della morte. Prima, quando Napoleone era in vita e dominava nel bene o nel male la scena del mondo, Manzoni non aveva espresso su di lui alcun giudizio: ora invece che è morto e che la sua vicenda terrena si è compiuta, egli non esita a parlare di lui, non per esaltarlo o condannarlo, ma per capire il senso della sua parabola esistenziale. Rivive, così, nella mente del poeta tutta l'avventura napoleonica nelle sue tappe fondamentali - dall'irresistibile ascesa agli anni del trionfo, all'improvvisa caduta - una avventura che sembra confermare al poeta, insieme all'eccezionalità del personaggio, anche l'estrema caducità di ogni umana vicenda e di ogni gloria terrena.
Di fronte a quest'amara constatazione, Manzoni non può non interrogarsi intorno all'umanità di Napoleone, intorno cioè alle sue reazioni di uomo, sconfitto e dolorante, nel momento rivelatore della sventura e della morte e la conclusione cui arriva è che, come in vita Napoleone è stato un inconsapevole strumento della Provvidenza, così in morte non può non essere stato sorretto e salvato dalla Misericordia divina. Tracotante e intemperante nella vittoria, nella sconfitta e nella disperazione della solitudine, Napoleone ha ritrovato, nella Fede, la via della salvezza e insieme al perdono di Dio si è meritato, anche lui ormai vittima, il diritto alla compassione da parte di tutti gli uomini.
Scritta sull'onda dell'emozione nello spazio di appena tre giorni (dal 17 al 19 luglio del 1821), l'ode testimonia non tanto l'ammirazione di Manzoni nei confronti di Napoleone, quanto piuttosto la sua esigenza di collocare un così grande personaggio nell'ambito della sua concezione della storia. Il vero protagonista dell'ode, in questo modo, non è Napoleone, ma Dio che, appunto secondo la concezione cristiana che Manzoni ha della storia, si è servito di lui per realizzare i propri misteriosi progetti e poi l'ha atteso al varco per salvarlo e dimostrare ancora una volta la sua misericordia.
Espressione poetica di un sentimento di ammirazione per un uomo indubbiamente significativo come Napoleone e, nel contempo, espressione di una particolare concezione dell'uomo e della storia, l'ode si sviluppa dapprima per rapidi scorci, che ripercorrono le sbalorditive tappe della vicenda umana dell'Eroe, poi si placa in una sobria meditazione intorno alla dimensione umana di Napoleone e, infine, attinge commossi accenti nella conclusiva invocazione alla Fede.

Metro: diciotto strofe abbinate di sei versi settenari, in cui il primo, il terzo e il quinto verso sono sdruccioli, il secondo e il quarto sono piani e rimano tra loro, mentre il sesto, tronco, rima con il corrispondente della strofa successiva.

  Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio' sta,
 

Il poeta consegna a un'espressione epigrafica l'annuncio della morte di Napoleone, il cui nome è superfluo addirittura indicare, tanto ha riempito di sé la storia. Così, la perentorietà della notazione, concentrata in due monosillabi («Ei» e «fu») e suggellata dal punto fermo, esprime efficacemente il senso di meraviglia e di stupore che colpisce il poeta di fronte alla ineluttabile e irrimediabile scomparsa di un uomo che era stato protagonista di un'esperienza terrena tanto intensa e tanto appariscente.
Come il corpo di Napoleone, dopo aver esalato l'ultimo respiro, rimase immobile, dimentico ormai delle sue vicende terrene e privato definitivamente di un'anima tanto grande, così è rimasta la terra, sgomenta e incredula di fronte a una simile notizia. Lo sgomento che si impossessa degli uomini quasi paralizzandoli è paragonato all'immobilità del corpo privo di ogni alito di vita di Napoleone, quasi che la morte di Napoleone abbia privato il mondo del suo elemento essenziale e vitale (similitudine). Perno di tutta la similitudine è il verbo stare, che si riferisce tanto alla «spoglia» dell'imperatore («stette la spoglia...») quanto alla «terra» («la terra al nunzio sta») e che in entrambi i casi è usato nell'accezione etimologica volta a indicare assoluta immobilità e rigidità. A connotare il senso di morte, tanto fisica che morale, che coinvolge Eroe e Mondo, intervengono gli aggettivi, usati con grande maestria da Manzoni: «immobile», che fissa in una statuaria gelida compostezza la figura di Napoleone, in singolare contrasto con la fervida energia che ne aveva contrassegnato in vita il carattere; «immemore», che connota la morte come pacificazione definitiva con se stessi e con il mondo, attraverso la soppressione della memoria, cioè della capacità dell'uomo di essere sempre presente a se stesso attraverso il ricordo; «orba», che lascia trasparire la crudeltà dello strappo e della perdita «di tanto spiro», di un'anima tanto grande; «percossa», che rende quasi la violenza fisica della notizia, come «attonita» ne precisa gli effetti morali.

  muta pensando all'ultima
ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pié mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
 

Chiusa in muto raccoglimento, la terra ha pensato all'ultima ora di quell'uomo, nelle cui mani era stato riposto il suo destino, e si è chiesta, senza trovare risposta, se mai un altro uomo come Napoleone verrà a calpestare la sua polvere insanguinata, cioè se mai ci sarà un altro uomo che verrà a improntare di sé con tanta forza la storia umana, così tragicamente intessuta di violenze e di stragi. Certamente Napoleone è stato il padrone dei destini di un'epoca e in questo senso egli lascia un vuoto difficilmente colmabile, ma è anche vero che egli è stato il protagonista di una vicenda storica che ha prodotto guerre, lutti e dolori a non finire. Così l'immagine della guerra, che inevitabilmente affiora attraverso i suoi effetti, «la cruenta polvere» (metonimia) accanto al nome di Napoleone, si sovrappone all'immagine del condottiero e il cristiano Manzoni non può non far sentire il suo giudizio morale, amaro e severo, sul sangue che l'avventura napoleonica ha fatto versare.

  Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sonito
mista la sua non ha:
 

Il mio spirito di poeta («il mio genio») vide Napoleone nel momento del suo massimo splendore («folgorante in solio» ), ma non si mise ad adularlo; ne seguì con attenzione tutta l'alterna parabola di gloria e di rovina, ma non si unì mai alla turba vociante di quanti ora lo celebravano e ora lo denigravano. Prima di precisare i motivi del proprio canto, il poeta afferma orgogliosamente la propria indipendenza morale e intellettuale di fronte al potere napoleonico nei momenti essenziali della sua avventura.
I tre verbi sintetizzano in un sol verso tutta la storia di Napoleone nei tre momenti fondamentali dell'abdicazione del 1814 («cadde»), del ritorno in auge durante i Cento Giorni nel marzo-giugno 1815 («risorse») e della definitiva sconfitta a Waterloo il 18 giugno 1815 («giacque»).

  vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al subito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà.
 

Il mio genio, rimasto puro da servilismi e adulazioni, quando Napoleone era al potere, e mantenutosi incontaminato dalla colpa di un vile oltraggio, dopo la sua caduta, si leva ora commosso di fronte alla scomparsa di un uomo di così sfolgorante grandezza e genialità e indirizza alla sua tomba un canto che forse è destinato a restare immortale. Dopo aver giustificato il proprio silenzio di un tempo nei confronti di Napoleone come frutto di una coerente scelta morale, il poeta precisa ora che la sua decisione di cantare finalmente Napoleone non è dettata da improvvisa conversione al mito napoleonico, ma piuttosto da commozione di fronte al mistero della morte. Alla luce di questo chiarimento si comprende il senso dell'orgogliosa affermazione contenuta nel verso finale («un cantico / che forse non morrà»), con cui il poeta intende sottolineare, nell'apparente attenuazione della litote, che il suo canto si solleva dalle miserie della storia e investe problematiche di valore universale.

  Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
 

Inizia con questa strofa la rievocazione-esaltazione della figura di Napoleone come stratega e come condottiero. La sua genialità militare e le sue imprese belliche sono rievocate per scorci rapidissimi - attraverso le citazioni dei luoghi in cui sono state compiute - e con un ritmo incalzante che dà ai versi un tono chiaramente epico. Dalla campagna d'Italia a quella d'Egitto, dalla conquista della Spagna alle spedizioni in Germania, Napoleone si rivelò un vero e proprio genio militare: in tutte queste occasioni, infatti, la sua azione di uomo energico e deciso, incapace di esitazioni («di quel securo»), seguiva immediatamente il suo pensiero, come lo scoccare del fulmine segue il suo balenare nel cielo. L'immagine del «fulmine» (metafora) esprime in modo figurato e diretto l'idea della rapidità con cui Napoleone attuava le sue intuizioni strategiche.

  scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar.
 

L'azione di Napoleone si estese dalla punta estrema della penisola italiana («Scilla», sullo Stretto di Messina) fino alle pianure della Russia («Tanai» è il nome antico del fiume Don), dal Mediterraneo all'Atlantico. La forma verbale «scoppiò» riprende l'immagine del «fulmine» dei versi precedenti e sottolinea la perentorietà dell'azione di Napoleone, mentre il verso finale, «dall'uno all'altro mar» suggerisce l'idea degli spazi sconfinati in cui Napoleone compì le sue imprese.

  Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
 

Una improvvisa pausa meditativa interrompe l'epica rievocazione delle imprese napoleoniche e affronta il problema del significato di quelle imprese e del senso di tutta la vita di Napoleone: infatti, di fronte alla complessità di un'opera come quella napoleonica, il poeta si astiene dall'esprimere un giudizio sull'uomo Napoleone. Solo i posteri potranno un giorno dire se quella di Napoleone fu vera gloria o qualcosa di diverso: da parte sua Manzoni non può far altro che limitarsi a constatare, da buon cristiano, come Napoleone sia stato solo uno strumento nelle mani di Dio che attraverso di lui ha inteso realizzare i suoi disegni provvidenziali. Nell'interrogazione iniziale («Fu vera gloria?») affiorano le perplessità del cristiano Manzoni, per il quale non esiste altro metro di giudizio fuori di quello morale, che valuta le azioni degli uomini in rapporto al bene e al male operati: da questo punto di vista, quindi, di fronte a un uomo che come Napoleone ha dominato la scena del mondo con spregiudicatezza e cinismo, non potrebbe darsi altro giudizio che quello di un'inappellabile condanna. Ma la carità del cristiano impone la cautela della sospensione del giudizio, non tanto per eludere la domanda, quanto piuttosto per nobilitarla nella certezza della fede, che fa riconoscere in ogni uomo uno strumento della Provvidenza.

  La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch'era follia sperar;
 

Dopo la pausa meditativa, riprende la narrazione delle vicende napoleoniche, ma questa volta esse sono viste e interpretate nella loro dimensione interiore, cioè negli effetti che produssero sull'uomo che le visse: Napoleone, dice il poeta, sperimentò la gioia tempestosa e trepidante di chi concepisce un grande progetto e l'ansia irrequieta di un cuore che, incapace di adattarsi a una posizione subordinata, si piega a ubbidire agli altri solo per attuare il suo sogno di potenza, finché non lo realizza e ottiene un premio che all'inizio gli sembrava pura follia sperare. Gli elementi del ritratto della psicologia di Napoleone delineano una figura romanticamente eccezionale, contrassegnata da multiformi e contrastanti esperienze e soprattutto determinata fin dall'inizio a servirsi degli altri per conquistare il potere per sé.

  tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio:
 

Napoleone provò tutto, durante la sua vita: conobbe la gioia ubriacante del successo, un successo tanto più gradito quanto più era costato conseguirlo; conobbe la vergogna della fuga e l'esaltazione della vittoria; il fasto delle regge dove fu re e imperatore e poi la tristezza dell'esilio. La rapida carrellata, costruita su forti antitesi concettuali («gloria / periglio»; «fuga / vittoria»; «reggia / esiglio»), sintetizza per grandi scorci il senso dell'avventura napoleonica.

  due volte nella polvere,
due volte sull'altar.
 

L'espressione riassume ed emblematicamente sigilla i contraddittori eventi che caratterizzarono la vita e le esperienze di Napoleone. La ripetizione del nesso «due volte» e la metafora della «polvere» per indicare la caduta e la sconfitta e dell'«altar» per indicare il trionfo e la gloria, danno ai due versi un tono epigrafico.

  Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor.
 

Egli disse il suo nome: come al v. 1 e al v. 13 il poeta non fa il nome di Napoleone e si limita a riproporne la figura attraverso il semplice pronome personale.
Appena Napoleone si presentò al mondo dicendo il proprio nome, due secoli tanto diversi l'uno dall'altro al punto da sembrare in lotta tra di loro, si rivolsero a lui, come aspettando da lui una parola che decidesse il loro destino ed egli impose loro silenzio e si sedette arbitro tra loro. Il Settecento e l'Ottocento erano due secoli caratterizzati da due diverse concezioni della vita e da due diverse concezioni politiche: il Settecento, illuminista e razionalista, era stato caratterizzato per molti aspetti da forme di assolutismo politico appena temperato da un cauto riformismo, mentre l'Ottocento, il secolo dell'Idealismo e del Romanticismo, era stato caratterizzato dai principi di libertà e di uguaglianza banditi dalla Rivoluzione francese. Di questi due secoli Napoleone è stato l'arbitro: egli, infatti, ha sintetizzato in sé e nella sua attività politica le divergenti e opposte aspirazioni delle due epoche e ha incarnato un modello di governante in cui confluivano i principi della Rivoluzione e le esigenze dell'assolutismo. L'immagine di Napoleone che regola la sua epoca ha una grande efficacia rappresentativa ed esprime perfettamente il grande potere cui egli giunse nel suo tempo, ma contiene anche un giudizio storico molto profondo e ancor oggi valido sul significato dell'esperienza napoleonica.

  E sparve, e i dì nell'ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor.
 

Eppure, nonostante la sua grandezza e l'importanza del suo ruolo, Napoleone scomparve dalla scena del mondo, andando a finire i suoi giorni nell'inerzia e nella solitudine, lui che era stato l'oggetto di passioni incommensurabili e implacabili. Alla grandiosa solennità della strofa precedente volta a celebrare l'importanza storica di Napoleone, si contrappone la mesta constatazione della fragilità e caducità della gloria terrena: la scarna lapidarietà della proposizione d'apertura concentra la sua efficacia sulla congiunzione «E» che conclude la riflessione del poeta sulla grandezza del suo personaggio con un'amara constatazione e suggerisce l'idea di un crollo improvviso e definitivo: Napoleone era l'arbitro della vita del mondo, "eppure...". Così, con la sua rapida ascesa e con la sua altrettanto rapida rovina, Napoleone appare a pieno titolo il simbolo della caducità di ogni potenza e di ogni gloria terrena e l'ode si avvia verso l'interpretazione in senso cristiano della parabola umana del grande condottiero. Dal punto di vista stilistico-espressivo, l'intera strofa è costruita in perfetta antitesi concettuale con le strofe precedenti: la brevità e l'essenzialità del nesso iniziale «E sparve», infatti, risaltano in contrasto con le ampie immagini di gloria e di potenza di tutti i versi precedenti; l'«ozio» cui Napoleone si trova condannato appare più disperante nel confronto con la frenetica vitalità dell'uomo descritta nei vv. 25-30; la «breve sponda» dove è ridotto a vivere stringe in un'angustia umiliante chi aveva avuto come teatro delle sue gesta l'intera Europa; e, infine, il contrasto che caratterizzò l'intera vita del grande condottiero si sposta all'interno stesso dei versi della strofa: «invidia» si oppone di fatto a «pietà» e «odio» si oppone ad «amor», a rendere in modo evidente gli effetti contraddittori che la personalità di Napoleone e le sue gesta produssero sui suoi contemporanei.

  Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese!
 

Il paragone tra il naufrago e Napoleone - come l'onda vorticosamente si abbatte e si richiude sul naufrago sommergendolo, la stessa onda su cui, poco prima, lo sguardo del poveretto si protendeva alla ricerca di una terra lontana, così sull'anima di Napoleone si abbatté il cumulo delle memorie - coglie e sottolinea perfettamente il dramma psicologico di Napoleone nella solitudine dell'esilio di Sant'Elena, una solitudine non consolata da alcuna speranza e resa ancora più amara e disperante dal ricordo della passata grandezza. Ma sarà proprio in questa disperata solitudine che si determinerà, come vedremo, l'intervento con cui Dio rigenererà e salverà l'uomo Napoleone.

  oh quante volte ai posteri
narrar sé stesso imprese,
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man!
 

Napoleone viene colto, di fronte al «cumulo delle memorie», nell'atto di chi disperato desiste dal proposito di tramandare ai posteri le proprie gesta e rimane immobile, annichilito, nella scoperta dell'inutilità di ogni sforzo per sottrarsi alla propria sconfitta. Come nota, a questo proposito, !'Ulivi, «il passato fino a ieri incitante, consolante anche nella rovina, gli si fa presente con un nuovo sentimento, sotto una nuova luce... e le immagini delle battaglie gli causano un intimo "strazio". È l'ultima grande lezione della vita che l'uomo apprende; e l'uomo si solleva così di grado in grado a una nuova coscienza, simile in questo ad altri personaggi manzoniani, verso la visione evangelica delle cose».
L'aggettivo «eterne», con la sua ambiguità di significato, allude sia all'angoscia di chi avverte il proprio sforzo come interminabile, sia alla speranza che attraverso quel gesto possa tramandarsi ciò che, diversamente, il tempo distruggerebbe.

  oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir !
 

Napoleone è colto nuovamente nell'avvilimento della sua condizione di uomo solo e disperato, ma diversamente dalla strofa precedente, qui egli ha una sua smisurata grandezza anche nella sconfitta; solo, alla fine di una giornata trascorsa nell'ozio, non può far altro che meditare sul proprio passato, in un atteggiamento fisico che denuncia il suo dramma interiore: con gli occhi un tempo così fiammeggianti e sicuri abbassati e con le braccia conserte.

  e ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de' manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio,
e il celere ubbidir.
 

Passano, in rapida sequenza, davanti agli occhi di Napoleone, i ricordi di un passato per sempre finito, ma sempre recuperato con commossa nostalgia: le avanzate fulminee, gli assalti irresistibili, il sinistro luccicare delle spade, il galoppo travolgente della cavalleria, i rapidi e concitati comandi e la loro pronta esecuzione. Presto, però, come vedremo, Napoleone si accomiaterà anche da questi ricordi che gli portano l'eco di una vita che ormai non ha più senso per lui e troverà una nuova dimensione spirituale. La strofa ha un ritmo concitato che si oppone a quello lento e mesto delle strofe precedenti e che è ottenuto mediante l'accumulazione di elementi tutti dipendenti da un unico verbo («ripensò») e tutti introdotti dalla congiunzione «e» (polisindeto).

  Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aerei
pietosa il trasportò;
 

Forse, di fronte allo strazio provocatogli da quella ressa di ricordi, il suo animo non resse e disperò, ma provvidenzialmente intervenne la mano di Dio a risollevarlo. Proprio nel momento in cui è più solo e sta per sprofondare nell'abisso della disperazione, Napoleone ritrova la Fede e si salva. Attraverso il dolore e la sofferenza, insomma, Napoleone si purifica e si redime e a lui, uomo immeritevole, Dio, nella sua infinita misericordia, concede il conforto della Fede, ulteriormente dimostrando come l'uomo Napoleone non sia altro che l'elemento puntuale di un vasto progetto provvidenziale. Di fatto, da questo punto, nell'ode, Napoleone scompare come protagonista e al suo posto si accampa, vera e propria protagonista di tutto il componimento, la Provvidenza che, come si è servita di Napoleone quale strumento per la realizzazione dei propri imperscrutabili disegni, così ora lo salva, ribadendo il proprio ruolo nella storia umana. Perciò, questa strofa può veramente considerarsi il centro ideale dell'ode, evidenziando in modo netto quel confluire dell'umano nel divino e quell'ammissione della fragilità e caducità dell'uomo che solo Dio può riscattare e vivificare che costituisce il tema fondamentale della visione cristiana di Manzoni.

  e l'avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni al premio
che i desidéri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
 

Dio, una volta accorso in aiuto di Napoleone, lo guidò, attraverso i sentieri della speranza, cioè risvegliando in lui la fede in un mondo migliore, verso la vera vita, verso la vita eterna del Paradiso, in cui ogni uomo potrà trovare un premio che supera ogni umano desiderio e dove la gloria terrena non ha alcun senso. Per il cristiano Manzoni, dunque, la vera vita e la vera gloria toccano all'uomo solo quando questi, dopo aver definitivamente ripudiato se stesso, si abbandona alla Fede e si lascia guidare da Dio verso il raggiungimento di quella pace che si nutre di affetti e speranze non più legati alle cose e ai fatti della terra e si proietta invece nell'eterno. Tutti gli elementi che compaiono in questa strofa per caratterizzare la nuova condizione spirituale di Napoleone sono in potente contrasto con espressioni delle strofe precedenti, volte a sottolineare, invece, la sua condizione di uomo ancora legato ai valori terreni: così i «floridi sentier» che portano alla salvezza richiamano per contrasto il paesaggio desolato di Sant'Elena e lo scenario burrascoso del mare dei vv. 61-66; la «speranza» che ora anima l'uomo Napoleone è in evidente rapporto con «disperò» del v. 87; «il premio / che i desidéri avanza» richiama il «premio / ch'era follia sperar» dei vv. 41-42 e «la gloria che passò» richiama «la gloria / maggior dopo il periglio» dei vv. 43-44.

  Bella Immortal! benefica
fede ai trionfi avvezza !
scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Golgota
giammai non si chinò.
 

O Fede, tu che sei abituata ai trionfi, annovera tra le tue vittorie anche questa, che è certamente la più grande, dal momento che mai potenza terrena più superba si è piegata di fronte alla Croce del Cristo. La strofa traduce la gioia per la vittoria ottenuta dalla Fede su un personaggio eccezionale come Napoleone. L'intonazione freddamente oratoria di tutta l'apostrofe e la retorica superficialità di certe espressioni sminuiscono l'efficacia di questa strofa, che pure trova in «disonor del Golgota» un'immagine di rara pregnanza, giustamente celebre per l'intensità dell'emozione religiosa che ispira. Quest'ultima espressione, infatti, derivata da S. Paolo e dai grandi predicatori francesi del '700, è in questa strofa l'unico momento in cui l'autore si libera dalla sua retorica un po' troppo convenzionale, per proporre un'immagine che pone la Croce, simbolo di vergogna diventato per il credente simbolo di salvezza, in fecondo contrasto con «superba altezza» del v. 100, in tal modo riproponendo la propria concezione cristiana della vita e della storia come rifiuto di ogni gloria e ambizione terrena e come immedesimazione dell'uomo con il Cristo sofferente e vittima.

  Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
 

O Fede, disperdi lontano da quest'uomo, provato e redento dalla sventura e dal dolore, ogni parola di odio e di condanna: quest'uomo, infatti, accanto a sé, sul letto di morte, ha avuto Dio, quel Dio che solleva e consola i giusti e che punisce i malvagi. Alla misericordia di Dio, che ha permesso a Napoleone di redimersi e di salvarsi, devono accompagnarsi la pietà e la clemenza degli uomini per Napoleone: gli uomini, infatti, devono rendersi conto che nella vita di quest'uomo, riscattata dalla sconfitta e dall'umiliazione, si è realizzato il disegno divino.

Natalino Sapegno

© 2009 - Luigi De Bellis