IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL Neoclassicismo

 
 

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CRITICA: IL NEOCLASSICISMO

IL NEOCLASSICISMO DEL MONTI E DEL FOSCOLO

 

 

 

Il Monti risentì l'influenza del Savioli e di qualche savioliano: chi legga «L'aura armonica» del Mazza e la sua imitazione dal Mason «La melodia », coglie accenti e atteggiamenti teatrali che si ritroveranno nella «Prosopopea di Pericle» e nell'ode al Montgolfier; e chi lega «La parola di Dio» del Paradisi, vi trova non solo motivi de «La bellezza dell'universo», ma anche atteggiamenti teatrali che sono già di gusto montiano. Il Monti, appunto, trasformò in barocco il rococò del Savioli. Nelle due odi citate egli tendeva già verso la scenografia, che occuperà la parte centrale e più caratteristica di tutta la sua opera. Verso la fine del secolo il gusto della poesia passava dalla delicatezza fragile del Savioli e dalla correttezza incisiva del Parini al vistoso e al monumentale. La letteratura delle visioni, la poesia sepolcrale e ossianica, gli avvenimenti e le scene della rivoluzione francese e il costume romano in cui essa amava pompeggiarsi, e, in seguito, le ambizioni classiche di Napoleone contribuirono alla formazione dell'ibrido neoclassicismo del Monti, intessuto di reminiscenze classiche e di fastose e talora truculente prosopopee e coreografie.

L'età del Monti è anche quella dei grandi balli di soggetto mitologico o storico-classico. Certe scene dei poemetti montiani ci riportano vagamente al gusto del tempo, coreografico non meno delle visioni della letteratura epica ed epico-lirica che nel costume. La letteratura del periodo napoleonico, impersonata dal Monti, ma precorsa e continuata da molti minori, è essenzialmente esteriore, decorativa, spettacolare. Grandi spettacoli sono, nel Bardo della Selva Nera, il gigantesco fantasma che preannunzia le stragi della campagna d'Egitto; nella Basvilliana, la triste processione allegorica delle porte di Parigi, la bilancia di Dio che pesa «il fato della rea» città, i sanguigni fantasmi dei Druidi macabramente tripudianti alla decapitazione di Luigi XVI, le ombre dei regicidi che la eseguiscono, i cherubini che vegliano il corpo del re ucciso, la Fede e la Carità che ne raccolgono il sangue in coppe istoriate; nella Mascheroniana, Dio che, circondato dalla corte celeste, pesa i dolori e i delitti degli uomini e, sentite la Giustizia e la Pietà, «devolve» a Napoleone «il castigo d'Europa e la salvezza»: due cherubini, in mezzo a un cielo di qua sereno di là procelloso, consegnano al condottiero l'ulivo e la spada. La fantasia che ha immaginato queste scene non è molto diversa da quella che immaginerà le coreografie del Mistico omaggio, del Ritorno d'Astrea e dell'Invito a Pallade.

Queste rappresentazioni sono fatte con gran lusso di figurazioni allegoriche: motivo vecchio della nostra letteratura classica. Ma le personificazioni del Monti non hanno né l'esile sobrietà del Poliziano, né l'evidenza dell'Ariosto; sono invece, quando non dànno nel truce, figurazioni accademiche, da accostare, per la loro freddezza, alle allegorie che furono l'arsenale della scultura ufficiale e funeraria di un secolo e più. Di questi monumenti atteggiati ad una superficiale compostezza classica o ad un'appariscente grandiosità romaneggiante sono disseminate le opere del Monti.

Il neoclassicismo del Monti è, assai più che precisione di stile, opulenza stilistica e mitologica e convenzionalità figurativa e decorativa. Il Pianto, le Cure, la Follia, il Bisogno, l'Inerzia, la Fame, la Guerra, le Erinni, ecc. che stanno alle porte di Parigi, e le consimili persone che infestano il palazzo governativo della Cisalpina, sono rneccaniche reminiscenze di classici; altre, di altre letture. Il Monti attinge ai suoi autori come i pittori e gli scultori attingono alle iconologie gli elementi per la figurazione di entità astratte. Chi volesse studiare le manifestazioni deteriori della pittura e della scultura del tempo, vi troverebbe la stessa frigidità allegorica della poesia del Monti.
Quello che le conferisce il carattere di classicismo deteriore, è il modellarsi sopra uno stampo, e, sopra tutto, il fittizio amore per l'evidenza. Le virtù intorno al letto di morte del Mascheroni: Le Virtù, che diverse e pellegrine La vestir mentre visse, il mesto letto Cingean bagnate i rai, scomposte il crine »; l'anima del Parini, nella costellazione della Lira, afflitta per le sventure d'Italia: «Sovra un lucido raggio assisa in calma, L'un sull'altro il ginocchio, e su i ginocchi L'una nell'altra delle man la palma»; l'ombra dell'Ariosto, sdegnato per i vizi d'Italia: «Sovresso un marmo sepolcral seduta Stava l'afflitta, e della manca il dosso Era letto alla guancia irta e sparuta». Atteggiamenti convenzionali di cui potete trovare cento esempi in piazze e cimiteri.

Non migliore è la figurazione eroica. Rileggete il canto sesto del Bardo e il passo del Prometeo dove è ritratto il Bonaparte che, precorso da Bellona, scende dalle Alpi, "e su le porte cozie L'italo genio spaventato affacciasi". Lo stesso amore per la monumentalità allegorica e coreografica trapela dai cenni, sia pure rapidissimi, della canzonetta «Per la battaglia di Marengo»: dalla descrizione del Bonaparte che, vedendo il pianto sul ciglio dell'Italia, impugna il suo fulmine e vola in suo soccorso; dalla trasfigurazione classica del grande condottiero in Marte con l'asta in pugno; dalla rappresentazione del Tempo che abbassa reverente le ali sulla tomba di Desaix; dal colloquio sulla «cozia orrenda valle» fra l'ombra di Desaix e quella di Annibale. La canzonetta è concitata e fiammeggiante d'immagini: rima cela nelle sue pieghe i riflessi del gusto classiccheggiante e scenografico del tempo, di quel gusto che il Monti stesso aveva iniziato con «La prosopopea di Pericle» e che egli continuò fin verso la fine della vita.

Del suo gusto monumentale abbiamo osservato i segni più visibili: ma il suo stile ne è un indizio quasi continuo. Non vi troviamo epiteti oraziani, ma similitudini a largo sviluppo, un fare ampio e una pompa regale. Non potremmo disgiungere dal periodo napoleonico la sua traduzione dell'Iliade: dell'ira di Achille vi è detto in principio: «Molte anzi tempo all'Orco Generose travolse alme d'eroi»: anche in questa frase c'è un po' della pompa del tempo: ci sento il ritmo d'una fastosa cavalcata funebre.
Ma già in questo periodo il Monti cominciava a mescolare al suo solito stile un altro più sobriamente dignitoso e più fine. L'ode per il parto della vice regina d'Italia ricorda il Parini, e non solo per il metro: la monumentalità di qualche verso che vi celebra Napoleone è senza fragore e più veramente classica di un tempo, le personificazioni sono più sobrie, tutto l'andamento è più composto. Infine, qualche figurazione è di una finezza che ha fatto pensare a Foscolo e a Canova. Non solo l'Angelini ha parlato di un'affinità con il Foscolo a proposito del Monti degli ultimi decenni.

Qualche cosa di neoclassico c'è già in pochi passi dell'Ortis. Non parlo del tema della bellezza serenatrice, che ritorna non di rado nell'esaltazione di Teresa, ma del costume e delle figurazioni esteriori: dell'immagine di Teresa che suona l'arpa, quasi anticipando un quadro delle Grazie («i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente, tutto era armonia»), e di quella visita mattutina ad una patrizia di Padova, rappresentata come una rugiadosa dea che si leva dal talamo, e vagheggiata nelle sue forme con finezza d'un pittore e d'uno scultore neoclassico. Ma più che questo neoclassicismo del costume ci interessa quello dell'arte.
Il Foscolo delle Grazie riconduce il neoclassicismo verso i principi del Winckelmann, e mira come a suo ideale al Canova : del quale egli scrive: «E tu che ardisci in terra Vestir d'eterna giovinezza il marmo». Tutti frammenti, si può dire, riflettono quel lume di giovinezza. Ma sotto quei profili così puri di divinità, di poeti e di paesaggi palpita ancora un po' della passione dei Sepolcri: soltanto la tristezza è temperata in malinconia, e tutti i sentimenti sono allontanati dalla vita e dal cuore, vagheggiati come ricordi più che sentiti come stimoli di vita, e divenuti anch'essi motivi di quell' «aurea beltade ond'ebbero Ristoro unico a' mali Le nate a vaneggiar menti mortali». Le Grazie ci ricollegano alle odi, dove tutto è veduto sotto la luce d'Olimpo: ma ne approfondiscono i motivi e le immagini. Il Praz ha potuto illustrare le odi con richiami a temi figurativi pompeiani e del Primo Impero; ma tali richiami per le Grazie sarebbero insufficienti. Fra queste e le odi corrono parecchi anni di studi e di vita: nelle Grazie il senso della grecità si è fatto più sottile e l'aspirazione all'armonia interiore si è fatta più profonda, Direi quasi: si è fatta prepotente: ne sono un indizio la rappresentazione della poesia del Petrarca; molto diversa da quello che ne dirà il Foscolo critico sopra tutto quella del Decameron, immersa in un'elisia serenità di piagge, di Ninfe e di Fauni.
Queste figurazioni sono regolate dalla legge che domina nel poemetto, dove tutti i mezzi espressivi sono alleggeriti con una sovrana finezza. E perciò quello che nelle Grazie assomiglia alla scultura non è statua ma bassorilievo: e le pitture sono un'armonia di colori limpidi e morbidi, e sembrano immagini riflesse in un lago immobile in un primo mattino di sole, e i motivi musicali suonano stupefatti in un'aria tranquilla.

La tendenza al bassorilievo era già visibile qua e là nei Sepolcri: le Ore future che danzano, vaghe di lusinghe; la Speme che fugge i sepolcri; il mortale fermato dall'illusione sul limite di Dite; le Muse che «Siedon custodi dei sepolcri e quando il Tempo con sue fredde ali vi spazza Fin le rovine», «fan liete Di lor canto i deserti». Si può cogliere forse anche con più evidenza nelle Grazie, dove la tendenza a profilar figure e a formar gruppi o quadri è, per la natura stessa del poema, più manifesta: e specialmente nel frammento del «Velo», dove le Ore , le Parche, la Giovinezza che «canta fra il coro delle sue speranze», mentre il Tempo «percote a spessi tocchi» il suo plettro e le Grazie destano fiori a' suoi piedi e il convito dove il Genio va in volta coronando le tazze e in disparte siede «Il Silenzio arguto in viso e accenna Che non fuggano i motti oltre le soglie», sono, si voglia parlar di bassorilievi o di pitture, profilati appena, con un abbandono assoluto della monumentalità, perché il lettore senta che in essi le forme non sono che l'adombramento dello spirito. Il Foscolo, infatti, primo e solo fra tutti i neoclassici, è riuscito a infondere un'anima nelle forme classiche suscitate dal Savioli per vaghezza d'eleganza e dal Monti per vaghezza di grandiosità. Nelle Grazie vi sono atteggiamenti squisiti di danzatrici, consoni al gusto del tempo, e sonatrici d'arpa e cigni, cari anch'essi alle arti figurative di quegli anni, ma c'è sopra tutto una spiritualità raffinata da un senso della natura purificatrice e incantatrice dell'arte, quale non ebbero nemmeno Winckelmann e Canova. Espressione di questa spiritualità sono i colori freschi e silenziosi stesi sopra le cose, la linea delle figure leggera come un ritmo di canto, e quella musica che si libra sui passi ispirati e dissolve la faticosa vita nella serenità della visione e del ricordo.

Attilio Momigliano

© 2009 - Luigi De Bellis