Che il Monti sapesse di greco
più o meno; che alla
intelligenza del greco avesse
avuto luce e suggerimenti da
traduzioni letterali e
soprattutto da amici eruditi
come il Mustoxidi e il Visconti;
è cosa che può interessare
questa o codesta ricerca
parziale, e soddisfare a questa
o quella parziale curiosità: qui
non ha sua ragione. Una
espressione che il Monti abbia
raccolta e preferita perché più
esatta relativamente al testo
greco, vale non in quanto più
esatta, ma in quanto abbia
conservata o riacquistata
coerenza col generale tono della
traduzione e della poesia: se
non è così, se si avverte come
isolata e staccata, se non
risponde coerentemente allo
spirito nuovo dell'insieme, se
non è immersa e fusa nella nuova
unità, codesta espressione,
ancorché esattissima, è difetto
non pregio, è vizio e non è
virtù.
E quale è e che cosa è questa
unità Il Monti è poeta
letterato. Già aveva letta in
qualche versione l'Iliade, fino
da giovinetto presso
l'Università di Ferrara; la
rilesse, in qualche più recente
e meglio approvata versione, a
Roma; ne sentì parlare e
disputare da suoi amici eruditi,
filologi e archeologi, da E. Q.
Visconti massimamente, in quel
magnifico rinascere e rifiorire
degli studi antichi, quando e
dove tuttavia duravano l'eco e
la fortuna del grandissimo
Winckelmann e (Alfieri aveva
proposto di istituire l'ordine
dei cavalieri di Omero. Ai suoi
occhi Omero in espressione
raccolta e compiuta, era la
bella antichità, la bella
mitologia, la bella letteratura,
la bella immaginazione, la bella
eloquenza; ed egli pensò e
ricominciò a tradurre l'Iliade.
Disse Leopardi che il Monti non
è poeta, ma squisitissimo
traduttore; diciamo che è poeta
in quanto è, essenzialmente
poeta traduttore. Qui, veramente
il suo poetare non ha scorie o
residui; o assai meno che
altrove: di fronte a Omero egli
è veramente pieno di Apollo. Un
largo sentimento fantastico,
immaginoso, luminoso, lo penetra
e occupa intimamente; che è
l'impressione di un Omero veduto
un poco dall'alto, udito un poco
da lungi, non verso per verso e
nemmeno canto per canto, bensì
in una sua totalità piena che ne
adegua ogni avvallamento e ne
pareggia e nasconde ogni
connessa giuntura: come a un
profano - e giova talvolta esser
profani più che non paia - il
quale una gran cattedrale veda
nel suo insieme, con quel
soffice velo onde il tempo ne ha
ricoperti e fusi e confusi gli
strati diversi di formazione;
non come a un erudito che
codesti strati ed elementi, e le
età e gli artefici, discopre e
isola e distingue. Egli ha
dinanzi a sé un antico mondo
eroico animato e avvivato dal
suo stesso desiderio di amarlo e
di possederlo; e vuole
possederlo intiero; e Omero gli
dà il modo e il senso di questa
possibilità nella pienezza del
racconto e del mito. Da codesto
mondo l'Alfieri distacca alcune
figure, le investe del suo
spirito violento, le pone a
fronte, cozzanti e dure, su la
scena; e ne fa azione, dramma,
contrasto. Il Monti più che
raffigurare e rappresentare ama
raccontare e cantare; più che
senso plastico drammatico, ha
senso narrativo e musicale: e
l'epos omerico lo seduce e lo
abbaglia come una grande onda
voluminosa, abbondante e
lucente, sonora e solenne; il
mito e il racconto epico gli si
gonfiano nell'animo col calore e
col lievito di una orazione
eloquente. A ciò egli ha pronto
e sicuro, addestrato e affinato
da una consapevole tradizione
classica italiana e latina, lo
strumento del suo stile; e il
congegno mirabile, leggero e
saldo, snodato e compatto, del
suo endecasillabo. E così tutta
la Iliade, dal primo verso,
|
Cantami, o diva, del
Pelíde Achille |
è una meravigliosa espressione
di cantata eloquenza.
Ebbene, in codesto tono e suono,
certe che, raffrontate col testo
omerico, potrebbero parere
inutili giunte, si addicono
naturalmente: e non già per
compimento di verso, bensì per
finitezza di immagine e insieme
per ampliamento e arrotondamento
di frase c di ritmo e periodo
poetico, che qui è anche ritmo e
periodo oratorio. E la più
parte, anche in sé stesse, sono
giunte eccellenti. Vedete il
famoso cenno di Giove (I, 700
sgg.):
|
Disse; e il gran figlio
di Saturno i neri
sopraccigli inchinò. |
Quel «grande» non è nel testo;
ma subito ci prepara
mirabilmente, esaltando la
figura del dio, alla solennità
dell'atto tremendo. Dice Ettore
ad Andromaca (VI, 588 sgg.): Né
tanto mi accora il dolore del
padre ecc.,
|
quando il crudele
tuo destino, se fio che
qualche Acheo,
del sangue ancor de'
tuoi lordo l'usbergo,
lacrimosa ti tragga in
servitude. |
Il penultimo verso, si può dire,
è tutto del Monti: Omero dice
solo Quando alcuno degli Achei
vestiti di bronzo». Ma il Monti
rivive nella immagine il dolore
iroso di Ettore; e l'aggiunta è
perfettamente a suo posto.
Rispondendo all'ambasceria di
Agamennone, nel suo discorso a
Ulisse, che è una bellezza
singolarissima tutto quanto,
Achille dice tra l'altro (IX,
461 sgg.):
|
Sì, dimani vedrai, se te
ne cale,
coll'aurora spiegar su
l'Ellesponto
i miei legni le vele, ed
esultanti
tutte di lieti remator
le sponde. |
«Spiegar le vele» non è nel
testo; Omero dice «navigare»; e
nemmeno «esultanti sponde» è nel
testo. Con due tocchi il Monti
ha creato quattro versi
stupendi; dove l'immagine e il
sentimento dell'immagine sono
una cosa sola, in un eguale
tono; alla luce dell'aurora, sul
mare, quelle aperte vele
sembrano anche come aprire e
dilatare il respiro di Achille,
e quasi colorire e illuminare
del suo proposito di vendetta la
soddisfazione gioconda. Quando
Ettore restituisce ad Andromaca
il figlio, il Monti dice (VI,
638 sgg.):
|
ed ella
con un misto di pianti
almo sorriso
lo si raccoglie
all'odoroso seno. |
«Almo» non è in Omero; ed è
aggettivo di sapore un po'
arcaico e letterario; ma detto
di una madre, e di Andromaca, e
in quel punto, e con
quell'accento che riecheggia
dalla parola precedente,
ammorbidisce e distende il
verso, che è, dei versi del
Monti, specialmente bellissimo.
In generale è stato notato, a
biasimo, che troppo spesso il
Monti usa modi e parole
arcaiche, e dice, per esempio,
prore e non navi, delubro e non
tempio, destrieri e non cavalli,
lieo e non vino; e dice fiata,
sendo, renduto, e simili.
Talvolta il biasimo è giusto:
per esempio, la stessa parola
«almo», che sta bene nel verso
lodato sopra, non sta bene in II,
341, in quella parlata di Ulisse
a Tersite, così tra giocosa e
feroce. Ma una parola di tipo
arcaico o letterario comunque
ricercata o rara non è vizio per
sé medesima, bensì se non
intonata o male inserita al
contesto; se vizio per sé
medesima, parecchie cose della
nostra letteratura dovremmo
condannare, e bellissime: per
esempio, molte delle Odi barbare
del Carducci. Piuttosto non
sempre e non tutte si addicono
certe reminiscenze più
direttamente letterarie, dal
Petrarca da Dante dal Tasso: per
esempio, nello stesso episodio
di Tersite, le parole «pur d'auro
hai fame» (II, 298) ; e così
altre altrove, dove il colorito
oratorio non è affatto
commisurato, come qui, can la
situazione rappresentata, e
prevale inadatto e incomposto.
Anche spiacciono certi movimenti
e atteggiamenti melodrammatici
di impostatura alfieriana: per
esempio, I, 181, 236, 384 e
simili. Ma bisogna riconoscere e
dire che questi e quelle
sfuggono il più delle volte, e
si perdono e smorzano nella
continuità del raccontare
poetico; o non offendono
duramente. Anche è stato notato
che dove Omero ha più spesso
proposizioni staccate o
coordinate o comunque in eguale
piano, e per ciò stesso con
rilievi antitetici che
conferiscono a una espressione
più concitata e più mossa; il
Monti meglio ama congiungere per
subordinazione, accentuando e
accentrando punti determinati, e
dare insomma più ampio giro e
come una lunghezza più flessuosa
e rotonda alla frase e al
periodo. Inutile cercare e
recare esempi. Se non che, pur
fatta ragione della diversità
necessaria tra le due lingue,
anche qui la maniera del Monti
muove solitamente dalla sua
ispirazione medesima, che è,
come dissi, di tradizione
letteraria classica e di
colorito oratorio; e dunque,
anche qui, dal di dentro, non
dal di fuori. E come ciascun
elemento, aggiunte di parole,
ricercatezze verbali, e in
ispecie compimenti e ampliamenti
di frase e di immagine, sono
suggeriti per istinto da questo
fluire melodico che cerca per
ogni insenatura modi e mezzi al
suo appagamento e alla sua
espressione compiuta; così a
loro volta si immergono essi in
questo fluire, e gli servono
docili e lo accrescono e lo
moltiplicano di mobili onde,
componendosi l'un l'altro e
annullandosi in compatta unità e
armonia.
Della quale più sensibili
testimonianze si potrebbero
avere, chi esaminasse
minutamente qualche episodio
singolo. Il Monti non traduce,
ma interpreta: che è pur l'unico
modo di tradurre. Subito egli
coglie di un episodio, di un
personaggio, di un'azione,
l'accento fondamentale; e a
quello volge e piega il suo
interpretare, che è il suo
tradurre, e intona il suo canto.
Non ha deviazioni o urti o
arresti, come chi sia
preoccupato di altro e ad altro
intenda: come chi, per esempio,
si affatichi su l'analisi
verbale del testo, o si adoperi
di seguir certo stile e di
provocare e ottenere effetti
voluti. Egli ha dentro una sua
musica: e quella ode, e a quella
obbedisce.
Vedete, per esempio, (episodio
di Tersite. Subito dal principio
sentite che la fantasia del
Monti è già presa e immersa
nella volgarità maligna e
buffonesca della scena e della
persona. Il lessico è volgare:
«vomitava» è del Monti (II, z79)
; anche la parola «cerèbro» (v.
278), che a taluno può parere
preziosità letteraria, è di tono
volgare e realistico, come nel
verso di Bertram da Bornio
«partito porto il mio cerèbro»
ecc. La figura di Tersite è
animata in un rilievo netto; e
come sbalzate a rilievo sono le
parole stesse di questi versi,
in quel loro martellare gremito
di accenti (v. 283 sgg.):
|
Non venne a Troia di
costui più brutto
ceffo; era guercio e
zoppo, e di contratta
gran gobba al petto;
aguzzo il capo, e sparso
di raro celo. |
«Ceffo» è interpretazione
bellissima del Monti, che nella
figura dipinge l'animo: Omero ha
solo uomo. Figura, animo, voce,
hanno un che come di animalesco
e di canino, di puntuto e di
aguzzo: aguzzo è il capo e
puntata la gobba, come stridula
è la voce (v. 289). Anche
«morder rabbioso», dove Omero ha
«offendere», è del Monti (v.
288) ; e così più sotto
«l'abbaiar di questo cane» (v.
358), «la frega di dar morso»
(v. 360), sono in un tono di
coerenza perfetta. Ed ecco la
gran bastonatura di Ulisse, e il
riso dagli Achei (v. 320 sgg.):
|
Gli fu sopra
reperite il figlio di
Laerte, |
ecc. Rivediamo il mostriciattolo
piccolo zoppo gobbo pelato, che
più piccolo si abbassa e si
rannicchia; e sopra di lui il
grande Ulisse, col bastone
levato: e la «tempesta» dei
colpi, e la «schiena rubiconda»,
e il tristo che si contorce e
piange, e appena osa guardare di
traverso, «obbliquo», e appena
alzare la mano non per
difendersi - una mano quasi
abbandonata, «il dosso della
mano» - ma per asciugarsi il
pianto (v. 345 sgg.). Non si
dice che il Monti compia dove
Omero sia incompiuto; ché ognuno
che traduce compie: e compie non
la espressione altrui, della
quale anzi taluni elementi o non
accentua o tralascia, bensì la
espressione propria, e cioè la
propria interpretazione e
visione. Perché questo solo è
tradurre, dove tradurre è
poesia.