LUCI E OMBRE
NELLA POESIA PARINIANA
Il Parini
fu, senza dubbio, un grande poeta: ma non fu uno di quelli
con cui siano permesse le idolatrie. Fu un rinnovatore della
materia poetica, quale di rado ebbe l'Italia, e un artista
capace di atteggiamenti assai disparati. Chi passa
dall'Arcadia e dallo stesso Metastasio al Parini, si
meraviglia che in quel secolo sia nato un poeta capace di
tanta concretezza, e in campi del tutto ignoti alla poesia
contemporanea. L'ambiente elegante è sottinteso in gran
parte della lirica del tempo: solo nel Parini è descritto. E
la sua descrizione non è lo sforzo retorico della poesia
didascalica del secolo; ma uno specchio luminoso e preciso.
I salotti, i lunghi ordini di sale, gli scaloni, i mobili -
il canapè -, gli arnesi e i ninnoli sono ora delineati con
un pennello largo e sicuro, ora delimitati e intagliati
dalla parola con un nitido rilievo: sicché anche l'ambiente
materiale, che di solito è assente dalla poesia o è cosa
morta, qui diventa, per questo sguardo attento e chiaro,
vera e difficile poesia. Il Parini è forse il più grande
poeta descrittore che abbia avuto l'Italia.
Ed è, con il Porta e con il Folengo, il nostro più grande
poeta caricaturista. Ma qui è già più facile notare quella
relativa debolezza che le descrizioni, naturalmente,
nascondono meglio. In genere le sue caricature sono
esteriori, rivelano assai poco dell'anima. Il famoso inchino
in più tempi del maestro di ballo si riflette, con varietà
non sostanziali, nelle mosse compassate del giovane signore,
della giovane dama, di altri nobili. Anche nelle celebri
macchiette del divoratore e del vegetariano la parte
spirituale è più commento, sia pure arguto, che
rappresentazione. Solo l'immortale sfilata degli imbecilli,
nella Notte, mostra nel Parini caricaturista la capacità di
rispecchiare in un gesto la rovina profonda di una anima:
quel nobile incretinito che per ore e ore ridesta gli echi
delle sale immense agitando con il suo braccio magistrale la
frusta sotto i ritratti dei grandi antenati, è la più
geniale e corrosiva immagine fantastica della senilità del
mondo rappresentato nel Giorno. Di rado il Parini ha saputo
inventare situazioni poetiche così significative e tradurle
in una forma così bizzarra e così concentrata.
La Notte, veramente, tradisce in lui un altro poeta. Direi
che è il suo capolavoro, se il Mezzogiorno non contenesse
quella pagina di suprema eleganza, di squisitissima
ambiguità fra l'adulazione e la canzonatura, di magistrali
trapassi, di prodigiosa densità, di tetro e furibondo dolore
che è la scena della «vergine cuccia», e quell'esordio nudo,
grandioso, religioso della favola del Piacere.
Il Parini fu insieme il demolitore e il cantore della
società contemporanea: forse la Notte è la parte del poema
dove si vedono più compiute le due facce. Quell'ambiente,
fine, grazioso, sensuale, lo attirava e insieme lo
respingeva. Dovette spiare anche lui, rapito, i nascosti
candori delle belle dame, e sorridere ai loro svenimenti, e
respirare l'aura di solitudine e di peccato che spirava
dagli angoli discreti di quelle sale: perciò nessuno come
lui ci ha fatto indovinare l'ebrezza tentatrice di quel
mondo. Ma, volte le spalle alle dame gentili, non vedeva più
in quei palazzi altro che la testimonianza e il teatro di
una vita oziosa e corrotta. Quella filza di maniaci che ci
passa dinnanzi nella Notte è, dopo tanti anni che egli aveva
cominciato a descrivere come il giovin signore potesse
ingannare i suoi «noiosi e lenti giorni di vita», l'unica
forte prova che egli vedesse bene addentro lo sfacelo di
quel tedio.
La Notte, pur così incompiuta, è l'opera del Parini che ci
dà la più larga misura del suo ingegno poetico. Vi si
continua, non nel principio - troppo celebrato -, ma nel
seguito, la poesia indefinita e meditabonda delle ombre, che
già aveva avvolto in un'aura prefoscoliana la fine del
Vespro; vi si aggruppa la società nobiliare con l'arte che
hanno i grandi pittori nella distribuzione dei personaggi
lungo la tela di un quadro affollato. Il concilio dei numi
nella sala della vecchia dama è, per parecchie centinaia di
versi, d'una singolare ricchezza di motivi caricaturali,
descrittivi, sentimentali, e si chiude con la scena del
giuoco dei tarocchi e delle carte, che per grandiosità e
complessità di linee e di sfumature è il capolavoro delle
canzonature pariniane.
Il poeta s'accorge, certo che l'impostazione del Mattino era
pericolosa e che non si poteva continuare con quel tono
didascalico minuto, con quello scrupolo di maestro a cui non
sfuggiva nessuna delle possibili occupazioni del discepolo.
Lo prova il fatto che dalla prima all'ultima parte del
Giorno l'attenzione del precettore si sposta sempre più
risolutamente dal giovin signore alla società in cui egli si
muove: ma questo pentimento è perfetto solo nella Notte,
assai meglio composta del Vespro. Il Parini, dunque, si
accorse che egli poteva sfuggire alla monotonia e alla
pedanteria del tema: il De Sanctis, dunque, parla di
«fatalità» dell'argomento con troppa indulgenza.
Qui tocchiamo appunto uno dei difetti fondamentali del poema
- non il solo -. Non era necessario concepire la descrizione
della giornata del giovin signore con quella diligenza
pesante con cui la concepì il Parini, specialmente nel
Mattino. Bastava descrivere, non tutte le possibili giornate
del signore, ma una sola e tipica. Con questa
semplificazione che più tardi si affacciò alla fantasia del
Parini, il tema diventava naturalmente drammatico e mobile
invece di essere, come rimase soprattutto nel Mattino,
descrittivo e stagnante.
Può sembrare angustia di critico notare i legami più
retorici che poetici, e l'abilità puramente esteriore
nell'enumerare i casi possibili nella giornata del signore:
ma è certo che questi sono i segni di una concezione debole
e la spiegazione della fatica che si prova in una lettura
continuata.
Si finisce col ricevere l'impressione che il Parini, perduto
dietro quelle quisquilie così simili fra di loro, sia un
poeta un po' limitato. Perciò anche quelle descrizioni, ad
una ad una nitidissime, finiscono per parere soverchie.
L'altro difetto fondamentale è la mancanza di unità. Una
descrizione unitaria della poesia del Giorno è impossibile.
Eppure la poesia grandissima impone sempre la ricerca del
motivo dominante: non importa che l'impresa sia difficile,
che il risultato vari da critico a critico e magari si
sposti di esame in esame: tutti sentiamo che la Commedia, i
Promessi Sposi, i Sepolcri, hanno motivo poetico che spiega
tutti gli altri. Questo nel Parini non accade. La sua
coscienza virile spiega una parte del Giorno, non tutto.
L'uniformità del poema è più stilistica, voglio dire
esteriore, che poetica. Nel Giorno c'é una grande ricchezza
di motivi non unificati. Non li ho ancora indicati tutti:
posso aggiungere l'aspra poesia del lavoro umano, ritratto
con le impronte visibili del travaglio d'ogni giorno; la
gradazione dell'ironia, che in certi passi ha una
grandiosità davvero sinfonica: l'attitudine alla
rappresentazione epica, che talora giova alla canzonatura,
talora la rende monotona e forzata, talora costituisce in sé
e per sé un passo di alta poesia; uno squisito senso della
decorazione... Ma il complesso di questo fine mosaico è
frammentario, il disegno è più ordinato che sapiente, la
vita intima manca spesso.
Si è detto: - Il protagonista è un nobile frivolo e vuoto:
non poteva e non doveva riuscire un personaggio vivo -. E
non è vero. Qualunque anima si presta ad una
rappresentazione pensosa: tutto dipende dal poeta che la
ritrae. Ma poi non importerebbe nemmeno che il protagonista
per sé non fosse un vero personaggio; quello che è
necessario è che la vita circoli ininterrotta nel mondo
scritto dal Parini; e questo non accade. Il Goldoni ha
commedie di ambiente animatissime, pur senza che i singoli
personaggi abbiano caratteristiche originali. Il Parini,
dunque, non ha osservato quella società con uno sguardo
insieme mobile e sicuro, con l'agilità di spirito che sembra
necessaria per il suo argomento. Io penso cosa sarebbe
riuscito il Giorno se egli avesse avuto, con le altre doti,
la facilità di motteggio e la fertilità inventiva che ebbe
il Voltaire nei suoi brevi romanzi, o se avesse saputo
insinuare fra pagina e pagina l'atmosfera malinconica, tetra
dell'ozio dei grandi. |