IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL REALISMO

 

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IL REALISMO

VERISMO COME RINUNCIA ALLE ROMANTICHE PASSIONI


Al Naturalismo francese non rimase estranea la letteratura italiana, sia per il diffondersi anche da noi del Positivismo, sia perché altre ragioni, squisitamente nostre, invitavano la letteratura ad accostarsi alla realtà: quelle ragioni determinavano una nostra via al Realismo che da noi si disse Verismo. Un atteggiamento nuovo si manifestava nella nostra spiritualità, non solo sul piano filosofico, ma anche su quello sociale e politico, per certe constatazioni ormai inequivocabili: i problemi politici che il romanticismo aveva fatto suoi fino alla identificazione fra liberale e romantico non erano stati risolti con lo slancio degli eroi delle barricate; l’apostolato ascetico di Giuseppe Mazzini, il disperato coraggio di Carlo Alberto e lo spontaneismo degli intellettuali neppure un piccolo cenno avevano fatto alla risoluzione dei gravi problemi, entro i quali si dibatteva la nostra vita politica e sociale. La fredda oculatezza del conte di Cavour, la sapiente costruzione di relazioni e compromessi diplomatici, soprattutto la vigile attenzione ad ogni fatto politico, anche il più lontano, e il calcolo esatto dei mezzi e delle forze nostre ed altrui, rendevano infine possibile quella unificazione dell’Italia, per la quale tanto si era sperato e sofferto. Dalla unificazione poi, altri problemi erano nati, alla cui soluzione si poteva pervenire solo con la più scrupolosa e precisa obbedienza alle indeclinabili leggi economiche.

Tanto valeva a sospingere le nostre lettere _ espressione viva dei bisogni e delle condizioni spirituali di un popolo _ verso la realtà quotidiana e l’analisi puntuale dei suoi elementi, senza concessione alcuna così ai teatrali lamenti delle patetiche novelle e ballate romanze, sature tutte di cantabili passioni, come a quei dolciastri viluppi di storia e amore che caratterizzavano la cosiddetta Arcadia Romantica. A tutto questo il Verismo reagiva in nome della verità e della chiarezza, pur conservando della corrente che lo aveva preceduto l’eredità migliore: cioè certo realismo manzoniano, la rinuncia al calligrafismo, la "popolarità" dell’arte. Va detto che da noi il Realismo perdette gli aspetti del Naturalismo francese, così come ne abbandonò certi atteggiamenti polemici, per un più mite e raccolto discorso. Lo stesso teorizzatore del nostro Verismo, Luigi Capuana, definito caposcuola del Naturalismo italiano proprio da Emile Zola, al quale lo scrittore italiano dedicava il romanzo Giacinta, non può considerarsi caposcuola del Verismo. La nostra vera letteratura verista, quella che va aldilà di una poetica e raggiunge i limiti dell’arte, è ben diversa per impostazione, connotati e sviluppo da quella naturalista francese, a cominciare dalla minore incidenza che ebbe sulle nostre lettere il principio della ereditarietà, e dalla maggiore accentuazione del principio della impersonalità (teorizzata da Giovanni Verga in una lettera a Salvatore Farina, premessa alla novella L’amante di Gramigna, nella raccolta Vita dei campi). Non parliamo di nascita della letteratura verista con Capuana, la cui opera narrativa vale semmai come documento di storia letteraria, piena e gravata come è dei suoi postulati di psicologia, condizionata dalla trattazione sottile di casi patologici osservati con la freddezza e la perizia di uno psicologo esperto, con l’aggiunta di casi di telepatia e di occultismo. Lo stesso romanzo Il Marchese di Roccaverdina, la sua opera più impegnata a stare con Giuseppe Petronio, e che segue da vicino la traccia del romanzo naturalista francese, con concessioni alla ereditarietà e all’ebetismo _ e insieme si avvicina per certi aspetti alla forte narrativa di Dostojevski _ non è unitariamente poesia. Questa traspare solo quando Capuana abbandona le tesi e il dettato altrui e il compiacimento per il caso eccezionale, per soffermarsi a descrivere un ambiente in cui persistono, irriducibili, secolari tradizioni.

La nostra autentica arte verista, per espresso invito di Capuana, abbandonata la sottosocietà rappresentata dal Naturalismo francese, si volgeva ad osservare con scrupolosa attenzione il popolo della provincia, quella categoria di gente semplice e genuina, nella quale meglio traspaiono le passioni nella pienezza dei loro impulsi; quell’ambiente non rozzo, ma primitivo delle campagne e dei paesetti, dei rioni, delle borgate, nel quale la civiltà evoluta non ha ancora soffocato la immediata espressione dei bisogni e dei sentimenti. Non vi furono nella letteratura verista i deformi della psiche, come non vi furono i deformi del corpo e quando queste rappresentazioni compaiono, si sente il logorio della maniera e il compiacimento per la scena ad effetto, si scorge finanche un gusto di oleografia. Troviamo piuttosto creature dolorosamente legate all’ambiente, incapaci di superare i limiti loro assegnati dalla sorte, e di abdicare alla mentalità che quello spazio conserva e nello stesso tempo prescrive. E’ questa una via che il Naturalismo francese non percorreva, pur nella varietà e complessità delle sue prospettive e nella ricchezza dei temi. La nostra tradizione letteraria era sostanzialmente dissimile da quella francese; e come in Francia agivano indirizzi e maniere di considerevole peso nel determinare la via naturalista, così da noi il Realismo trovava un suo condizionamento nell’esempio di Alessandro Manzoni.

Non si può negare che i nostri Veristi trassero alimento e guida dai Naturalisti d’Oltre Alpe; ma bisogna anche ammettere quanto determinanti siano state, per gli indirizzi e i modi del Verismo, sia le nostre condizioni politiche e sociali, sia quelle letterarie. Se infatti il Verismo volle una letteratura di cose e non di astrazioni, un esercizio letterario antitradizionale e perciò antiretorico, I Promessi sposi rispondevano alla domanda, soddisfacendola anche sul piano linguistico e letterario, lontana come era l’opera di Alessandro Manzoni da ricercatezze formali e calata invece nel vivo della sensibilità popolare. Quanto al tratto realistico, il modello offerto da I Promessi sposi rispondeva alla nuova poetica, almeno sotto un certo profilo: non solo per alcune rappresentazioni violentemente crude, come le scene del lazzaretto _ e tra queste, quello spaccato di naturale modernità, con le donne che allattano in generosa mescolanza alle bestie, i piccoli infermi e l’apparizione dei monatti; e la descrizione documentaristica della rivolta di Milano, per la sottile indagine rivolta a far capire il popolo minuto nelle sue aspirazioni, nella sua interpretazione dei valori della vita, nelle sue reazioni istintive, nei suoi postulati sociali. Né basta: che l’opera narrativa di Manzoni rispondesse alle caratteristiche del romanzo-documento è provato dalla descrizione storicamente puntuale delle condizioni politiche, sociali, religiose, morali del secolo in cui è collocata l’invenzione. Quando l’Autore volge la sua attenzione alla vita dei paesetti sparsi nel territorio comasco, come il paese di Lucia, allora il romanzo diviene anche il primo esempio di narrativa di provincia. Anche sotto questo aspetto Manzoni prepara il Verismo, e ben a ragione Luigi Russo definì provinciali i naturalisti italiani, intenti come si rivelarono a studiare appunto la vita delle singole regioni. In una involontaria e originale collaborazione essi offrivano ai lettori di tutta la Nazione un quadro pressoché completo della realtà italiana delle borgate e dei paesi dimenticati.

A raccogliere tutta insieme la letteratura verista si riceve l’impressione di una collaborazione fra cartografi, impegnati ognuno per proprio conto nel suo particolare rilevamento; ma necessari l’uno all’altro, per la interezza del disegno. Sotto questo aspetto il Verismo assolse una funzione costruttiva sulla via della unificazione spirituale della Nazione: faceva conoscere l’Italia agli Italiani, proponeva alla conoscenza e alla responsabilità di tutti i problemi particolari delle province. Certo non agiva per la unificazione integrale delle popolazioni, che or ora si erano unite nel nuovo Regno sabaudo, la via scelta dai Veristi in fatto di lingua. Quella unità che finora si era auspicata, almeno in termini letterari, fino alla manzoniana identificazione di lingua letteraria e lingua di uso, si frantumava sul nascere. Riaffermavano la loro irriducibile vitalità quei linguaggi regionali che rappresentavano la lingua vera delle popolazioni italiane: la lingua non fredda e inerte e immobile della retorica, quella insomma, che per essere di tutti non era di nessuno. La lingua dei Veristi fu invece un mosaico, e quindi lingua storica degli Italiani; quella lingua che ancora oggi è comprensiva di pronunce e suoni diversi, nella individualità delle regioni, con buona pace delle superiori scuole di ortoepia. Portare a livello di fruizione letteraria le lingue regionali, come pretendeva la poetica del Realismo, dal momento che non si poteva accettare che dotti e non dotti, gente colta e poveracci parlassero allo stesso modo, e tutti insieme a modo dello scrittore, non era un esercizio facile; dare alla lingua approssimativamente nazionale l’impronta tipica della provincia, senza scadere nel dialettale o addirittura nel gergale, non fu da tutti e non si risolse in esiti sempre felici. Si può dire piuttosto che aldilà di Verga, così sapiente costruttore di piani narrativi diversi, non vi furono altre soluzioni improntate a stabile equilibrio. Per via dei facili slittamenti nella parlata casereccia (fenomeno già verificatosi con il manzonismo degli stentarelli) si ponevano le premesse di quell’abuso che, in mano a certi cosiddetti realisti del Novecento avanzato, si sarebbe rivelato scempio linguistico, gusto della dissacrazione, esibizionismo neo-barocco, sciatto e fragile populismo.

Chi voglia approntare una scheda del rappezzo verista, potrà procedere dalla Sicilia, in cui furono ambientate le prime storie, verso il Settentrione, tenendo presente che quelle esperienze letterarie, talvolta solo tentativi, ebbero valori diversi, sia per il livello artistico a cui pervennero, sia per l’influenza che esercitarono sulla letteratura successiva. La Sicilia fu rappresentata da Luigi Capuana, da Giovanni Verga, da Federico de Roberto, mentre Nicola Misasi, con toni modestissimi, risultanti dalla compenetrazione dell’insegnante medio e del giornalista, rappresentava la Calabria e la Sila. A Napoli la lirica e la narrativa e la drammaturgia di Salvatore Di Giacomo rivelavano i colori e le pene di una città, dalla gente rumorosa e teatrale, con particolare indugio all’ambiente dei bassi; Matilde Serao prediligeva invece, nel suo periodo migliore, il ceto piccolo-borghese e quello degli aristocratici decaduti o l’ambiente degli artigiani industriosi, compiacendosi di descrivere i suoi tipi di donne con rara sensibilità. Roberto Bracco, pur con le sue aperture verso il teatro di Henrik Ibsen, avrebbe completato il quadro napoletano calandovi la società ricca e gaudente, affaticata nelle esperienze del sesto senso e nel centellinare l’ozio con perizia eccezionale. Nel Lazio Cesare Pascarella

così fine di sentimento, così sagace di osservazione, così scaltrito nell’arte […] rappresenta la psicologia popolare illuminata dalla sua personale (Benedetto Croce La letteratura italiana, a cura di M. Sansone, Laterza, 1956).

In Abruzzo Gabriele D’Annunzio nelle Novelle della Pescara e ne La figlia di Iorio a forti tinte racconta la primitività della sua gente. La drammaticità statica della eclettica arte di Grazia Deledda traduce in termini di passionalità e di silenzio la genuina Sardegna; mentre Renato Fucini, il macchiaiolo della letteratura, e Mario Pratesi con complicazioni autobiografiche, presentano la realtà della Toscana. Il Verismo del Settentrione lascia tracce nel Piemonte con Achille Giovanni Cagna, Giuseppe Giacosa e Giovanni Faldella, e a Milano con Gerolamo Rovetta che, ormai lontano dalla via strettamente verista e provinciale, quasi chiude, con quel suo indugio fra ceti ricchi della industriosa capitale lombarda, la iperbolica storia di una corrente che, nata fra le istanze proletarie, si riportava al tradizionale impianto borghese.

Vincenzo La Forgia

© 2009 - Luigi De Bellis