Prefazione al Petrarca
I rerum vulgarium
fragmenta del Petrarca si presentano al lettore moderno
con un duplice aspetto e consentono, per così dire, due
modi di interpretazione. Per un verso infatti si possono
ridurre a una raccolta di poesie, composte in un lungo
periodo di tempo (all'incirca dal 1330 al 1365),
ciascuna delle quali può essere considerata a sé, ha
cioè una sua unità lirica o letteraria, è un organismo
compiuto in se stesso. Per un altro verso, tutti questi
testi convergono a comporre un libro; alle unità singole
si sovrappone un'unità più vasta e complessa; i diversi
momenti lirici si compongono in una serie organica,
contribuiscono a definire un'immagine che prende forma
soltanto da una lettura seguitata e integrale.
Questo doppio aspetto risponde in qualche modo alla
genesi dell'opera, perché il proposito di una
trascrizione e di una scelta, prima, di un ordinamento
obbediente ad un criterio precostituito, poi, sorsero
nella mente del poeta, come è naturale, soltanto quando
già esisteva una ricca messe di testi nati giorno per
giorno sulla trama delle occasioni e delle situazioni
contingenti. E il proposito stesso di un ordinamento
passò per varie successive fasi, che il filologo riesce
parzialmente a identificare, prima di raggiungere,
nell'autografo vaticano, la sua forma finale, se non
propriamente definitiva (nell'animo almeno dello
scrittore, fino all'ultimo perplesso ed incontentabile).
D'altronde la duplicità accennata si ripercuote anche in
seno a quell'ordine raggiunto e nel titolo stesso del
libro; che è, o vuol essere, appunto un libro, ma pur
risulta di fragmenta, di «rime sparse»; ed è una storia,
un'effigie ideale, che comporta persino un fine morale e
didattico, ma nello stesso tempo è anche un diario, il
riflesso vario accidentato interrotto di un'esperienza
sentimentale che si svolge nel tempo e tende a sfuggire
ad ogni pretesa di ordine e di architettura.
Sarebbe abbastanza facile, ma corrisponde solo in parte
al vero, riconoscere in questa ambiguità della struttura
la riproduzione di un contrasto, che esiste senza
dubbio, fra la sopravvivenza di una mentalità medievale
e scolastica, che impone all'arte una funzione educativa
e la risolve, magari per vie tortuose e indirette, in
allegoria, e l'insorgere prepotente di un'ispirazione
modernamente soggettiva e lirica, che obbedisce soltanto
a un proposito di sfogo e di illuminazione della
coscienza, entrambi immediati e assolutamente liberi.
Vero è però che, da un lato, il lirismo stesso del
Petrarca si compone fin da principio per molti riguardi
in una tradizione della lirica amorosa provenzale e
italiana del XII e XIII secolo; dall'altro, l'intento
unitario e architettonico del libro non rispecchia
soltanto una concezione antiquata, ma un'esigenza
attuale del poeta, la sua cosciente volontà di
affermare, anche polemicamente, il nuovo ideale, la
nuova visione della realtà, che egli incarna con sottile
coerenza nella vita e negli scritti.
È questo l'ideale che oggi chiamiamo umanistico; il
quale proprio in quegli anni, e per merito del Petrarca
sopra ogni altro, nasceva e si affermava in Italia,
parallelamente al dissolversi della civiltà comunale e
in rapporto con le nuove condizioni di vita imposte
dalla civiltà delle signorie. Ideale caratterizzato dal
progressivo straniarsi del letterato, ormai ridotto ad
un compito tutto burocratico ed ornamentale, dalle lotte
e dai problemi pratici, politici morali e religiosi, che
avevano così fortemente impegnato l'umanità la polemica
e la poesia di Dante. Ideale in se stesso
contraddittorio, in quanto comporta un reale
impoverimento, una vera e propria mutilazione
dell'esperienza umana e il crollo di un ordine
intellettuale e morale e una profonda frattura tra le
forme della vita associata e il mondo della cultura, che
tende sempre più a rinchiudersi nella sua solitudine e a
ritrovare in essa, e in essa soltanto, le superstiti
ragioni del suo orgoglio, e del suo prestigio, e pur non
si rassegna a rinunciare a quella tradizionale funzione
di guida e di ammaestramento, che le circostanze
obiettive lo rendono ogni giorno più impotente ad
assolvere in un senso pieno ed efficace.
Proprio qui deve riconoscersi, anzi, il significato
storico dei Rerum vulgarium fragmenta: nella presenza di
un proposito unitario continuamente contraddetto, ma non
distrutto, dal contenuto reale dell'ispirazione; la
quale è essenzialmente lirica, e cioè individuale e
solitaria, e pur tende a proporsi come una norma di
valore assoluto e riesce di fatto ad esser sentita come
tale nel corso dei secoli, sia pure soltanto in una
cerchia aristocratica di spiriti privilegiati. Sì che la
contraddizione, che si avverte nell'assunto del
canzoniere petrarchesco, è in sostanza il riflesso della
contraddizione più profonda insita in quell'ideale
umanistico, di cui essa è la prima, e poeticamente più
intensa espressione.
Il canzoniere del Petrarca, è nella sua sostanza
materiale, una storia d'amore, la storia di una passione
costante e non mai domata, dinanzi alla quale non pur
gli altri affetti minori, ma le idealità stesse più
nobili e alte retrocedono, diventando secondarie e
marginali. Passione umana e terrena, desiderio che
investe tutta l'anima, e la carne, tanto più profondo e
imperioso quanto meno è esaudito e soddisfatto, vivente
ancora quando già, per la dipartita di Laura, ogni
speranza è morta. Questo amore (come appare dalle
confessioni minori del poeta, e specialmente da alcune
pagine del Secretum) ha in sé qualcosa di oscuro e di
morboso, nella sua natura stessa di desiderio
perennemente inappagato, nella sua durata oltre la morte
della donna, nella sua qualità di affetto unico e
tirannico. Talora pare che il poeta si rassegni nella
consuetudine del desiderio e del sogno, talora invece la
passione insorge più prepotente e lo fa cercare la
realtà della donna, e lamentarsi e implorare pietà e
rimpiangere gli anni che fuggono senza consolazione e
senza speranza; talora anche, stanco di tanto aspettare
e desiderare invano, il poeta invoca di essere liberato
dal suo travaglio, ma poi vi ricade e ritorna alle
inutili ansie, ai morbidi vagheggiamenti
dell'immaginazione, alle preghiere, al pianto. Morta
Laura, egli trasferisce il suo amore nel cielo dove ella
è salita, e la rievoca nei sogni, donna ancora
bellissima, anzi più mite con lui e quasi materna, più
sollecita delle sue pene, meglio disposta a consolarlo;
ovvero, rivolgendosi a considerare la dura realtà della
morte, vede il mondo fatto squallido e vuoto, prato
senza fiori, anello senza gemma, e piange inconsolabile
la perduta speranza della sua beatitudine. Ma intorno al
nucleo costituito da questa storia d'amore si raccoglie,
a guardar bene, una assai più vasta e ricca materia
sentimentale; e cioè tutte le perplessità e le
oscillazioni dell'animo petrarchesco, le sue
preoccupazioni etiche e religiose, le sue angoscie, un
fervore di passioni varie ancor più vagheggiate e
contemplate che vissute. Non Laura, sì il poeta stesso
campeggia nel quadro come protagonista; non le vicende
esteriori dell'amore, si le ripercussioni di quelle
nella vita intima del Petrarca costituiscono la materia
affettiva del canto. E la storia stessa angosciosa e
mutevole di quell'amore si trasforma in un simbolo
dell'infermità del poeta, perché in essa si riassume il
gioco vario e intricato delle passioni in contrasto con
l'esigenza viva sempre, e mai soddisfatta, di un
superiore equilibrio. |