IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

Petrarca
 

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: PETRARCA

La poesia del Petrarca (2)

«Primo poeta moderno», dunque, in questo senso che in lui pel primo si vede l'aspirazione a un'inconseguibile beatitudine nell'amore di una creatura, magicamente concepita come datrice di perfetta beatitudine; la felicità ricercata nel sentimento e nella passione, ossia nel particolare non redento nell'universale ma posto esso come l'universale; con la disperazione e la malinconia che a ciò segue o s'accompagna, col senso continuo della caducità e della morte de el disfacimento. Quanti altri gli tennero dietro in questa via, e con quante variazioni di quel medesimo motivo fondamentale! Primo infermo di un'infermità che corre attraverso tutto il mondo e la poesia moderna, e che poi si propagò epidemicamente e si fece sogno sterminato, spasimo e suicidio nel romanticismo, che si accrebbe- di tristizia nel postromanticismo o decadentismo, e forse ancor oggi sarebbe da riconoscere, sotto forme che la celano, in più ravvolti e più astrusi erotismi, non escluso l'ardore cupo e insaziabile per la Vita, anche essa del resto magicamente concepita, deità demoniaca. E in questo stato d'animo, che egli rappresentò e iniziò, il Petrarca, più forse ancora che nella sua opera di erudito e di umanista e nelle sue ideologie morali e politiche, è un personaggio storico; perché personaggi storici non sono soltanto gli uomini che creano ma anche quelli che disgregano, non solo gli assertori di nuove idee e i fondatori di nuovi istituti e costumi, ma anche le anime inquiete e diffondenti inquietudine. Come assertore in senso positivo, il Petrarca potrebbe, per certi riguardi, sembrare inferiore perfino al suo amico Boccaccio, vindice della natura e del senso contro l'ipocrisia che li negava a parole, vindice dei diritti della carne, la quale in effetto, ne ha, in quanto vita che si dice fisiologica, in quanto sanità e gioia corporale, base delle superiori attività. Il Petrarca ritrae, invece, il fantastico desiderare, l'irresoluto volere, la malinconia, l'acedia, che non ha diritti, appunto perché non è un positivo ma un negativo e, come si è detto, una malattia. Senonché malattie, come questa che in lui appare, sono processi coi quali, nello sforzo e nel dolore, l'umanità si affina e si fa maggiore. E al nuovo travaglio si venne contrapponendo l'azione dei restauratori della sanità, degli instauratori di una più alta sanità, che furono e filosofi e poeti, i quali di quel male avevano avuto esperienza diretta o indiretta, in sé medesimi o negli altri uomini, e si chiamarono, per esempio, Hegel e Goethe.
Se tale è il contenuto psicologico e la posizione storica della poesia del Petrarca, il suo accento proprio o il tono del suo canto non si potrebbe forse adombrar meglio che con quella parola del Carducci, quando, in una sua ode, richiamando le forme più gentili dell'arte italiana, dice, della canzone del Petrarca, che, tra i lauri, « sospira ». Sospira: non grida, non si dibatte violenta, non prorompe irruente; si snoda con leni modi, con piani trapassi, fluisce senza rumore e rimbombo, è intimamente musicale...

Tuttavia, come è noto, a questa spontanea disposizione di sentimento e di stile poetico si univa, nel Petrarca, una vaghezza e un proposito che non si appagavano del ritrarsi in sé e comportarsi in modo diverso dal vulgo nemico e odioso, dal vulgo chiassoso, ma volevano l'atteggiamento di chi ben si distingue e perciò studia, coltiva e osserva l'eleganza del dire. E tale eleganza, se impone una sorta di ammirazione e suggezione, ed ha una particolare efficacia oratoria, in certi circoli e rapporti sociali, non giova parimente al poeta, distraendolo alquanto dalla sua gelosa intimità e dandogli una compiacenza alquanto diversa da quella gioia per la semplice forma delle cose, che è pure la gioia dell'artista. Assai sottile è la distinzione tra arte ed eleganza, tra modi temperati e armonici che superino l'immediatezza selvaggia e scomposta della passione, e modi ricercati, che tendano a un distinguersi, per così dire, sociale, tra il compiacersi nel fantasma poetico e il compiacersi di sé ascoltandosi nel proprio dire, tra il punto giusto di maturità e il troppo maturo; e nondimeno la si avverte sempre, anche dove più è sfuggente, dove i due diversi atteggiamenti, simili in apparenza-, si commischiano o alternano; e la si accusa, se non altro, col notare un « non so che » di manchevole o di troppo (che val lo stesso). Il Petrarca era elegantissimo nel suo verseggiare, proprio come uomo che dell'elegante contegno della persona si sia fatta una regola da cui non si discosta neppure in casi in cui dovrebbe dimenticarla o perderla in altra regola e legge più largamente umana. Era in lui quasi il vezzo o il vizio della sua virtù, del suo senso eletto della forma poetica. Il De Sanctis, quando dice che nel Petrarca « l'emozione è rintuzzata, oltrepassata, e non è una forza impetuosa che ti scuote l'anima, ma una bella faccia che ti diletta l'immaginazione », coglie al suo solito, con vivace intuito, il maggior problema dell'arte del Petrarca...
Eleganza o eccessivo raffinamento stilistico, e introduzione degli espedienti concettosi e retorici, sono inegualmente distribuiti nelle varie parti dell'opera del Petrarca; ed è giudizio comune (ben fondato come sono tali giudizi, risultanti da molteplici osservazioni che elidono quelle fallaci, e perciò indarno contraddetto da qualche critico) che nella serie delle rime in vita di Laura abbondino assai più che nella serie delle rime in morte, e in queste il Petrarca sia maggior poeta. Nelle prime, egli era legato principalmente a questi due motivi, il lamento per la crudeltà della donna amata e l'esaltazione della bellezza e gentilezza di lei, e verseggiò talora per ragioni pratiche, per complimentosità, per incidenti esteriori, per abito, quasi trattando un tema, in momenti di freddezza poetica; laddove, nelle altre, fu percorso, come ben vide il De Sanctis, da una rinnovata e gagliarda commozione, che ravvivò tutte le antiche e gli rese meno attraente la troppo raffinata eleganza e meno necessario il soccorso delle acutezze e dei dilatamenti oratori, potenziando il suo genio e lasciando tuttavia operare il suo scrupolo di artista.
Anche nelle cosiddette « rime varie », morali e politiche, che gli furono ispirate da gravi pensieri e accorata sollecitudine, lo stile è più schietto, la composizione più unitaria, se pure, per la natura di quelle rime, egli appaia in esse in prima linea, e splendidamente, come vir bonus dicendi peritus, e secondariamente nella sua intimità di poeta, che altresì vi si fa sentire. I Trionfi, l'ultima sua fatica, nonostante lo stento dell'invenzione allegorizzante e della schematica esecuzione, hanno alcuni tratti assai semplici e commossi, come il ricordo della morte di Laura e il colloquio con lei dopo la morte quando ella gli scopre il suo vero sentire, e taluni dei suoi versi più belli («Vivace amor, che negli affanni cresce»; «Tacendo, amando, quasi a morte corsi» ; «Che altro che un sospir breve è, la morte?...). In generale, l'eleganza e l'artificio non solo non valgono a soffocare nelle sue composizioni la poesia, male danno risalto e la fanno per contrasto apparire nella sua forza originale, nel suo vigore gentile.

Benedetto Croce

© 2009 - Luigi De Bellis