L'elegia politica del Petrarca
Le due
maggiori canzoni politiche del Petrarca appartengono al
numero di quelle poesie che, per la loro eccellenza,
sono diventate il centro della storia d'un motivo o d'un
genere, e quindi sono state vedute meglio nei loro
riflessi e nella loro forza propulsiva che nella loro
essenza. «Italia mia» e «Spirto gentil» fanno parte, per
una cinque volte secolare vicenda, della storia generale
della nostra poesia e della nostra patria: e perciò
riesce difficile, oramai, leggerle senza pensare a
quello che esse hanno potuto sulla poesia politica, e a
quello che esse hanno significato nella storia
dell'Italia. La storia della nostra poesia politica e
quella dell'italianità sono diventate, quasi, parte
integrante di quelle due canzoni: e non c'è forse
critico che, parlando di esse, sia riuscito a fare
astrazione da quei due elementi. Trovo in tre critici
stranieri tre indizi significativi di questa sorte che è
toccata alle due canzoni, e particolarmente a quella
indirizzata all'Italia: lo Ginguené scrive: «Voilà de
ces traits nationaux que tout un peuple répète avec
orgueil, et qui l'attachent au nom d'un ponte par d'autres
sentiments que ceux qu'on a pour de beaux vers»; il
Villemain racconta che una volta a Milano, al tempo
degli Austriaci, una voce giovane e melodiosa cantò, in
una riunione elegante, la canzone all'Italia suscitando
un entusiasmo indescrivibile: e l'indomani la cantatrice
veniva imprigionata; il Mézières, infine, chiama questa
canzone la Marseillaise dell'Italia. Poco dopo, il De
Sanctis citando alcune frasi di questa canzone scriveva:
«Anche oggi, dopo tanto tempo, un Italiano muta colore
innanzi a queste parole, che suscitano tanti
sentimenti».
Ma nemmeno il De Sanctis, pur facendo la storia di tutta
la poesia del Petrarca, si è fermato davvero a notare
che cos'hanno di caratteristicamente petrarchesco queste
canzoni, che cosa sono in sé e per sé, come richiamino
le altre liriche non politiche del Petrarca, perché
stiano bene in quel Canzoniere, che pure ha come
argomento dominante un tema ben diverso da questo
politico, patriottico, esortatorio.
Questo mi propongo di fare per non ripetere quanto da
molti è stato detto su queste canzoni avendo l'orecchio
agli echi che esse hanno suscitato nel corso della
nostra letteratura e della nostra storia.
La poesia patriottica del Petrarca nasce da uno stato
d'animo simile a quello della poesia amorosa e da un
atteggiamento della fantasia uguale a quello della
poesia amorosa: perciò essa, almeno nelle due canzoni
maggiori, fa tanta impressione sul lettore.
In queste due canzoni si ritrovano i sentimenti
dominanti del Petrarca: la molle e tenera vena di
affetto; la malinconia che colora di sé tutta la storia
del suo amore; e quel pensiero della vanità e fugacità
terrena che dalle rime in vita alle rime in morte di
Laura, alla canzone alla Vergine, affatica sempre più
l'anima del Petrarca. E ci si ritrova quel suo stile
alto, quel suo sentire raccolto, senza il quale la
storia particolare del suo amore non sarebbe diventata
così universale; e, se anche in misura minore che nei
sonetti più belli, quella morbida capacità sintetica,
quella musicale potenza suggestiva che fanno di lui,
nella lirica, un poeta superiore a Dante.
Derivano da quella vena affettuose espressioni come «
I', che dì e notte del suo strazio piango », in cui
sembra di sentire l'eco dei notturni pianti
dell'innamorato di Laura, e la gioia di Fabrizio alla
notizia della risurrezione di Roma (vv. 40-46), e la
passione dolce e senza violenza, che nella canzone «
Spirto gentil » è sparsa qua e là e non si lascia
isolare, e nell'altra è diffusa dovunque, e infusa così
chiaramente da costituire la nota dominante. La ragione
della straordinaria celebrità della canzone all'Italia e
del fascino che essa ha esercitato sulla fantasia di
tanti poeti dal '500 all'800, è in quella commozione, in
quel palpito di affetto, in quella voce suadente che di
rado si arrotonda in eloquenza, e per lo più si leva ad
un ammonimento pieno di carità e di solennità o si
ammorbidisce quasi fino alle lacrime. Questa nota
comincia subito nell'invocazione iniziale; continua
nella rappresentazione dell'Italia, adombrata qua e là
con l'ammirazione e l'affetto che si hanno per una
persona cara («le piaghe mortali Che nel bel corpo tuo
sì spesso veggio», il «tuo diletto almo paese», «le
belle contrade», «i nostri dolci campi»), e con le
parole semplici e scarse che nascono dai sentimenti
profondi; culmina in quella definizione domestica della
patria («Non è questo il terren...») che fa una cosa
sola della nostra vita e della terra su cui la
trascorriamo.
Ma qui c'è qualche cosa di diverso dalla poesia del
resto del Canzoniere. Lo stile è nobile come sempre: e
l'ultimo periodo («Non è questa la patria in ch'io mi
fido, Madre benigna e pia, Che copre l'uno e l'altro mio
parente?») ha quell'andamento grave, quel tono
contemplativo che è costante in tutto il Canzoniere e
che solleva in un'altra sfera anche i motivi più umili.
Tuttavia il sentimento del Canzoniere non è mai sceso
così vicino al suo oggetto come qui. Laura è sempre
distante; e il poeta stesso che la canta, con malinconia
o con trasporto o con disperazione, ha sempre intorno a
sé tanta solitudine e tanto silenzio, che il lettore lo
sente alto e lontano. Questo è il solo punto del
Canzoniere in cui si stabilisca fra il poeta e il
lettore una comunanza di affetti, perché qui il poeta
che parla, non è l'uomo che s'è creato un suo mondo
aristocratico e romito, ma il fanciullo. Al tocco delle
sue parole, in cui vibrano brevemente e profondamente i
ricordi dei suoi primi anni, si ridesta nel lettore il
mondo dei suoi primi affetti; e il lettore rivede nel
Petrarca che cresce al sentimento della patria, la
propria vita che si forma, e insieme con essa,
inseparabile da essa, la terra da cui essa ha preso
significato e colore...
In queste due canzoni c'è tanto più medio evo che nella
poesia politica di Dante. C'è un senso d'abbandono, di
rovina, di miseria, di tristezza: e questo attira la
fantasia del Petrarca assai più che il suo nobile
proposito di incoraggiare un liberatore o di placare dei
signori bellicosi.
E non solo la sua fantasia, ma attira assai più anche il
suo cuore. Perché egli è, sì, addolorato da quello
spettacolo - di Roma devastata, dell'Italia lacerata
dalle guerre -: ma quello spettacolo lo induce in
pensieri malinconici, e i pensieri malinconici sono il
pascolo continuo del suo cuore. Una certa amara dolcezza
viene al Petrarca non solo dai suoi motivi amorosi, ma
anche da questi motivi politici. Se egli avesse scritto
solo queste canzoni, la cosa non apparirebbe così
chiara: ma il confronto con gli atteggiamenti elegiaci
delle rime per Laura, con quel romanticismo non
tempestoso non tragico ma morbido e insinuante e
seducente, ci fa capire meglio quale sia il timbro
particolare della tristezza politica di quelle canzoni
nelle quali, nonostante la vastità e la dignità del
tema, si insinua un'affettuosa vena di pianto.
Questi due componimenti, solitari, meditativi, poveri di
impeti, tanto più affettuosi che appassionati, sono non
canzoni ma elegie: elegia della Roma in rovina, quella
rivolta allo « Spirto gentil »; elegia dell'Italia e del
tempo che passa, l'altra.
E così, sotto temi tanto diversi, sotto apparenze tanto
diverse, si scopre il cantore di Laura; e si comprende
perché la poesia politica non sia un motivo a sé nella
storia poetica del Petrarca, ma una delle note che
compongono il tessuto elegiaco del suo libro, uno dei
temi della sua storia di contemplativo e di malinconico. |