LA PROSA
GALILEIANA
Nella prosa
di Galileo, sotto il dominio della riflessione e
dell'argomentazione scientifica, sono contenuti la foga e
l'ardore della passione e dell'intuizione. Il tono
prevalente dei suoi scritti è quindi quello di una calma
solenne che si dispiega nel largo periodare; ma questo tono
non è il metro unico della sua prosa che, nelle ampie
strutture, immette una varietà e una vivacità atte a
distinguerle nettamente dalla solida compattezza della prosa
cinquecentesca e a definirne la diversità e originalità.
La prosa di Galileo è il riflesso della sua anima: fervida,
e cionondimeno padrona di sé; entusiastica, e cionondimeno
grave. Non vi è prosatore che come lui sappia contenere,
sotto il dominio della riflessione, la foga e il fremito
della passione, e che con altrettanta sicurezza raffreni e
temperi tutti gli scatti dell'ardore.
Di qui il tono prevalentemente calmo dei suoi scritti, di
qui il giro prevalentemente largo della sua forma: due cose
che restano impresse e che tuttavia non sono né il metro né
il senso unico della sua pagina. Voglio dire che Galileo è
uno scrittore che pagina per pagina si presenta vario, e
quindi anche vivace e rapido, e tuttavia nell'insieme torna
quasi solamente alto e solenne.
Persino i suoi scritti polemici si risolvono in un'ampia più
che agitata esaltazione della sua figura di scienziato, e
trasfigurano in ritratto il suo ideale di sapienza, più che
registrare e descrivere le battute e le mosse di un
contrasto. Cosí, in questa prosa i particolari contano
dappertutto meno che l'insieme, al contrario di quello che
accade negli scrittori più letterati, dove i particolari
pesano e vengono in luce punto per punto come un riflesso o
uno spiccato accento di motivi dominanti. In Galileo non la
parola, 'né la frase o la battuta, segnano ciò, ma il
periodo, e più del periodo la pagina, più della pagina
l'intero sviluppo di un'argomentazione.
E questo avviene non solo per la forza di concatenazione
logica di cui è dotata la sua mente, ma per un vero e
proprio magistero stilistico dovuto all'ampiezza di respiro
di cui è capace la sua anima. Qui si rivela l'originalità
assoluta di Galileo come scrittore, che, pur avendo un
intelletto potentemente costruttivo e logico, è tuttavia
alienissimo dal costruire i suoi periodi sui nudi
suggerimenti di esso, cioè con forti e rigide giunture
sintattiche, e vi infonde un andamento cosí sciolto che fa
delle sue prose di argomento più arduo un capolavoro di
lucidezza e di duttilità. Egli ha una sintassi altrettanto
complessa del Guicciardini, ma nel Guicciardini il lettore
l'avverte, in lui non se ne accorge. Galileo ha periodi che,
nelle parti espositive, vanno quasi sempre oltre le venti
righe: alcuni si avvicinano alle trenta. Si leggono come i
più agevoli che mai fossero scritti. A volte essi sono
concatenati con altri ed altri ancora a saldare il giro di
una intera dimostrazione. Neppure questo pesa, neppure qui
si para innanzi al lettore nulla di architettonico. Un
periodo di simile ampiezza in Guicciardini riesce poderoso,
in Galileo è spazioso. L'uno e l'altro hanno un procedimento
convergente verso un punto solo, ma con quale diversa
struttura! Questo punto è il vero rettor di tutti i pesi ed
occupa il centro nel periodo guicciardiniano; sta invece
nella conclusione del periodo galileiano, e non regge, ma
esso è retto da tutto quel che gli è subordinato. Per questo
abbiamo lì un edificio sintattico e l'impressione della
compattezza e della massa, e qui, nonostante tutto - cioè
nonostante la stessa sintassi, nonostante le deduzioni
matematiche, nonostante la concatenazione logica - nessuna
sensazione del genere, ma, piuttosto, l'impressione della
vastità e della libera immensità.
Tanto è fallace dunque ricollegare Galileo al resto della
prosa toscana cinquecentesca, che quel che appare il
medesimo nella misura, riesce tutto diverso e quasi il
contrario nei risultati e negli effetti veri dell'arte:
altra riprova che il gusto di Galileo fu tutto diverso e
niente guidato da quello del secolo. |