La poesia
del Tasso
L'ultima grande voce poetica dell'Italia era stato il
cantore della Gerusalemme, che si lega bensì alla nuova
età per certi suoi aspetti secondari e per certe sue
debolezze e vizi, ma che nessuno che abbia sentimento di
poesia oserà più considerare, al modo del Boileau e del
neoclassicismo francese, come un lavorante in orpello o,
al modo di taluni romantici italiani, vaghi del genuino
o preteso genuino colorito medievale, come un
artificioso e falso narratore delle Crociate. Torquato
Tasso rimane in perpetuo quale fu sentito dai
contemporanei, e quale fu accolto dall'anima popolare,
cuore che parla ai cuori, fantasia che parla alle
fantasie; e il suo poema, dal ritmo vivace, vibrante,
rapido, concitato, prorompente da un animo commosso,
variamente commosso ma sempre commosso, ha chiara
l'impronta dell'opera geniale, prodotta da una forza
demoniaca che s'era impossessata del suo autore, spesso
fuori della sua consapevolezza e contro i suoi
propositi. Nacque, quel canto, da un sogno di gloria e
di amore, di prodezza e di voluttà, di nobile e severa
gioia e di delicata malinconia, sublime e tenero, ricco
d'impeti e insieme di languidi abbandoni, virile e
femminile insieme: ispirazione patetica, affatto diversa
da quella ariostesca che è di un'umanità distaccata e
sorridente, tanto vero che il proprio dell'Ariosto sono
le sue serene musicali ottave e quello del Tasso sono i
suoi appassionati caratteri, i suoi Tancredi e Rinaldi e
Arganti e Solimani, le sue Erminie e Armide e Clorinde,
tutti personaggi diventati popolari e tipici. Quando ci
si mette a semplificare questa complessa umanità, e a
separarne i vari aspetti e a preporne l'uno all'altro o
a espungerne taluno; quando si riguarda la Gerusalemme
esclusivamente come un poema epico-religioso e morale, o
quando lo si riduce a un effettivo poema di voluttà, ci
si toglie il modo d'intenderla. La religiosità di
Torquato non è da mistico, da asceta, da spirito in
travaglio e conquista di fede; e nondimeno è religione,
devozione, fedeltà, leale osservanza, come di un
cavaliere di Dio verso Dio. La sua elevatezza morale è
sincera: sincero è il suo Goffredo, saggio, giusto,
fermo, precluso alle cupidità e alle lusinghe dei
mondani affetti, quasi un sacerdote che sia pratico
nelle arti della guerra e del comando, e guidi e regga
agli alti intenti l'esercito crociato; sincero è il suo
ideale di cavaliere senza macchia e di perfetto uomo
d'onore. La lotta, che si accende e combatte in più
punti del poema tra voluttà e gloria, piacere e dovere,
godimento e austera virtù, non è una lustra, ma una
lotta sul serio, nella quale si dispiega tutta
l'avvolgente seduzione amorosa - «le sembianze d'Armida
e il dolce viso», - e pur si pensa e si vuole e si opera
come si deve, con rinunzia, con sacrificio, con
intenerimento, con pianto, soffrendo nel dominar se
stesso, ma senza cercare sfuggite in ipocriti
accomodamenti o in astratte simulazioni di moralità.
Rinaldo, cui innamorò la mente giovinetta «la tromba che
s'udia dall'Oriente», anche nel turbine della sua
ribellione e della sua indisciplina, allontanandosi dal
campo dei crociati, non medita di vendicarsi altrimenti
che con lo splendore delle magnanime imprese, da
cavaliere errante della fede, nel quale la possente
individualità è frenata e sottomessa a un ideale; e,
quando poi torna tra i suoi compagni e si riconcilia col
suo duce, quel senso austero non l'abbandona, e nei suoi
detti e negli atti si scerne che «assai farà, benché non
molto ci dica». In pari tempo, Armida, l'incantatrice,
l'ingannatrice, di cui sono a parte a parte descritti
con somma evidenza tutte le arti e tutti
gl'infingimenti, gli studiatissimi infingimenti,
condotti con piena padronanza di sé come da esperta e
geniale commediante, non è mai guardata con durezza di
riprovazione, con aborrimento misogino, ma con occhio di
uomo che ha provato e prova nel suo cuore quel fascino e
non può renderlo a sé esterno e indifferente, con
alcunché di cavalleresco verso la muliebrità, con una
sorta d'indulgenza verso colei che inganna ma è tanto
bella, con una certa simpatia per quella creatura che
scherza, sfidatrice e sicura, con l'amore, e sarà alfine
vinta dall'amore, e si farà umile, e piangerà, e non
potrà più ingannare. E c'è, di là dal fascino delle
Armide, l'aspirazione, la nostalgia, la disperata
passione per la donna alta ed orgogliosa, superba nella
sua chiusa virtù e spregiatrice delle mollezze
sentimentali, tutta rivolta a virili imprese; per la
donna che non si possederà mai, non se ne possederà
forse mai il corpo, certo non mai l'anima o tutta
l'anima, e sempre sfuggirà e sempre renderà più acuto e
spasimante quell'amore. Eccola apparire in lontananza,
profilarsi sull'orizzonte, l'inattingibile : «tutto
quanto ella è grande era scoperta». Tancredi le può dar
morte, la può redimere nella sua stessa fede, ma non può
farla sua: Olindo la ottiene sposa, ma come tale che si
piega alla compassione e alla giustizia, e non
all'amore: «ella non schiva poiché seco non muor, che
seco viva». L'amore non è gioia per nessuno di quei
personaggi: è tormento per Tancredi, è sospiro per
Erminia; è già quasi lo stato di spirito romantico che
par chiedere ragione di questa potenza arcana, creatrice
e devastatrice, elevazione e peccato insieme, che
rapisce e sconvolge gli umani, anche i più eletti, anche
i più buoni e miti. E il cosmo o, come si dice, la
natura, è partecipe alla sentimentale visione tassesca :
come là dove Erminia si appressa, nella notte, al campo
cristiano e vede da lungi le tende latine, belle a lei
perché chiudono l'uomo amato, e sente l'aura che spira
da esse, l'aura che la ricrea; o dove Rinaldo sale sul
monte, all'albeggiare, mentre ancora qualche stella
rosseggia, e si deterge in quella purezza e frescura. E
misterioso è il mondo tutto, il mondo degli uomini, che
sé stesso «strugge e pasce, e nelle guerre sue muore e
rinasce»; e. come tragedia lo sente l'ardente,
l'impetuoso, il generoso Solimano, che cede al fato,
senza opporre resistenza, simile a colui che nel sogno
non sa sciogliere i piedi e le mani e la lingua; e, come
tragedia, il fanatico e fiero Argante, quando si volge,
pensoso a guardare l'antica città, regina di Giudea, che
cade vinta, invano da lui difesa. Che cosa importa che
nel poema vi siano parti sorde, e più o meno prosaiche e
strutturali, come certe rassegne e descrizioni di
battaglie, e altre che fioriscono di concetti e
antitesi, e altre ancora che sono svolgimenti non tanto
poetici quanto rettorici? La impetuosa poesia che lo
muove dà la prova della propria forza nel sostenere
senza riceverne gran danno la letteratura persistente e
il barocco incipiente. |