IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

CINQUECENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL CINQUECENTO

La poesia del Tasso

L'ultima grande voce poetica dell'Italia era stato il cantore della Gerusalemme, che si lega bensì alla nuova età per certi suoi aspetti secondari e per certe sue debolezze e vizi, ma che nessuno che abbia sentimento di poesia oserà più considerare, al modo del Boileau e del neoclassicismo francese, come un lavorante in orpello o, al modo di taluni romantici italiani, vaghi del genuino o preteso genuino colorito medievale, come un artificioso e falso narratore delle Crociate. Torquato Tasso rimane in perpetuo quale fu sentito dai contemporanei, e quale fu accolto dall'anima popolare, cuore che parla ai cuori, fantasia che parla alle fantasie; e il suo poema, dal ritmo vivace, vibrante, rapido, concitato, prorompente da un animo commosso, variamente commosso ma sempre commosso, ha chiara l'impronta dell'opera geniale, prodotta da una forza demoniaca che s'era impossessata del suo autore, spesso fuori della sua consapevolezza e contro i suoi propositi. Nacque, quel canto, da un sogno di gloria e di amore, di prodezza e di voluttà, di nobile e severa gioia e di delicata malinconia, sublime e tenero, ricco d'impeti e insieme di languidi abbandoni, virile e femminile insieme: ispirazione patetica, affatto diversa da quella ariostesca che è di un'umanità distaccata e sorridente, tanto vero che il proprio dell'Ariosto sono le sue serene musicali ottave e quello del Tasso sono i suoi appassionati caratteri, i suoi Tancredi e Rinaldi e Arganti e Solimani, le sue Erminie e Armide e Clorinde, tutti personaggi diventati popolari e tipici. Quando ci si mette a semplificare questa complessa umanità, e a separarne i vari aspetti e a preporne l'uno all'altro o a espungerne taluno; quando si riguarda la Gerusalemme esclusivamente come un poema epico-religioso e morale, o quando lo si riduce a un effettivo poema di voluttà, ci si toglie il modo d'intenderla. La religiosità di Torquato non è da mistico, da asceta, da spirito in travaglio e conquista di fede; e nondimeno è religione, devozione, fedeltà, leale osservanza, come di un cavaliere di Dio verso Dio. La sua elevatezza morale è sincera: sincero è il suo Goffredo, saggio, giusto, fermo, precluso alle cupidità e alle lusinghe dei mondani affetti, quasi un sacerdote che sia pratico nelle arti della guerra e del comando, e guidi e regga agli alti intenti l'esercito crociato; sincero è il suo ideale di cavaliere senza macchia e di perfetto uomo d'onore. La lotta, che si accende e combatte in più punti del poema tra voluttà e gloria, piacere e dovere, godimento e austera virtù, non è una lustra, ma una lotta sul serio, nella quale si dispiega tutta l'avvolgente seduzione amorosa - «le sembianze d'Armida e il dolce viso», - e pur si pensa e si vuole e si opera come si deve, con rinunzia, con sacrificio, con intenerimento, con pianto, soffrendo nel dominar se stesso, ma senza cercare sfuggite in ipocriti accomodamenti o in astratte simulazioni di moralità. Rinaldo, cui innamorò la mente giovinetta «la tromba che s'udia dall'Oriente», anche nel turbine della sua ribellione e della sua indisciplina, allontanandosi dal campo dei crociati, non medita di vendicarsi altrimenti che con lo splendore delle magnanime imprese, da cavaliere errante della fede, nel quale la possente individualità è frenata e sottomessa a un ideale; e, quando poi torna tra i suoi compagni e si riconcilia col suo duce, quel senso austero non l'abbandona, e nei suoi detti e negli atti si scerne che «assai farà, benché non molto ci dica». In pari tempo, Armida, l'incantatrice, l'ingannatrice, di cui sono a parte a parte descritti con somma evidenza tutte le arti e tutti gl'infingimenti, gli studiatissimi infingimenti, condotti con piena padronanza di sé come da esperta e geniale commediante, non è mai guardata con durezza di riprovazione, con aborrimento misogino, ma con occhio di uomo che ha provato e prova nel suo cuore quel fascino e non può renderlo a sé esterno e indifferente, con alcunché di cavalleresco verso la muliebrità, con una sorta d'indulgenza verso colei che inganna ma è tanto bella, con una certa simpatia per quella creatura che scherza, sfidatrice e sicura, con l'amore, e sarà alfine vinta dall'amore, e si farà umile, e piangerà, e non potrà più ingannare. E c'è, di là dal fascino delle Armide, l'aspirazione, la nostalgia, la disperata passione per la donna alta ed orgogliosa, superba nella sua chiusa virtù e spregiatrice delle mollezze sentimentali, tutta rivolta a virili imprese; per la donna che non si possederà mai, non se ne possederà forse mai il corpo, certo non mai l'anima o tutta l'anima, e sempre sfuggirà e sempre renderà più acuto e spasimante quell'amore. Eccola apparire in lontananza, profilarsi sull'orizzonte, l'inattingibile : «tutto quanto ella è grande era scoperta». Tancredi le può dar morte, la può redimere nella sua stessa fede, ma non può farla sua: Olindo la ottiene sposa, ma come tale che si piega alla compassione e alla giustizia, e non all'amore: «ella non schiva poiché seco non muor, che seco viva». L'amore non è gioia per nessuno di quei personaggi: è tormento per Tancredi, è sospiro per Erminia; è già quasi lo stato di spirito romantico che par chiedere ragione di questa potenza arcana, creatrice e devastatrice, elevazione e peccato insieme, che rapisce e sconvolge gli umani, anche i più eletti, anche i più buoni e miti. E il cosmo o, come si dice, la natura, è partecipe alla sentimentale visione tassesca : come là dove Erminia si appressa, nella notte, al campo cristiano e vede da lungi le tende latine, belle a lei perché chiudono l'uomo amato, e sente l'aura che spira da esse, l'aura che la ricrea; o dove Rinaldo sale sul monte, all'albeggiare, mentre ancora qualche stella rosseggia, e si deterge in quella purezza e frescura. E misterioso è il mondo tutto, il mondo degli uomini, che sé stesso «strugge e pasce, e nelle guerre sue muore e rinasce»; e. come tragedia lo sente l'ardente, l'impetuoso, il generoso Solimano, che cede al fato, senza opporre resistenza, simile a colui che nel sogno non sa sciogliere i piedi e le mani e la lingua; e, come tragedia, il fanatico e fiero Argante, quando si volge, pensoso a guardare l'antica città, regina di Giudea, che cade vinta, invano da lui difesa. Che cosa importa che nel poema vi siano parti sorde, e più o meno prosaiche e strutturali, come certe rassegne e descrizioni di battaglie, e altre che fioriscono di concetti e antitesi, e altre ancora che sono svolgimenti non tanto poetici quanto rettorici? La impetuosa poesia che lo muove dà la prova della propria forza nel sostenere senza riceverne gran danno la letteratura persistente e il barocco incipiente.

Benedetto Croce

© 2009 - Luigi De Bellis