MONARCHIA
Trattato di filosofia politica nel
senso aristotelico della parola
scritto in latino e stampato la
prima volta a Basilea nel 1559.
Dante vi prospetta, sotto il segno
del Sacro Romano Impero, e quindi in
funzione di una concezione cristiana
della vita, l'ideale storico
concreto di una "monarchia
temporale", cioè legata al tempo e
alle vicissitudini del tempo, il cui
oggetto specificatore, entro la
sfera delle attività essenzialmente
umane, è la felicità di questa
terra. Non possiamo precisare quando
il trattato sia stato composto: ma
il pensiero che vi sta a fondamento
è quello che informa, nel dominio
degli stessi principi metafisici, la
Divina Commedia; e che traluce
singolarmente nell'ordinamento
morale delle prime due cantiche,
concretandosi in raffigurazioni
simboliche nel Paradiso terrestre.
Certamente esso è posteriore al
Convivio, dove (IV, 4-5), in sede di
filosofia politica, se ne fissano
incidentalmente i concetti basilari;
gli stessi concetti, che sotto
l'urgenza di avvenimenti storici
incalzanti, affiorano, animati da
generosa passione, nelle Epistole,
scritte in occasione della discesa
in Italia di Arrigo VII di
Lussemburgo. L'idea del Sacro Romano
Impero rifulse allora nel cielo
delle speranze di Dante, oscurandosi
subito e tramontando dinanzi
all'opposizione di fatto tra
l'Imperatore e il Pontefice, tra
l'Impero e la Monarchia francese. Ma
nell'ordine della comune civiltà, di
cui Roma era stata la madre, la
tendenza di tutti i popoli cristiani
verso una superiore unità organica e
spirituale della città terrena,
Dante la sentì così radicata nei
cuori da vagheggiarla idealmente di
là dalle circostanze avverse
spaziando in un mondo unificato
temporalmente da un monarca, così
come era spiritualmente unificato
dal papa nella Chiesa di Cristo.
Fallita l'impresa di Arrigo VII, è
probabile che Dante, ormai pronto a
salire poeticamente nel Paradiso
della sua fede, si accingesse alla
stesura della Monarchia, applicando
a una materia d'ordine naturale le
regole della ragione cristiana.
Dalla sua esperienza di uomo che
convive con i suoi simili egli
dichiara di trarre verità non da
altri tentate ("intentatas ab aliis
ostendere veritates"), con la
speranza di giovare a tutti e di
meritarsi la palma della vittoria in
una questione aspramente dibattuta,
intorno la quale ha meditato a
lungo. Suo proposito è quello di
indagare: se la Monarchia temporale,
o Impero o governo di uno solo, sia
necessaria al benessere del mondo; -
se a giusta ragione il popolo romano
se ne sia attribuito l'ufficio; - e
se l'autorità del Monarca dipenda
immediatamente da Dio o da un
ministro o vicario di Dio: tre
questioni, a ciascuna delle quali è
dedicato un libro. Informandosi a
concetti di filosofia politica,
Dante si colloca immediatamente al
sommo della filosofia morale,
considerata soggettivamente come
attività pratica, che nello
svolgimento storico dell'umanità
appartiene all'ordine temporale (I,
3: "materia praesens non ad
speculationem per prius, sed ad
operationem ordinatur"). Egli ha
dunque di mira gli atti umani, in
tutta l'ampiezza di questa
espressione, con i loro fini
concreti, e come principio dal quale
muove, e per il quale si renderanno
evidenti le verità da dimostrare,
egli assume ciò che nelle operazioni
proprie all'umana natura, ordinata
alla vita sociale o civile, ha
valore di causa finale. Or bene il
fine ultimo che la società umana,
presa nel suo complesso, persegue
come bene terreno è la piena
attuazione dell'intelletto possibile
nelle attività speculative, prima, e
poi, per estensione, nelle attività
pratiche: arte, nell'ordine del
fare, e prudenza, nell'ordine
dell'agire. Questo fine ultimo, che
è la più alta fioritura di una vita
propriamente umana, è la causa
efficiente delle varie
organizzazioni sociali, che vanno
dalla "domus" alla "vicinia" e
quindi alla "civitas" al "regnum", e
finalmente all'"imperium": tutte
formazioni vitalmente operate dalla
ragione e dalle virtù nelle cose
umane; e tanto più nobili quanto
maggiore è il numero degli individui
che esse abbracciano. Il fine di
queste organizzazioni non varia,
tendendo ciascuna ad assicurare
all'uomo, col necessario aiuto dei
suoi simili, il compimento della sua
opera specifica, che è di progredire
nella vita razionale. Ma perché ciò
avvenga si rende indispensabile la
pace: quella che viene
dall'intelligenza e dalla buona
volontà, e che è il retaggio di
Cristo. Questa pace, Dante dimostra
argomentando, si può conseguire
sulla terra solo mediante la
Monarchia o Impero. Infatti se più
cose sono ordinate a un unico fine,
una sola deve essere quella che le
regge e le governa. E come le parti
stanno di fronte al tutto e l'ordine
di ciascuna parte si conforma
all'ordine totale, così, sotto il
governo di un solo principe, le
singole organizzazioni sociali
staranno di fronte al tutto, ossia
alla Monarchia: e l'ordine loro
particolare si confermerà all'ordine
che la Monarchia realizza come
ordine totale del genere umano. In
tal modo, per un principio soltanto,
cioè per il Monarca, il genere
umano, che è una parte
dell'universo, si troverà
armonizzato con l'ordine razionale
che regna in tutto l'universo retto
da Dio. E poiché nell'intenzione di
Dio è che ogni cosa gli rassomigli
in bontà, nella misura che le è data
dalla sua natura, il genere umano
sarà, per quanto può, simile a Dio
nella misura stessa che sarà uno,
cioè unito in uno solo, ossia
sottomesso a un unico principe. E
come il cielo in tutte le sue parti,
nei moti e nei motori, è regolato da
un unico movimento impresso dal
Primo mobile ed è mosso da un unico
motore, che è Dio, così il genere
umano sarà nella sua migliore
disposizione, quando sia mosso da un
unico motore, il Monarca, e regolato
da una sola legge come da un unico
moto. Dopo di aver prospettata
questa "ordinatio ad unum", come
ragione intima a tutte le cose.
Dante passa alla natura particolare
della specie umana, che, accecata
dalla cupidigia, a questa ragione si
pone in contrasto. Di qui sorge la
necessità di un giudice supremo che
dirima le liti sorte direttamente, o
indirettamente tra stato e stato per
sete di dominio. Tale giudice non
può essere che il Monarca, la cui
giurisdizione è limitata soltanto
dall'Oceano, e la cui volontà, non
turbata dalla cupidigia, sarà la più
libera nel giudicare e la più
potente nell'esercitare la
giustizia. Illuminato da un
disinteressato amore del bene
razionale o morale ("caritas seu
recta dilectio"), il Monarca, come
puro soggetto di giustizia, se ne
sentirà il più fedele servitore a
favore di tutti. E per questo bene
da lui voluto, e al quale la natura
umana è ordinata essenzialmente,
tutto il genere umano sarà
moralmente libero sotto di lui e per
lui governeranno rettamente i re,
gli ottimati e i fautori della
libertà popolare, come ministri
suoi, non come padroni dei loro
sudditi. In tal modo come nel
Veltro, che la coscienza morale di
Dante invocava per la salvezza
d'Italia, si armonizzeranno nel
Monarca "sapienza, amore e virtute".
Il suo fine sarà la vita virtuosa
dei popoli: la loro vera libertà,
quella del libero arbitrio, che fa
dell'individuo una persona morale.
Perché non vi sia confusione di
principi generali, il Monarca
reggerà il genere umano secondo le
norme comuni che s'adattano a tutti
e guiderà tutti alla pace con una
regola comune. Questa regola o legge
i principi dovranno riceverla da lui
come l'intelletto pratico riceve,
per la conclusione operativa, la
proposizione maggiore
dall'intelletto speculativo e sotto
la maggiore assume la particolare
sua propria e dal particolare trae
la conclusione a operare. Da questa
unità di comando, che è superiore
saggezza, discenderà l'unità dei
voleri in vista di un bene comune da
conquistarsi con la concordia e la
pace. Questa suprema perfezione
della città temporale, il cui centro
di formazione e di consistenza
riposa nella vita della persona
umana, Dante la conosce e la
contempla come realtà storica sotto
l'Impero di Roma all'epoca di
Augusto. Pienezza di vita sociale e
politica, che Dio stesso volle
sanzionare come il tempo migliore
per elevarci a una vita sovrumana e
sovrannaturale: alla sua vita
intima, mandando sulla terra il suo
Unigenito per compiervi l'opera
della nostra redenzione. -
Affrontando nel secondo libro la
questione se il popolo romano si sia
assunto "de iure" l'ufficio
imperiale, Dante confessa d'aver
creduto un tempo che causa della
conquista romana fosse stata la
violenza; ma un più profondo esame
dei fatti storici l'aveva portato
alla certezza che l'Impero di Roma
era stato voluto dalla Provvidenza
divina. A fondare razionalmente
questa sua certezza egli pone una
verità alla quale dovrà riportarsi
ogni argomentazione. Il diritto ("ius"),
cioè la diritta ragione che in noi è
principio di giustizia, è un bene
che ci viene da Dio. Il diritto
preesiste dunque nella mente di Dio
ed è nelle cose una similitudine
creata della volontà creatrice, la
quale, amando se stessa, vuole
necessariamente il diritto: legge
eterna, che è l'arte con la quale la
saggezza divina ordina e dirige
provvidenzialmente tutte le cose al
loro proprio fine. Ricercare se una
cosa sia avvenuta di diritto vuol
dire ricercare se sia avvenuta per
volontà di Dio: una volontà occulta,
ma i cui segni, nella storia degli
uomini, si fanno visibili
all'intelletto. Ora il popolo romano
meritò di essere preposto agli altri
popoli per virtù proprie e per le
virtù del progenitore Enea, principe
giusto e pio, discendente da
principi dell'Asia, dell'Europa e
dell'Africa, e nobilissimo per il
triplice connubio con regine di tre
continenti. Dio stesso favorì la
salvezza di Roma e, invisibile, si
fece per essa visibile mediante
miracoli (la caduta dello scudo dal
cielo sotto Numa Pompilio, lo
schiamazzo dell'oca del Campidoglio
all'avvicinarsi dei Galli, il
passaggio a nuoto, attraverso il
Tevere, della vergine Clelia). Ma di
là dall'interpretazione religiosa
dei fatti leggendari ond'è materiata
la storia di Roma nel suo primo
divenire, ciò a cui Dante tien fisso
lo sguardo è la natura particolare
del popolo romano, quale esso stesso
spontaneamente la mise in luce e la
dispiegò efficacemente nella varia
trama delle funzioni sociali e nelle
relazioni d'autorità cogli altri
popoli. Mirando al bene dello Stato
come al bene comune al tutto e alle
parti - un bene razionale a cui la
natura dell'uomo e la sua attività
sono ordinate - il popolo romano
attese al fine del diritto; non
essendo il diritto se non un
rapporto di equa proporzione da uomo
a uomo, per ciò che riguarda le cose
e le persone: un rapporto che
appaga, se realizzato, le esigenze
della vita virtuosa e quelle della
giustizia e dell'amicizia fraterna (II,
5: "Jus est realis et personalia
hominis ad hominem proportio, quae
servata hominum servat societatem et
corrupta corrumpit"). Mirabile
definizione del diritto, la quale fa
del bene razionale, degno in sé di
finalizzare l'azione umana, il
principio direttivo della vita
sociale: un principio eterno, per il
quale, nella storia dell'uomo, la
storia di Roma s'individua, in
quanto ne vive e se ne alimenta,
legata indissolubilmente al diritto
come l'anima è legata al corpo ed
esiste per il corpo. E poiché il
diritto è nelle cose ciò che
consuona con la volontà di Dio, ecco
che Roma, realizzando il fine del
diritto, rivelò il bene morale per
il quale l'uomo come animale
ragionevole è stato creato. Nel
segno dell'aquila imperiale Roma
identificò, senza averne coscienza,
il volere della Provvidenza divina.
In pagine calde di eloquenza Dante
esalta il popolo romano, santo, pio
e glorioso, alieno dalla cupidigia,
amante della pace universale con
libertà e sempre pronto a ogni
sacrificio per il bene comune: e con
citazioni da Cicerone, da Livio e da
Virgilio addita le figure esemplari
di Cincinnato e di Fabrizio, di
Camillo e dei Deci e di Catone. Ma
realizzando vitalmente nelle cose
umane il diritto, come opera della
ragione e delle virtù, il popolo
romano procedé col diritto; e si
arrogò di diritto la dignità
imperiale. sottomettendo a sé il
mondo per il bene di tutto il genere
umano. E questa dignità il popolo
romano la conserva di diritto, per
quell'ordine sovrano che, inscritto
nella natura delle cose, sta a
fondamento del diritto ed è
inseparabile dal diritto. Se
nell'intenzione di Dio, come già si
è dimostrato, è che il genere umano
gli rassomigli in bontà, la natura,
che procede dall'intelletto divino,
provvide ai mezzi per realizzare,
nell'unità spirituale del genere
umano, questa forma universale della
somiglianza divina. Essa dispose un
luogo e una gente nel mondo per
governarlo tutto. Questo luogo fu
Roma e questa gente fu il popolo
romano, la cui peculiare virtù fu
cantata da Virgilio: "Tu regere
imperio populos, Romane, memento: -
Hae tibi erunt artes, pacique
imponere mores, - Parcere subiectis
et debellare superbos". Tra tutti i
popoli, il popolo romano fu l'eletto
e il giudizio di Dio in suo favore
si fece palese. Nella corsa
all'impero del mondo, in gara con
tutti i popoli, Roma prevalse dopo i
vani tentativi degli Assiri, degli
Egizi, dei Persiani e dei Macedoni:
ed essa sola poté dettare le leggi a
tutti i mortali. Ma palese fu ancora
il giudizio di Dio nei e "duelli",
cioè nelle gare dei singoli
antagonisti (Orazi contro Curiazi,
Scipione contro Annibale), dove i
Romani, assistiti da Dio, riuscirono
vincitori. Con diritto di guerra
Roma si conquistò lo scettro del
mondo, e la corona della giustizia
le fu riposta nell'eterna
Provvidenza di Dio. Tacciano perciò
i presuntuosi giuristi e
s'accontentino d'interpretare la
legge secondo il senso: e tacciano
gli zelanti della fede cristiana,
che, usando male dei beni concessi
alla Chiesa in favore dei poveri,
dicono di voler la giustizia, mentre
non ammettono un esecutore di
giustizia. Cristo volle nascere al
tempo dell'editto di Augusto,
riconoscendo col fatto la
legittimità e l'autorità di colui
che rappresentava l'autorità del
popolo romano. E del resto se il
peccato di Adamo, comune a tutti gli
uomini, doveva essere punito in
Cristo, tale pena, per essere
legittima e non risolversi in una
ingiustizia, non poteva essere
inflitta che da un giudice
ordinario, che avesse piena
giurisdizione su tutto il genere
umano. "O popolo felice, o gloriosa
Ausonia" - conclude Dante alludendo
a Costantino e alla sua funesta
donazione - o se non fosse mai nato
colui che indebolì il tuo impero, o
almeno la sua pia intenzione, non
l'avesse tratto in inganno". - Le
linee maestre del pensiero dantesco
sono ormai fissate. Il terzo libro è
conclusivo: l'autorità
dell'Imperatore, che nell'ordine
temporale è "de iure" il monarca del
mondo, dipende immediatamente da Dio
e non dal suo vicario in terra. Il
principio, sul quale ora poggerà la
dimostrazione di Dante, presuppone
gli altri due posti a fondamento dei
libri precedenti. Dio disvuole ciò
che ripugna al fine che la natura
persegue; essendo questo fine, al
quale l'uomo è da natura ordinato,
il bene terrestre e perituro della
vita sociale o civile entro l'unità
organica di tutto il genere umano.
Posto il principio, Dante svela i
suoi avversari. Sono essi, tra i
primi il Pontefice, alcuni pastori
del gregge cristiano e altri ancora
spinti da zelo per la Chiesa.
Vengono poi coloro che si dicono
figli della Chiesa e che acciecati
dalla cupidigia non vogliono sentir
parlare né d'Impero né di
prerogative imperiali; e contro
costoro, privi del lume della
ragione, è vano disputare. Ultimi
stanno i decretalisti, che si
attengono alle Decretali; ma le
Decretali sono scritture posteriori
alla costituzione della Chiesa; non
le conferiscono autorità, bensì la
ricevono da essa. Dante polemizza
perciò solamente con i primi
avversari, dimostrando arbitrari e
falsi tutti i loro argomenti,
fondati su un'interpretazione
allegorica della Sacra Scrittura e
volti a stabilire analogie di
rapporti tra le due supreme
autorità, la spirituale e la
temporale. - Queste due autorità che
sono guide della condotta umana dopo
il peccato di Adamo non si possono
simboleggiare nel sole e nella luna
perché, accidenti dell'uomo e non
sostanza, esse sarebbero state
create da Dio prima del loro
soggetto. Come la luna riceve la
luce dal sole, così si argomentava,
l'Imperatore riceve la sua autorità
dal Pontefice; ma altro è la luce e
altro è l'autorità. Il regno
temporale non trae dallo spirituale
la sua propria ragione d'essere né
la sua autorità e neppure il
semplice suo operare; ma soltanto ne
riceve una sopraelevazione
intrinseca di virtù mediante la luce
della grazia divina. Gli errori di
materia e di forma nei quali
cadevano coloro che in favore della
Chiesa sillogizzavano astrattamente
Dante li denunzia con sottigliezza
causidica. Come Levi precede per
nascita Giuda, così si deduceva, la
Chiesa precede per autorità
l'Impero; ma precedenza per nascita
non vuol dire precedenza per
autorità. L'elezione e la
deposizione del re Saul avvenne per
opera del sommo sacerdote Samuele;
ma questi agì come "nuntius" o "legatus
specialis" che è ben altra cosa che
un vicario di Dio. Vero che i Magi
offersero mirra e oro a Cristo come
signore delle cose temporali e
spirituali; ma il Pontefice non è
certo l'equivalente di Dio. Cristo
disse a Pietro: "Tutto ciò che
legherai, sarà legato e tutto ciò
che scioglierai, sarà sciolto"; ma
ciò vale solo nel campo spirituale,
in relazione alle chiavi del cielo a
lui commesse. Le due spade ("Ecce
gladii duo"), di cui parla Pietro a
Cristo nel Vangelo di Luca,
significano i pensieri e le opere;
non già le due supreme autorità
tenute da Pietro e quindi,
legittimamente, anche da'suoi
successori. Annullati gli argomenti
biblici, sui quali si fondava la
supremazia della Chiesa, Dante
discute i titoli giuridici che per
essa erano messi in campo. E innanzi
tutto la donazione di Costantino.
Egli esclude che l'imperatore
Costantino potesse alienare la
dignità dell'Impero e che la Chiesa
potesse riceverla. Fondamento della
Chiesa è Cristo, il cui regno non è
di questa terra. Fondamento
dell'Impero è il diritto umano, cioè
l'esercizio della giustizia e delle
altre virtù morali nell'unità della
Monarchia universale: la "tunica
inconsutile" è di quell'ordine
naturale e temporale, secondo il
quale il genere umano realizza il
suo fine terreno. Questa "tunica"
Costantino non poteva scinderla,
senza venir meno al suo ufficio
d'imperatore. Egli "poteva affidare
al patrocinio della Chiesa un
patrimonio e altro, restando
inalterato il dominio, la cui unità
non consente divisioni. A sua volta
il Vicario di Cristo poteva ricevere
non come possessore, ma come
dispensiere dei frutti per la Chiesa
e per i poveri di Cristo" (III, 10).
A favore della Chiesa si rammentava
ancora che Carlo Magno aveva
ricevuta dal Pontefice la dignità
dell'Impero, nonostante che
l'imperatore Michele fosse sul trono
di Costantinopoli. Ma ciò non prova
che l'Impero dipenda dalla Chiesa,
perché l'abuso non costituisce
diritto ("usurpatio iuris non facit
jus"); così come non prova, che la
Chiesa dipenda dall'Impero il fatto
che l'Imperatore Ottone ristabilì
papa Leone VIII e depose Benedetto
V, portandolo esule in Sassonia.
L'ultimo argomento, in cui si
trinceravano gli avversari
dell'Impero, era quello della
riduzione all'unità di tutte le cose
che sono dello stesso genere.
L'imperatore e il Pontefice, essi
dicevano, sono uomini e come tali si
devono ricondurre a un solo uomo; e
poiché il Pontefice non può
ricondursi all'Imperatore, questo
dovrà ricondursi a quello, come
regola e misura di tutti. Ma il
Pontefice e l'Imperatore, obbietta
Dante, sono tali per il papato e per
il principato; l'uno nell'ambito
della paternità e l'altro
nell'ambito del dominio. E se, come
uomini, potrebbero ridursi a un uomo
perfetto, essi risultano invece tra
loro indipendenti per i loro poteri,
i quali si riferiscono alla
categoria della relazione e non a
quella della sostanza. Per questo
motivo essi dovranno ricondursi a un
principio comune, che sarà Dio, nel
quale ogni singolare aspetto si
riunisce universalmente. E infatti
l'autorità della Chiesa non è causa
dell'autorità dell'Impero, il quale
la procedette nel tempo ed ebbe in
sé la sua virtù e la sua dignità; né
la Chiesa ebbe mai la virtù di
conferire autorità all'Impero, non
avendola ricevuta né da Dio né da sé
da qualche imperatore né dal
consenso universale degli uomini;
tanto più che tale virtù sarebbe
stata contro la sua stessa natura o
"forma", il cui modello è la vita di
Cristo. Ne consegue che l'Impero non
può che dipendere immediatamente da
Dio. Ma a provarlo per via diretta
Dante si rifà alla natura
particolare dell'uomo come composto
di anima e corpo. Tenendo il mezzo
tra gli esseri corruttibili e gli
incorruttibili, quasi orizzonte al
limite di due emisferi, l'uomo
partecipa della natura dei due
estremi ed è contemporaneamente
ordinato a due fini "la beatitudine
di questa vita, che consiste
nell'attuazione della propria virtù,
ed è figurata nel Paradiso
terrestre: e la beatitudine della
vita eterna, che consiste nel
godimento dalla vista di Dio, alla
quale la virtù propria dell'uomo non
può salire senza l'aiuto del lume
divino; e questa beatitudine è dato
intendere nel Paradiso celeste".
Diversi i fini, e diversi pure i
mezzi; "alla prima beatitudine
perveniamo con gli ammaestramenti
filosofici, purché li seguiamo
secondo le virtù intellettuali e
morali; alla seconda perveniamo con
gli insegnamenti spirituali che
trascendono l'umana ragione, purché
li seguiamo operando secondo le
virtù teologali: Fede, Speranza e
Carità". Ma questi fini e questi
mezzi, additati in parte dalla
ragione umana, manifestataci
interamente dai filosofi, e in parte
dallo Spirito Santo, per mezzo dei
profeti, degli agiografi e di Cristo
e dei suoi discepoli, sarebbero
facilmente trascurati a cagione
della cupidigia ond'è sconvolta la
natura dell'uomo dopo il peccato. Di
qui la necessità di una duplice
direttiva della condotta umana:
nell'ordine spirituale, al lume
della rivelazione, il Pontefice,
guida alla vita eterna; nell'ordine
temporale, al lume della ragione
filosofica, l'imperatore, guida alla
felicità terrena. Questa felicità,
postulata dalla stessa natura
dell'uomo, è quel porto di
spiritualità incoativa al quale si
approda quando siano placati i
flutti della cupidigia allettatrice.
Paradiso terrestre, dove l'uomo,
divenuto signore di se stesso, può
mettersi totalmente in luce,
riversando a beneficio della città e
della famiglia umana i frutti della
propria attività specifica,
speculativa, artistica e morale.
Assicurando con la pace le
condizioni di una vita propriamente
umana di ragione e di virtù,
l'imperatore coopera con la
Provvidenza entro quell'ordine di
mezzi e di fini, che rispondono alle
esigenze e ai destini propri della
natura umana nel tempo. E tutto
rientra così nel piano del governo
divino, dove Dio solo elegge e
conferma e dove gli elettori
dell'Imperatore sono da considerarsi
piuttosto come i "denunziatori"
della Provvidenza. Ma, nella vita
della persona umana, la felicità
terrestre va riportata
indirettamente al fine ultimo
soprannaturale ed è ordinata in
certo modo alla felicità celeste. E
perciò il Monarca, pur dipendendo
immediatamente da Dio, nell'ordine
temporale, usi col Pontefice "quella
reverenza che il figlio primogenito
deve al padre, affinché, illuminato
dalla luce della grazia paterna, più
virtuosamente irraggi il mondo a cui
è stato proposto da Colui, che è
reggitore di tutti i beni spirituali
e temporali". Conclusione ultima,
che scaturisce dalla logica interna
del trattato, dove la virtù delle
cose che agiscono è vista nella
virtù del Primo Agente, che le
trascende tutte e le ordina tutte al
loro proprio fine. - La Monarchia di
Dante è perciò l'opera di un
filosofo moralista, che considera la
condotta umana con il suo fine
soprannaturale ed eterno e con i
suoi fini naturali e temporali; ma
in vista di questi ultimi fini,
postulati dalla natura stessa
dell'uomo, egli deduce razionalmente
la necessità di un Monarca, la cui
paterna autorità rispecchi
l'universale paternità divina: la
missione provvidenziale di Roma,
realizzatrice del diritto o "recta
ratio" che risponde all'ordine
essenziale di tutte le cose; e
l'indipendenza dell'imperatore dal
Pontefice entro questo stesso ordine
naturale, che la grazia sopraeleva
intrinsecamente e perfeziona con i
suoi doni. Così nell'aspro dibattito
sui rapporti tra Chiesa e Impero,
Dante si pone al di sopra dei
Curialisti, che si appoggiavano
esclusivamente sulla teologia morale
trascurando il fine naturale
dell'uomo, e dei Legisti, che si
fondavano unicamente sulle norme
positive del Diritto romano e
separavano la morale dalla fede: ed
è contro alla pubblicistica francese
contemporanea, che negava la
legittimità dell'Impero. Nella sua
concezione della città terrena, o
dell'ordine temporale, Dante si
attiene agli stessi principi
metafisici di cui si serve san
Tommaso nel distinguere i due mondi,
quello della natura e quello della
grazia; ma vi porta di suo non solo
un sentimento vivo della civiltà di
cui Roma fu madre e in cui rifulse
la "forma della ragione", ma ancora
una visione generale della storia
umana, dove la funzione dell'Impero
romano fu quella di realizzare la
giustizia e la pace, preparando
l'avvento del regno di Dio. Storia
umana, che è poi la storia di ogni
uomo: individuo nello Stato e parte
del corpo sociale, per il cui bene
deve sacrificare, se è necessario,
anche la vita; ma
contemporaneamente, persona morale,
il cui bene finale suo proprio è
Dio, al quale essa è direttamente
ordinata. Il pensiero che informa la
Monarchia, ridotto alle sue linee
essenziali e liberato dall'irto
groviglio di sillogismi in cui
s'intrica e s'attarda, è quello
stesso che costituisce il principio
dinamico della Divina Commedia. Ma
il desiderio naturale di felicità,
che presuppone un'ordinazione
passiva della nostra volontà al bene
razionale, si fa qui la voce diretta
del cuore di Dante; e il suo sforzo
di perfezionamento morale, congiunto
con l'attività che egli dispiega in
mezzo agli uomini, lo dispone, sotto
la guida della ragione naturale, a
quel Paradiso terrestre che è il
fine temporale di ogni uomo: vita di
pace e d'amore, di contemplazione e
di azione, di libertà e di
giustizia. Ideale eterno,
nell'ordine naturale e temporale,
che nel suo trattato politico Dante
ha vagheggiato sotto il segno del
Sacro Romano Impero, legato alle
vicissitudini del tempo e tramontato
col tempo. |