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IL DECADENTISMO
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GIOVANNI PASCOLI
Nacque a S. Mauro di Romagna
(oggi S. Mauro Pascoli, in
provincia di Forlì) nel 1855, da
famiglia non agiata, ma neppure
bisognosa fino a quando fu in
vita il padre, che era
amministratore di una tenuta dei
principi Torlonia. Il 10 agosto
del 1867 il padre fu
assassinato, lasciando nella
miseria la vedova e i suoi sette
figli ancora in tenera età.
L’anno successivo gli morirono
la madre e la sorella maggiore,
ma nonostante l’angoscia morale
per queste disgrazie e le
ristrettezze economiche, riuscì
a condurre a termine gli studi
liceali. Grazie ad una borsa di
studio del Comune di Bologna
poté lì frequentare la facoltà
di lettere, ma intanto l’animo
esacerbato dalle traversie lo
indusse a partecipare
all’attività politica del
movimento anarchico-socialista
di Andrea Costa e a trascurare
gli studi. Arrestato per la sua
attività rivoluzionaria, dopo
tre mesi di carcere fu assolto
grazie anche alla testimonianza
in suo favore del suo maestro
Giosue Carducci. Ripresi gli
studi, si laureò nel 1882 ed
iniziò la carriera di docente di
lettere nei licei. Nel 1897
ottenne la cattedra di
letteratura latina
all’università di Messina. Da
qui passò, nel 1903,
all’università di Pisa ed
infine, nel 1907, succedette al
Carducci sulla cattedra di
letteratura italiana
dell’università di Bologna. Morì
nel 1912.
Se l’assassinio impunito del
padre e l’abbandono della sua
famiglia al proprio destino di
miseria gli avevano fatto
maturare un sentimento di
avversione e di rivolta contro
la società; se le lunghe e
tragiche pene d'una esistenza
giovanile vissuta fra le
disgrazie familiari e
l’umiliazione del bisogno
economico gli avevano fatto
sviluppare un senso di oscuro
rancore verso la vita e il
destino; la triste esperienza
del carcere e gli studi
prediletti delle letterature
classiche lo condussero
gradualmente verso una dolorosa
accettazione del “male di
vivere”, verso una sorta di
rassegnazione che favorì la
ricerca di una nuova dimensione
spirituale, in virtù della quale
potesse riconciliarsi con la
Natura. Di qui la scoperta del
“fanciullino” che fu
determinante per la concezione
della sua poetica e la
realizzazione della sua arte.
La poetica e l'arte
Nella prosa “Il fanciullino” è
esposta chiaramente l'estetica
pascoliana:
«E' dentro noi un fanciullino
che non solo ha brividi, come
credeva Cebes Tebano che per
primo in sé lo scoperse, ma
lacrime ancora e tripudi suoi.
Quando la nostra età è tuttavia
tenera, egli confonde la sua
voce con la nostra, e dei due
fanciulli che ruzzano e
contendono tra loro, e, insieme
sempre, temono sperano godono
piangono, si sente un palpito
solo, uno strillare e un guaire
solo. Ma quindi noi cresciamo,
ed egli resta piccolo; noi
accendiamo negli occhi un nuovo
desiderare, ed egli vi tiene
fissa la sua antica serena
maraviglia, noi ingrossiamo ed
arrugginiamo la voce, ed egli fa
sentire tuttavia e sempre il suo
tinnulo squillo come di
campanello. Il quale tintinnio
segreto noi non udiamo distinto
nell’età giovanile forse così
come nella più matura, perché in
quella occupati a litigare e
perorare la causa della nostra
vita, meno badiamo a quell'angolo
d’anima donde esso risuona... Ma
i segni della sua presenza e gli
atti della sua vita sono
semplici e umili. Egli è quello,
dunque, che ha paura al buio,
perché al buio vede o crede di
vedere; quello che alla luce
sogna o sembra di sognare,
ricordando cose non vedute mai;
quello che parla alle bestie,
agli alberi, ai sassi, alle
nuvole, alle stelle: che popola
l'ombra di fantasmi e il cielo
di dei. Egli è quello che piange
e ride senza perché, di cose che
sfuggono ai nostri sensi e alla
nostra ragione... Egli scopre
nelle cose le somiglianze e
relazioni più ingegnose. Egli
adatta il nome della cosa più
grande alla più piccola, e al
contrario...
Il poeta, se e quando è
veramente poeta, cioè tale che
significhi solo ciò che il
fanciullo detta dentro,
riesce... ispiratore di buoni e
civili costumi, d’amor patrio e
familiare e umano... Ma il poeta
non deve farlo apposta. Il poeta
è poeta, non è oratore o
predicatore, non filosofo, non
istorico, non maestro, non
tribuno o demagogo...».
Quindi anche per il Pascoli,
come per i decadenti, la poesia
costituisce un vero e proprio
strumento di conoscenza, l’unico
che possa permetterci,
attraverso la intuizione e dando
ascolto alla voce segreta del
nostro inconscio, di scoprire il
misterioso legame che ci lega
all’universo.
La poesia non ha bisogno di
scienza e neppure di un’arte
retorica, dal momento che al
poeta basta trascrivere quello
che detta il “fanciullino”
usando lo stesso suo linguaggio
ingenuo e spontaneo.
Ne risulta una poesia
completamente svincolata da ogni
tradizione stilistica, rivolta a
cogliere nelle “piccole cose” il
“murmure” misterioso con cui la
Natura si rivela a noi per
consolarci delle nostre pene, o
nella “infinità cosmica” il
senso della vita; una poesia
naturalmente “frammentaria”
(perché l’attenzione del
“fanciullino” non dura a lungo
sullo stesso soggetto ed il suo
umore è estremamente volubile) e
realizzata con largo impiego di
“simbolismo” e di “onomatopeia”
(perché il “fanciullino” ha la
tendenza a trasfigurare le cose
e ad imitarne i suoni).
Le opere
La ricca produzione poetica del
Pascoli è distribuita in varie
raccolte, alcune di ispirazione
intima (e sono le migliori),
come “Myricae” (1891),”Primi
poemetti” (1904), “Nuovi
poemetti” (1909) e “Canti di
Castelveccchio” (1913); altre di
ispirazione classica, come i
“Poemi conviviali” (1904) ed i
“Carmina” (versi in latino);
altre infine di argomento civile
(che egli non considerava vera
poesia), come “Odi ed inni”
(1906), “Canzoni di Re Enzio”
(1909), “Poemi italici” (1911) e
“Poemi del Risorgimento”
(interrotti dalla morte).
Non bisogna trascurare però che
il Pascoli fu anche un brillante
prosatore (come testimoniano i
numerosi scritti umanitari) ed
un ragguardevole critico
letterario (particolarmente
famosi i saggi di critica
dantesca: “Minerva oscura”,
“Sotto il velame”, “La mirabile
visione”, “Conferenze e studi
danteschi”).
Svolgimento dell'arte
pascoliana
MYRICAE è il titolo della prima
raccolta di poesie pubblicate
dal Pascoli nel 1891 (meno di
trenta componimenti) e
ripubblicata successivamente più
volte con vari ampliamenti, fino
all’ultima edizione, del 1903,
che comprendeva 150 liriche. Il
titolo - che è il nome latino
delle tamerici, umili arbusti
sempre verdi - fu suggerito al
Poeta da un verso virgiliano,
come egli stesso confessa: «E'
la parola che usa Virgilio per
indicare i suoi carmi bucolici,
poesia che si eleva poco da
terra, humilis». E' giudizio
pressoché unanime che queste
poesie esprimano più
autenticamente la profonda
ispirazione del Poeta, che,
sconvolto dalle tragedie
familiari e avvilito dalla
perversità della società, si
rifugia nella campagna, ove, a
contatto con la Natura - “madre
dolcissima che ci vuol bene” -
riesce a trovare conforto alle
sue pene, dando libero sfogo al
“fanciullino” che gli è dentro.
A definire il clima spirituale
delle “Myricae” giova ricordare
una pagina famosa di Alfredo
Galletti, tratta dal suo “Il
Novecento”:
|
«Da quasi un secolo in
Europa critici e poeti
cercavano ansiosamente
la fontana di gioventù
della poesia ingenua,
della poesia
"primitiva", della
poesia che abbia
distrutto dietro di sé
tutti i ponti che la
congiungevano un tempo
al pensiero cosciente ed
alla tradizione
letteraria. Ma che è
l'ingenuità in arte?
Come può l'homo sapiens
(più o meno) dei tempi
moderni rinnovare in sé
la disposizione
spirituale dell'uomo
primitivo che contempla
il mondo con occhi
nuovi, che tutto vede e
ammira per la prima
volta? Non c'è altro
modo che quello
tenuto... dal Pascoli
nello scrivere le
Myricae: abolire in se
stessi la riflessione e
la storia, addormentare
l'intelletto col lento
incanto di una malia che
non lasci in noi se non
una specie di stupore
religioso. Storicamente
l'uomo si è contrapposto
e si è imposto alla
natura lottando,
scrutando, affermando e
costruendo sui dati
dell'esperienza un
sistema di leggi ed una
scala di valori: queste
costruzioni bisogna
distruggere in noi per
abbandonarci
ingenuamente al fluire
delle immagini, per
vibrare, consentendo, a
tutte le voci che la
vita ci manda... Il
sognatore che per
disgusto della vita
pratica e del tumulto
sociale, ove gli uomini
si corrompono e
imbestiano, si è
rifugiato nella
solitudine e nella
contemplazione, ha
dentro di sé la speranza
che la natura gli riveli
quel principio divino il
quale si è offuscato
nella coscienza
dell'uomo civile; che da
quel colloquio religioso
cogli alberi e colle
acque, cogli astri e coi
fiori possano derivare
al suo animo una
serenità e una certezza
che la triste esperienza
dell'ipocrisia sociale
ha distrutto». |
|
In questo clima di solitudine e
di contemplazione il Poeta narra
la sua pena e il suo conforto,
guarda con occhi incantati i
vari scenari naturali in cui si
svolge lo scorrere del tempo, e
si inebria della voluttà del
mistero che avvolge anche le
“piccole cose” del creato: nella
terza ed ultima strofa di
“Novembre” la solitudine
consente al Poeta di udire
lontano il fragile cadere delle
foglie e questo conduce al
pensiero della morte, che è
pace, che è mistero:
|
Silenzio, intorno: solo,
alle ventate,
odi lontano, da giardini
ed orti,
di foglie un cader
fragile. E' l'estate,
fredda, dei morti. |
In “X Agosto”, rievocando la
brutale uccisione del padre, il
Pascoli trae dalla pietà del
Cielo, che in quel giorno inonda
la Terra di stelle cadenti,
motivo di conforto al suo
dolore: «Il dolore personale, la
tragedia domestica ricevono una
significazione cosmica
attraverso queste spontanee
rispondenze che li ricollegano
al dramma universale della vita»
(Pazzaglia):
|
San Lorenzo, io lo so
perché tanto
di stelle per l'aria
tranquilla
arde e cade, perché sì
gran pianto
nel concavo cielo
sfavilla.
..............................................
E tu, Cielo, dall'alto
dei mondi
sereni, infinito,
immortale,
oh! d'un pianto di
stelle lo inondi
quest'atomo opaco del
Male! |
I POEMETTI comparvero la prima
volta nel 1897, poi, arricchiti,
videro la luce in due distinte
raccolte, “Primi poemetti”
(1904), “Nuovi poemetti” (1909),
tutti in terzine. Con essi il
Poeta sembra voler uscire dal
guscio della propria intimità e
ricollegarsi al mondo esterno,
sul quale tuttavia trasferisce
la medesima problematica
spirituale della pena del vivere
e della necessità di attutirne
il dolore abbandonandosi nelle
braccia della Natura. Infatti la
parte centrale dei “Poemetti” è
imperniata sulla vita di una
famiglia di contadini (padre,
madre e quattro figli) che
vivono la propria esistenza
all’unisono con la vita della
campagna: ad esempio, l’amore
fra la prima figlia del
contadino ed un cacciatore si
svolge nell’arco di quattro
stagioni: in autunno, tempo di
semina, si ha il primo incontro
(“La sementa”); nell’inverno,
quando il grano nasce sotto
terra, affiora nei protagonisti
un primo indistinto sentimento
di simpatia (“L’accestire”); in
primavera sboccia il loro amore
insieme col fiorire del grano
(“La fiorita”); in estate, tempo
di raccolta, l’amore fra i due
giovani si realizza pienamente
con le nozze (“La mietitura”).
Altri poemetti esaltano il
lavoro umano, la vita semplice
dei campi, in tono georgico;
altri sprofondano l’animo nel
mistero della vita; altri ancora
invitano alla solidarietà umana.
A proposito dei “Poemetti” dice
il Galletti: «Quando il Pascoli
vorrà uscire dalla sua
solitudine misteriosa e vocale
per riaffacciarsi alla vita,
(poiché arriva sempre l’ora in
cui la vita storica ed i suoi
contrasti richiamano
imperiosamente a sé l’uomo
moderno, per quanto scontrosa
sia la solitudine in cui è
rinchiuso), egli non potrà e non
saprà che cercarne il
significato occulto, il senso
nascosto sotto il velo dei
fenomeni, per esprimerlo in
forme simboliche». Ne “Il libro”
il senso del mistero non è
sentito dal Pascoli in quanto
individuo, ma in quanto “uomo”:
|
Sopra il leggio di quercia è
nell'altana,
aperto, il libro. Quella quercia
ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo:
aperto,
sembra che ascolti il tarlo che
lavora.
E sembra ch'uno (donde mai? non,
certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna
il vento
delle montagne e il vento del
deserto,
sorti d'un tratto...) sia
venuto, e lento
sfogli - se n'ode il crepitar
leggiero -
le carte. E l'uomo non vedo io:
lo sento,
invisibile, là, come il
pensiero...
Un uomo è là, che sfoglia dalla
prima
carta all'estrema, rapido, e
pian piano
va, dall'estrema, a ritrovar la
prima.
E poi nell'ira del cercar suo
vano
volta i fragili fogli a venti, a
trenta,
a cento, con l'impaziente mano.
E poi li volge a uno a uno,
lentamente,
esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i
fogli avventa.
Sosta... Trovò? Non gemono le
porte
più; tutto oscilla in un
silenzio austero.
Legge?... Un istante; e volta le
contorte
pagine, e torna ad inseguire il
vero.
|
Ed è proprio questo mistero che
avvolge l’uomo che dovrebbe
renderlo più buono:
|
Uomini, nella truce ora
dei lupi,
pensate all'ombra del
destino ignoto
che ne circonda, ed a'
silenzi cupi
che regnano oltre il
breve suon del moto
vostro e il fragor della
vostra guerra,
ronzio d'un'ape dentro
il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella
prona terra
troppo è il mistero; e
solo chi procaccia
d'aver fratelli in suo
timor, non erra.
Pace, fratelli! e fate
che le braccia
ch'ora o poi tenderete
ai più vicini,
non sappiano la lotta e
la minaccia.
E buoni veda voi dormir
nei lini
placidi e bianchi,
quando non intessa,
quando non vista, sopra
voi si chini
la morte con la sua
lampada accesa.
(da “I due fanciulli”) |
Giustamente, a proposito dei
“Poemetti” il Pazzaglia nota:
«Non fu soltanto, il Pascoli,
poeta delle umili cose, ma degli
spazi sterminati del cosmo:
nelle une e negli altri
avvertiva la stessa presenza
inquietante del mistero, con un
sentimento, però, di prevalente
dolcezza quando s’immergeva
nella contemplazione della
campagna solitaria, con
un’angoscia sgomenta quando si
immergeva nella visione dei
mondi infiniti, vaganti per
l'etere immenso». Ed a proposito
del tema del poemetto “La
vertigine” così afferma il
critico: «... potremmo chiamarlo
il tema dello smarrimento
cosmico. E tuttavia l’abisso di
cieli tende qui a diventare il
culmine d'una suprema ascesa.
Dall’angoscia del mistero nasce
una disperata e vana, e tuttavia
appassionata, ricerca di Dio».
In questo poemetto il Pascoli
esprime l’angoscioso desiderio
di poter essere sradicato dalla
Terra e precipitare nell’immenso
mare degli astri, con in cuore
una speranza sincera, ma forse
vana, di trovare Dio:
|
se mi si svella, se mi
si sprofondi
l'essere, tutto
l'essere, in quel mare
d'astri, in quel cupo
vortice di mondi!
veder d'attimo in attimo
più chiare
le costellazioni, il
firmamento
crescere sotto il mio
precipitare!
precipitare languido,
sgomento,
nullo, senza più peso e
senza senso:
sprofondar d'un
millennio ogni momento!
di là da ciò che vedo e
ciò che penso,
non trovar fondo, non
trovar mai posa,
da spazio immenso ad
altro spazio immenso;
forse, giù giù, via via,
sperar... che cosa?
La sosta! il fine! Il
termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in
nebulosa,
di cielo in cielo, in
vano e sempre, Dio! |
I CANTI DI CASTELVECCHIO,
composti contemporaneamente ai
“Poemetti”, tra il 1897 ed il
1907, ma pubblicati in edizione
definitiva soltanto dopo la
morte del Poeta, nel 1913,
riportano, nella Prefazione del
Pascoli stesso, un giudizio che
ben si addice anche ai
“Poemetti”: «La vita, senza il
pensier della morte, senza,
cioè, religione, senza quello
che ci distingue dalle bestie, è
un delirio, o intermittente o
continuo, o stolido o tragico».
Questo il Poeta scriveva quasi a
volersi timidamente giustificare
che nei “Canti di Castelvecchio”
comparisse, con insistenza, il
senso cupo della morte, pur tra
tanti canti e voli di uccelli:
«Canti d’uccelli, anche questi:
di pettirossi, di capinere, di
cardellini, d’allodole, di
rosignoli, di cuculi, d'assiuoli,
di fringuelli, di passeri, di
forasiepe, di tortore, di cincie,
di verlette, di rondini e
rondini e rondini che tornano e
che vanno e che restano... E
sono anche qui campane e campani
e campanelle e campanelli che
suonano a gioia, a gloria, a
messa, a morto; specialmente a
morto».
In effetti questi canti,
composti per lo più nella casa
di campagna di Castelvecchio di
Barga, dove il Poeta amava
rifugiarsi spesso per sfuggire
al clamore della vita di città
o, meglio, della vita civile,
riprendono i temi del dolore
umano, della personale tragedia
familiare (si ricordi la
celeberrima “La cavalla
storna”), della pace campestre,
dell’attonita suggestione che
promana dalle umili
insignificanti piccole cose
della natura: temi tipici delle
“Myricae”, che qui, però,
vengono sviluppati e
approfonditi certamente con
maggiore perizia stilistica, ma
forse con minore spontaneità di
ispirazione. Non per niente il
Pascoli stesso definì “myricae
autunnali” questi canti, tra i
quali si annoverano “Il ciocco”,
“Il bolide”, “L’imbrunire”, “Il
gelsomino notturno”, “La mia
sera”, “La tessitrice”, “La
voce”, “Valentino”, “Le
ciaramelle”.
I POEMI CONVIVIALI, così
intitolati perché alcuni di essi
apparvero per la prima volta
sulla rivista letteraria “Il
convito” di Adolfo De Bosis,
furono raccolti e pubblicati dal
Pascoli nel 1904. Questi venti
componimenti si ispirano
all’antico mondo greco e
attraverso la rievocazione di
vicende e personaggi mitici e
storici esaltano l’antica
civiltà non senza, però,
avvolgerla, anch’essa, in
un'aria di arcano mistero, del
senso dell’effimero. Qui compare
l’umanista, il profondo
conoscitore del mondo classico,
che sa coniare versi di stampo
classico, senza per altro
smentire la sua più genuina
spiritualità di uomo moderno (e
“decadente”). In “Alèxandros” il
Poeta immagina che Alessandro
Magno, giunto con le sue
conquiste al limite estremo
delle terre, ultimo confine
concesso agli uomini, al di là
del quale c’è solo il mistero
dell’infinità oceanica, mediti e
pianga sulla inutilità di tutte
le sue conquiste, mentre in
patria la madre e le sorelle,
che non si son mosse dalla
propria terra natale,
dall’ambiente e dalla gente a
loro familiari, serenamente
tessono la milesia lana per il
grande assente e ascoltano le
care semplici voci della natura:
|
- Giungemmo: è il Fine.
..................................
Fiumane che passai!
..................................
Montagne che varcai!
.................................
Azzurri come il cielo, come il
mare,
o monti! o fiumi! era miglior
pensiero
ristare, non guardare oltre,
sognare;
il sogno è l'infinità ombra del
Vero.
..............................................
Oh! più felice, quanto più
cammino
mi era d'innanzi; quanto più
cimenti,
quanto più dubbi, quanto più
destino!
......................................................
O squillo acuto, o spirito
possente,
che passi in alto e gridi, che
ti segua!
Ma questo è il Fine, è l'Oceàno,
il Niente...
e il canto passa ed oltre noi
dilegua.
.......................................................
In tanto nell'Epiro aspra e
montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia
lana.
A tarda notte, tra le industri
ancelle,
torcono il fuso con le ceree
dita;
e il vento passa e passano le
stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellio di un
fonte,
ascolta nella cava ombra
infinita
le grandi querce bisbigliar sul
monte.
|
Il Croce, che non apprezzò
l’opera del Pascoli nelle sue
novità, per i “Poemi conviviali”
espresse un giudizio
lusinghiero: «In essi, a prima,
sorprende un’aria di
compostezza, una fluidità ed
egualità d’intonazione, onde par
di avere innanzi un’altra
persona, o tale che si è
sviluppata così improvvisamente
e magnificamente che non lascia
riconoscere l’antica. Che cosa è
mai accaduto? Il Pascoli, oltre
che poeta, è anche umanista...
In questi poemi egli sposa la
sua ispirazione poetica alle
forme della poesia greca, che sa
abilmente imitare e rifare... Il
libro è un trionfo della virtù
assimilatrice, un capolavoro di
cultura umanistica».
I CARMINA, poesie latine
composte tra il 1885 e il 1911,
con cui il Poeta partecipò ai
concorsi annuali banditi
dall’Accademia Hoefftiana di
Amsterdam, meritando ben tredici
volte il primo premio, sono
anche essi di ispirazione
classica, ma svolgono argomenti
di storia romana e cristiana.
Comprendono il “Libro dei poeti”
(“Liber de Poetis”), la “Storia
dei Romani” (“Res Romanae”), i
“Poemi cristiani” (“Poemata
Christiana”), vari inni,
poemetti rurali, poemi ed
epigrammi. Per essi il
D’Annunzio giudicò il Pascoli
«il più grande latinista che sia
sorto nel mondo dal secolo di
Augusto ad oggi» ed affermò che
«nei suoi più alti poemi egli
non è un imitatore, ma un
continuatore degli antichi».
Le altre raccolte di poesie
(“Odi ed inni”, “Canzoni di Re
Enzio”, “Poemi italici” e “Poemi
del Risorgimento”) sono di
argomento civile e rappresentano
la parte più caduca dell’opera
del Pascoli. D’altra parte lo
stesso Poeta non le considerava
opera di autentica poesia,
confermando la tesi da lui già
espressa ne “Il fanciullino”:
«Il poeta, se e quando è
veramente poeta, cioè tale che
significhi solo ciò che il
fanciullo detta dentro,
riesce... ispiratore di buoni e
civili costumi, d’amor patrio e
familiare e umano... Ma il poeta
non deve farlo apposta. Il poeta
è poeta, non oratore o
predicatore, non filosofo, non
istorico, non tribuno o
demagogo».
La fortuna
L’attività poetica del Pascoli
si svolge tutta nell’arco di un
ventennio, dal 1891 - anno della
pubblicazione della sua prima
raccolta di poesie, “Myricae” -
al 1911 - anno della
pubblicazione della sua ultima
raccolta di versi, i “Poemi
Italici”.
Sono anni confusi e
contraddittori, tipicamente di
transizione, in cui si
contrastano e si confondono
positivismo e neoidealismo,
verismo (“I Malavoglia” e
“Mastro don Gesualdo” del Verga
sono rispettivamente del 1881 e
del 1888) e decadentismo (“Malombra”
del Fogazzaro è del 1881 e “Il
piacere” del D’Annunzio è del
1889), la critica “storica” del
Carducci e quella “estetica” del
De Sanctis. Inoltre, in campo
socio-politico, si assiste alla
crisi del pensiero liberale
ottocentesco, all’affermarsi del
movimento socialista,
all’ingresso in politica dei
cattolici (dopo l’attenuarsi, se
non proprio la revoca, del “non
expedit”), al sorgere di
correnti nazionalistiche che
porteranno all’avvento del
fascismo. In questa congerie
così vasta e multiforme di
posizioni intellettuali e
sentimentali, ideologiche, fu
naturale che la critica
letteraria si lasciasse
influenzare da pregiudizi di
natura
politico-filosofico-religiosa
piuttosto che lasciarsi guidare
dal giudizio estetico, guardasse
più al “contenuto” che alla resa
poetica dell’ispirazione.
L’opera del Pascoli fu così
soggetta a molte incomprensioni:
fra i critici di area liberale,
quelli di “sinistra” gli furono
favorevoli apprezzando quel suo
socialismo umanitario ed il suo
scetticismo teologico, mentre
quelli di “destra” gli furono
contrari per lo stesso motivo,
perché non apprezzarono quel suo
persistere «nel solco di un
socialismo sia pure pacifista ed
idillico» (Mazzamuto); fra i
critici di area cattolica,
generalmente ostili al Pascoli,
non mancarono dei convinti
sostenitori della sua arte che
riconobbero al poeta romagnolo
una certa «ansia tutta cristiana
e francescana del suo
filantropismo» (Mazzamuto); di
contro i critici di area
socialista si vendicarono della
defezione del Pascoli dal
socialismo militante (avvenuta
dopo l’esperienza del carcere),
giudicando l’uomo un
“conservatore egoista” e il
poeta uno che attinge la propria
ispirazione, “refrattaria ai
cimenti della nuova idea”, dalle
“scuderie della borghesia”.
Come si vede, son tutti giudizi
derivanti da dissensi o consensi
di tutt’altra natura che di
quella estetica.
Il primo a dare un’impostazione
adeguata alla critica sul
Pascoli fu Benedetto Croce con
un saggio apparso su “La
critica” nel 1906. In questo
saggio il Croce mostrò non poche
perplessità circa la validità
dell’arte pascoliana, la cui
ispirazione - che definì di
natura idilliaca - gli parve
frammentaria ed
impressionistica, qualità,
queste, che il critico non
apprezzava punto.
Successivamente le perplessità
iniziali si mutarono in vero e
proprio dissenso man mano che il
Croce maturò la propria
avversione al decadentismo in
generale. A proposito
dell’estetica pascoliana dettata
ne “Il fanciullino” il Croce
osservò che il poeta confondeva
la fanciullezza “ideale” tipica
della poesia con quella
“realistica” che «si aggira in
un piccolo mondo perché non
conosce e non è in grado di
dominarne uno più vasto». Ma già
nel 1918 il Galletti confutava
queste tesi affermando invece
che quella del Pascoli è
«un’estetica dedotta con
coerenza dal misticismo
sentimentale e da essa deriva
logicamente anche il carattere
prevalentemente musicale della
poesia pascoliana» (Puppo).
Si dà così l’avvio ad una
ricerca più sensata, per così
dire “più scientifica”, della
vera natura dell'arte pascoliana,
che viene inquadrata dai più
nell’ambito del decadentismo
europeo, con specifici richiami
al simbolismo francese, e da non
pochi sulla scia di una
tradizione classicista e
nazionale che va da Omero e
Virgilio al Carducci. Il che
viene di volta in volta
dimostrato con acute analisi
stilistiche e linguistiche,
oltre che con la
puntualizzazione sempre più
lucida dei motivi poetici che si
vanno costantemente ampliando ed
approfondendo: al poeta delle
“piccole cose”, al poeta “idillico-georgico”,
al poeta “campestre” succede il
poeta “cosmico”, il poeta del
mistero, il poeta che sa
cogliere la religiosità del
mistero e resta attonito di
fronte al male di cui è capace
quest’atomo opaco che è la
Terra, e che per questo sente di
dover lanciare un accorato
appello alla fraternità
universale.
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