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UGO FOSCOLO
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CENNI BIOGRAFICI
Ugo Foscolo nacque a Zante, una
delle isole jonie dipendenti
dalla repubblica veneta, il 6
febbraio 1778. Il padre fu
Andrea, medico in quella città:
la madre, la bella e dolce
Diamantina Spathis, già vedova
di Giovanni Aquila Serra
genovese. Ugo era il maggiore di
parecchi fratelli: Rubina, Gian
Dionisio, Costantino, Angelo,
Giulio: che egli amò tutti
paternamente, come teneramente
adorò la madre.
Morto Nicolò, il nonno di Ugo,
medico anch'esso e direttore
dell'ospedale di Spalato, Andrea
gli succedette in quell'ufficio.
E della fanciullezza di Ugo,
questi di Spalato furono gli
anni più felici. Ma nel 1781
Andrea morì. La vedova Foscolo
dovette spogliarsi d'ogni suo
bene dotale, per soddisfare i
creditori del marito. Quindi si
recò a Venezia, dove il marito
aveva lasciato in sospeso alcuni
affari. Ugo e gli altri fratelli
ve la raggiunsero verso il 1792.
Si stabilirono in una povera
casa del sestiere di Castello.
A Spalato aveva frequentato le
scuole del Seminario. A Venezia
fu posto alle scuole di S.
Cipriano, di cui era
provveditore Gaspare Gozzi. È
probabile che fosse introdotto
assai presto nel salotto della
bellissima Isabella Teotochi
Albrizzi, che forse il
giovinetto amò. Colà conobbe i
letterati più insigni che a quel
tempo convenivano in Venezia:
tra gli altri Ippolito
Pindemonte e Melchiorre
Cesarotti, che udì, per quanto
saltuariamente, anche dalla sua
cattedra di Padova. Ugo - che
credeva più nel genio che nelle
regole - dovette aver cari gli
arditi concetti critici e
linguistici del Cesarotti:
benchè egli simpatizzasse con
l'accademia dei Granelleschi,
conservatrice della tradizione
letteraria, e si dichiarasse
obbligato al Dalmistro, uno dei
più autorevoli fra quegli
accademici. Ma del Cesarotti il
malinconico e fantastico
giovinetto lesse avidamente l'Ossian.
Non però meno lo sedusse
l'Alfieri. E una tragedia alla
maniera alfieriana, il Tieste,
rappresentò il 4 gennaio 1797 al
teatro S. Angelo. Piacque tanto,
che fu ripetuta per nove sere
consecutive. E il giovanissimo
autore - che fin allora si era
provato in liriche passionali e
filosofiche di assai scarso
valore - divenne celebre.
Ma Ugo credette di ritrovare se
stesso, quando gli eserciti del
Buonaparte proclamarono la
libertà d'Italia e minacciarono
di invadere l'antica repubblica.
Democratico convinto, il
Foscolo, sin dall'anno
precedente, aveva scritto un
fiero sonetto contro la
neutralità di Venezia: e quindi
(a scampare da possibili
persecuzioni) si era rifugiato a
Bologna nella Cispadana,
arruolandosi volontario dei
cacciatori a cavallo. A Bologna,
nel '97, scrisse la sua sonante
ode Bonaparte liberatore,
offrendola ai cittadini di
Reggio, che, primi in Italia,
avevano accolto la rivoluzione.
Quando, abolito il governo della
Serenissima, si fondò in Venezia
una municipalità provvisoria, il
Foscolo credette suo dovere di
ritornare subitamente nella sua
patria di elezione. E nei pochi
mesi di vita che ebbe la
costituzione repubblicana, egli
militò costantemente nel partito
più avanzato e più puritano e
più ingenuo. Fu dei quattro
secretari della municipalità,
con incarico di redigere i
verbali: ma più pienamente
espose e difese il suo
catechismo di libertà nella
Società della pubblica
istruzione, ove una volta
biasimò come nemico della
rivoluzione persino l'Alfieri.
Ma spesso anche parlò contro i
demagoghi e gli "ipocriti della
libertà", peggiori dei tiranni,
e ne proponeva lo sterminio, non
senza meraviglia del presidente,
che non li credeva così
terribili. In una delle ultime
adunanze caldeggiò una milizia
nazionale, con implicita
riprovazione delle milizie
francesi, spadroneggianti in
Venezia. E con l'animo forse già
dubitante dei sentimenti
liberali del Buonaparte, scrisse
l'Ode ai Repubblicani: che è un
invito ai cittadini veri a
cercare - se la patria sarà
oppressa - la libertà nella
morte.
Il trattato di Campoformio, onde
Venezia era ceduta all'Austria,
fu per il Foscolo, anche più che
una delusione, una lezione: di
quelle che insegnano molte cose
e capitali. Di lì nacque in lui
quella diffidenza, se non pur
quell'odio, verso il Buonaparte
e la democrazia francese, che
non lo abbandonò mai più; di lì
sgorgò, o trovò conferma, il suo
desolato credo pessimistico: che
il mondo è dei forti e degli
astuti. Di lì sorse il concetto
che l'Italia non deve attendere
la sua risurrezione che da sè e
dalle sue energie: e si iniziò
il culto appassionato per le
tradizioni della patria, violate
tutte nel dispregio che il
Bonaparte mostrava per la più
antica delle nostre repubbliche.
Ceduta Venezia all'Austria, pare
che il Foscolo fosse di quelli
che proponevano di dare il fuoco
alla città, prima che lasciarla
invadere dallo straniero. Certo
uno spirito libero come il suo
non poteva rimanere sotto il
nuovo governo. Che se il governo
francese aveva così oltraggiata
la sua Venezia, la Francia
significava pur sempre la
libertà, e l'avvenire. Ugo venne
a Milano, ove chiese ed ottenne
la cittadinanza nella repubblica
Cisalpina. Divenne redattore del
Monitore italiano, col Custodi e
col Gioia: specialmente doveva
compilare le relazioni delle
sedute del corpo legislativo e
quelle del Consiglio dei
Seniori, e soggiungervi le sue
osservazioni: ufficio da censore
più che da pubblicista. Non
tacque dei soprusi delle
soldatesche repubblicane: non
delle pertinaci prepotenze del
patriziato: come in una lettera
al cittadino Soprausi ministro
di polizia, ove deferisce un
cocchiere che era per stritolare
un vecchio e un bambino, e
propone rigide pene, e contro i
cocchieri protervi, e contro i
padroni delle carrozze. Rivide a
Milano il Monti, già conosciuto
da lui a Bologna, e poi
presentato a Venezia alla
Società per l'istruzione
pubblica. È probabile
s'invaghisse della moglie del
Monti, la bella Teresa Pickler.
Comunque sia di ciò, al Monti si
legò di viva amicizia. E perché
il poeta era attaccato dai suoi
nemici, che gli ricantavano
l'accusa di aver lodato i vecchi
governi, Ugo sorse
coraggiosamente a difenderlo,
nello Esame su l'accuse contro
Vincenzo Monti. E da quella
demagogia, che il Monti avrebbe
poi flagellato nella
Mascheroniana, il Foscolo si
staccava violento. Né sopportava
la mentalità tutta borghese dei
nuovi legislatori
francesizzanti: onde il
magnanimo e italianissimo
sonetto contro la soppressione
nelle scuole della lingua
latina, proposta dal gran
Consiglio Cisalpino nel 1798. Il
Foscolo era coi pochi, insigni
per virtù propria, non per
riflesso altrui: coi pochi, già
liberi nell'animo, assai prima
che la libertà fosse proclamata
nelle assemblee. Tipo di questi
pochi solitari il vecchio
Parini, che il giovine scrittore
del Monitore conobbe alla
vigilia della morte e venerò; e
ne fece l'apoteosi nell'Ortis e
nei Sepolcri e nelle lezioni di
eloquenza a Pavia.
Nell'aprile del 1798 il
Monitore, troppo libero e troppo
italiano, fu soppresso:
incarcerato il Custodi,
perseguiti e vigilati il Gioia e
il Foscolo: i quali fondarono un
giornale anche più arditamente
italiano, l'Italico: che il
governo lasciò vivere soltanto
pochi mesi.
Necessità di pane trassero
allora il Foscolo a Bologna, ove
ebbe un modesto impiego
cancelleresco alla sezione
criminale del Dipartimento del
Reno. E a Bologna, dal Marsigli,
fece stampare - senza però
pubblicarla - la prima parte
delle Lettere di Jacopo Ortis:
molto diverse dalla edizione
definitiva: ove protagonisti
sono una vedova, Teresa, una sua
figliuoletta, Giovannina,
Odoardo, promesso sposo di
Teresa, e Jacopo Ortis. Ma, alla
notizia che gli Austro-russi
invadevano l'Italia, il Foscolo
riprese servizio come
luogotenente della guardia
nazionale di Bologna, che dava
la caccia ai contadini insorti;
si trovò alla ripresa di Cento,
le cui mura scalò per primo, e
fu ferito d'un colpo di
baionetta in una coscia.
Intanto il Marsigli - che aveva
fretta di terminare e pubblicare
il romanzo - con una leggerezza
forse unica nella storia degli
editori - almeno degli editori
di autori viventi — affidò la
prosecuzione del romanzo a un
Angelo Sassoli bolognese,
dottore di leggi e giornalista,
che continuò sguajatamente e
secondo un piano suo l'Ortis.
Così terminato, anzi deformato,
il romanzo uscì, nei primi di
giugno del '99, con il titolo
Ultime lettere di Iacopo Ortis
MDCCXCVIII, anno VII. - (Era il
titolo che il Foscolo aveva dato
alla prima parte). - Ma come, il
30 giugno, gli eserciti
austro-russi entrarono in
Bologna, le copie già in vendita
del libro furono ritirate; e
dopo lievi modificazioni, perchè
l'opera non avesse a incorrere
nella censura della nuova
polizia, il romanzo fu rimesso
in vendita in due volumetti, col
titolo Vera storia di due amanti
infelici, ossia ultime lettere
di Iacopo Ortis, 1799. E
riapparve, nel 1801, al ritorno
dei Francesi, nella forma e col
semplice titolo primitivo.
Ma il Foscolo non pensava allora
più a continuare l'Ortis:
pensava a combattere. Al seguito
del generale Macdonald fu alla
Trebbia. Negli ultimi del giugno
1799, con le milizie Cisalpine e
Francesi, fu a Firenze: e vi
conobbe il Niccolini. Forse
partecipò alla battaglia di
Novi, del 15 agosto. Finalmente
riparò in Genova, stretta
d'assedio dagli Austro-russi
padroni di tutta l'Italia
settentrionale, e difesa dal
generale Massena. In Genova
pubblicò l'ardito Discorso
sull'Italia al generale
Championnet, pieno di idee che
noi diremmo socialistiche:
ristampò l'ode al Buonaparte,
con una lettera, ove rimprovera
all'eroe il traffico di Venezia,
e l'ammonisce a non cedere alla
tentazione di farsi tiranno.
Corteggiò la marchesa Luisa
Pallavicino, e scrisse un'ode
famosa, quand'ella fu gettata da
cavallo, in una sua passeggiata
verso Sestri. Nel dicembre gli
fu imposto di partir per la
Francia: giunse a Nizza, e
doveva proseguire per Dijon: ma
preferì ed ottenne di ritornare
a Genova, dove pure l'epidemia e
la fame facevano strage. Fu
aggregato al generale Fantuzzi.
Si segnalò alla ripresa del
forte dei Due fratelli: fu
ferito al piede nel vano
tentativo di riconquistar la
Coronata: quando perì il
generale Fantuzzi, nel quale il
Foscolo vedeva raffigurato tutto
il valore italiano; e ne fece
poi eloquente ricordo nella
orazione per i Comizii di Lione.
Arresosi, il 4 giugno, l'eroico
presidio, i vinti, com'era nei
patti, furono, su navi inglesi,
sbarcati ad Antibo. Ma la
vittoria di Marengo aveva
riaperto loro l'Italia. Il
Foscolo corse a Nizza di
Monferrato, dov'era il quartiere
generale: di lì a Milano: dove
venne aggiunto allo stato
maggiore del generale Pino. Fu
in questi tempi, per ragioni del
suo ufficio, in più luoghi: a
Lugo, per esterminarvi i
briganti: più volte a Bologna,
nel novembre 1800 a Firenze.
Quivi rivide il Niccolini: e
conobbe la giovinetta Isabella
Roncioni, destinata sposa ad un
marchese Pietro Bartolomei
fiorentino, che essa non amava.
Era forse la prima volta che si
presentava al Foscolo una
bellezza pura e verginale.
L'adorò. Sentì allora il bisogno
di continuare l'Ortis, di
trasformarlo. Gli venne alle
mani la Vera istoria dei due
amanti infelici metà sua, metà
del Sassoli, anonima, ma col suo
ritratto. Indignato dello
strazio fatto dell'opera sua,
pubblicò nella Gazzetta di
Firenze del 3 gennaio 1801 e nel
Monitore Bolognese del 4 un
rifiuto di riconoscere per sue
le tre edizioni da lui vedute
dell'Ortis, "apocrife e
adulterate dalla viltà e dalla
fame": le aggiunte del Sassoli,
che passava per il raccoglitore
delle lettere, proclamò un
"centone di follie romanzesche,
di frasi adulterate e di
annotazioni vigliacche". Riprese
il romanzo. La Teresa, la vedova
Teresa, che forse in origine era
stata delineata col pensiero
alla Monti o alla Isabella
Albrizzi, diventò una
giovinetta, che adombrò la
Isabella Roncioni. La prima
parte del romanzo, così rifatta,
comparve con la indicazione
Italia, 1801 (rarissima: se ne
conserva un esemplare a Weimar,
mandato dal Foscolo al Goethe,
il cui Werther tanto influì
sull'Ortis). Nell'ottobre del
1802 il romanzo fu pubblicato
intiero a Milano, dal Genio
tipografico: e fu dei più
notevoli avvenimenti letterari
dei primi anni dell'800.
Due anni prima della
pubblicazione del romanzo, il
Foscolo era ritornato a Milano.
Ma le ostilità, in alto, contro
il poeta, che non aveva cantato
Marengo, incominciarono. Non gli
fu conceduto il brevetto di
capitano. Non era pagato dei
suoi stipendi, o solo in parte e
a fatica. In una lettera
nobilmente sdegnosa, egli
domandò le sue dimissioni. Il
Monti e altri amici si
interposero. Gli fu concessa la
paga di capitano aggiunto, ed
affidatagli la compilazione di
una parte del codice militare.
Ma si era fatto troppo mondano.
E gli bisognavano danari molti.
Giuocava, perdeva. Un amore
malefico e reale contrastava in
lui l'amore, fatto di fantasia e
di memoria, per la Roncioni.
Mentre scriveva il romanzo così
appassionato e così puro, una
donna milanese, famosa per
bellezze e per licenza,
traduceva per lui in italiano il
Werther del Goethe: la contessa
Antonietta Fagnani, moglie dei
conte Marco Arese, figlia di una
marchesa Fagnani, già fatta
conoscere al mondo dall'amabile
mordacità dello Sterne.
Documento del violento amore del
Foscolo, c'è tutto un
epistolario. Egli, come sempre
gli accadde, amò quella donna
con serietà, con intensità. Ma
la donna era infedele e
raggiratrice. I rivali parecchi
e indegni. Dopo due anni di
passione esaltata, di rancori,
di sospetti, di umiliazioni, Ugo
si liberò da quella catena.
Ma il Foscolo non aveva soltanto
fatto all'amore in quei due
anni. Alle censure contro il
Buonaparte, che si leggono nel
romanzo, egli preparava gli
Italiani con una Orazione a
Bonaparte pel Congresso di
Lione, pubblicata nel gennaio
1802. A Lione il primo console
aveva convocato 450 Italiani,
perchè deliberassero intorno
alle sorti della Repubblica
Cisalpina: che fu poi chiamata
Italiana, ed ebbe presidente
esso il Buonaparte, e
vice-presidente il Melzi. Il
governo commise al Foscolo
l'orazione: il quale, se, con
molto impeto declamatorio,
esalta il Buonaparte come
"liberatore di popoli" e
"fondatore di repubblica", con
molto calor di eloquenza accusa
i demagoghi, che in nome di lui
e della libertà francese
malversavano i popoli della
Cisalpina. - Dopo l'Ortis, nel
1803, il Foscolo raccoglieva,
dedicandoli al Niccolini, i suoi
versi, rifiutando tutti gli
altri divulgati innanzi, e
segnatamente l'ode a Bonaparte
liberatore (e probabilmente non
per la sola inferiorità
artistica) e il Tieste; e ne
faceva tre edizioni, l'ultima,
la più ricca, comprendente 12
sonetti, l'ode alla Pallavicini,
e l'altra all'Amica risanata.
Nella quale ode, la deificazione
che il poeta fa della donna, la
contessa Fagnani, ritornata
gloriosamente e freddamente
bella, non è senza richiamo alle
idee sulla poesia, svolte nella
Chioma di Berenice (pubblicata
nel luglio del 1803), anch'essa
dedicata al Niccolini:
traduzione del carme di
Callimaco, già voltato in latino
da Catullo, accompagnata da un
commento perpetuo e preceduta e
seguita da considerazioni sulla
indole e gli uffici della poesia
e, forse con allusione agli
adulatori napoleonici, sulle
apoteosi, che i poeti sogliono
fare dei principi e degli eroi.
Opera scritta in meno di tre
mesi, composta specialmente
contro i pedanti e gli
accademici, a dimostrare quanta
era dottrina nell'autore o
quanto gli era facile
acquistarla; ma il pensatore
rompe continuo di sotto
l'erudito, come già negli
scritti dell'abate padovano
Angelo Conti, che il Foscolo
stimò gran demente, e i cui
Saggi qui pare tenesse a
modello.
Continuando nelle strettezze, il
Foscolo pensò di abbandonare la
milizia. Chiese di esser mandato
segretario di legazione, o a
Parigi, o in Toscana. Da Parigi
si rispose che il Foscolo era
"testa assai calda": che il
Console voleva riservata a sé la
nomina dei ministri e dei
segretari di legazione. E il
Foscolo, che si teneva già
sicuro di andare almeno in
Toscana, non fu nominato:
sgradito come pare che fosse al
generale Murat, comandante
supremo dell'esercito
franco-italiano.
Domandò allora il poeta di
prender parte alla spedizione,
che il Bonaparte preparava, o
mostrava di preparare, contro
l'Inghilterra, radunando un
esercito sulle coste della
Piccardia e della Normandia, nel
quale aveva piacere di arruolare
Italiani, per "donner de l'orgueil
et de la fierté nationale à la
jeunesse italienne ", come
diceva in una lettera al
vice-presidente Melzi; e l'unico
merito, rispetto all'Italia, che
il Foscolo riconobbe in
Napoleone fu appunto di aver
data coscienza di sè e
disciplina militare agli
Italiani, imbelli e fiaccati da
secoli di servitù. Non senza
difficoltà fu accolta la domanda
del poeta.
La divisione italiana si mosse
nel novembre del 1803. Ma solo
nell'aprile del 1804 il Foscolo,
addetto allo stato maggiore del
generale Pino, col grado di
capitano, ebbe l'ordine di
recarsi a Valenciennes. Partì,
molestato dalla indigenza, e col
rammarico di sapersi alienato
l'animo del Melzi, presso cui,
in una lunga lettera rimasta
incompiuta, cercò di scolparsi.
Confinato a Valenciennes, al
comando delle reclute e degli
invalidi, chiese il posto di
capo-battaglione, che non gli fu
conceduto nè allora nè più
tardi: giacchè il Murat,
divenuto governatore di Parigi,
" cuore di leone e testa
d'asino", come il Foscolo l'ebbe
più tardi a chiamare, non gli
volle perdonare la troppo franca
italianità dell'orazione pei
Comizii di Lione. Il Foscolo si
discolpò al Murat per lettera, e
gli mandò l'orazione: nessuna
risposta: bensì, dall'alto,
l'ammonimento a non mandar più
lettere chiuse al governatore di
Parigi.
Ogni speranza di avanzamento era
finita. Il Foscolo si confortò
come spesso, troppo spesso,
nell'amore. Ammesso in una
famiglia inglese prigioniera a
Valenciènnes, vi conobbe la
signorina Sofia o forse Fanny
Emeryth: dalla quale apprese gli
elementi della lingua inglese, e
la lasciò con nel grembo una
creatura sua, quella Floriana,
che apparirà, poi, inaspettata,
a confortare, o forse a turbare
di rimorsi, gli ultimi anni del
poeta.
Ma tenuto basso dai superiori,
il Foscolo tanto più si
affezionava agli inferiori. Fu
patrocinatore dei rei nei
tribunali di guerra; ed è a
stampa la difesa che fece del
sergente Armani; accusato di
tentato assassinio del suo
capitano. Finalmente fu mandato
a Calais, ispettore delle truppe
imbarcate. Di qui mandò al Monti
la Epistola, commovente di
nostalgia, amara di scetticismo.
E quivi in quel facile mondo di
ufficiali francesi ed italiani -
corteggiò più d'una donna, e più
puramente e lungamente delle
altre la giovinetta figlia
dell'intendente generale Claudio
Pètiet.
Ma l'imperatore sospese
l'impresa contro l'Inghilterra,
volendo prepararsi alla campagna
contro l'Austria, del 1805. Gran
parte dell'esercito fu
richiamato e il Foscolo fu
destinato a Boulogne: ove
ingannò l'ozio dell'attesa e
sfogò il malumore, traducendo il
Viaggio sentimentale dello
Sterne, e riassumendo la sua
vita, o meglio ritraendo il suo
carattere e il suo credo
filosofico e morale, nella
Notizia di Didimo Chierico.
Nel gennaio 1806, poichè la
spedizione contro d'Inghilterra
pareva aggiornata a maggio, il
Foscolo ottenne un permesso di
quattro mesi, per ritornare a
Venezia. Passando da Parigi,
ebbe la debolezza di pregare -
naturalmente invano - per
ottenere le decorazioni della
Legion d'onore e della Corona di
ferro. Colà visitò anche il
giovane Manzoni da lui
conosciuto a Milano, e che tra
breve avrebbe ricordato, con
tanta lode, in una nota dei
Sepolcri: e da lui, e più dalla
madre contessa Beccaria, ebbe
una accoglienza fredda, che lo
amareggiò. Era a Milano nel
marzo, donde partì per Venezia.
Vi rivide la madre, la sorella,
l'Isabella Albrizzi Teotochi,
più che mai letterata e
autorevole fra i belli ingegni
letterati.
Passati i quattro mesi, ritornò,
renitente, a Milano. A Padova
visitò il Cesarotti, che tra
qualche anno gli divenne nemico,
quando il Foscolo fu sospettato
autore di un mordacissimo
epigramma contro la Pronea,
poema che e tutto un'apoteosi di
Napoleone. A Verona rivide il
Pindemonte, che gli lesse saggi
della versione dell'Odissea, e
forse anche il primo canto di un
suo poema sui Cimiteri, rimasto
incompiuto dopo la comparsa dei
Sepolcri: e potè essere
eccitamento al carme foscoliano,
se un poema, dove il Foscolo
gittò tutto sè stesso, aveva
bisogno di eccitamenti od
occasioni esteriori.
A Milano era ministro della
guerra il generale Caffarelli,
che molto amò il Foscolo e
comprese che egli aveva più
diritti ad affermarsi come uomo
di lettere che obblighi di
mostrarsi ufficiale modello. Lo
incaricò della traduzione dei
Commentarj della battaglia di
Marengo del generale Alessandro
Berthier, e lo volle a Milano a
sua disposizione, senza nessun
obbligo di servizio militare.
La libertà, almeno parziale, di
cui venne a godere, la vicinanza
del Monti che gli aveva letto
l'Iliade e il Bardo (sul quale
scrisse un articolo di molta
lode), la oramai sicura
coscienza delle proprie energie
nella pienezza dell'ingegno e
dell'età, rianimarono il Foscolo
alla produzione poetica,
oltrechè agli studi negli
antichi: cose che in lui, il
quale leggeva col cuore e
trasferendo sempre sè nel
passato e il passato nel
presente, andavano di pari
passo. Meditò molti Inni (uno
sui cavalli): distese l'inno
alla Nave delle Muse, che è
frammento di un poema dal titolo
Alceo: compose - ma restò
incompiuto - un Sermone,
oscurissimo, non meno contro i
suoi nemici letterari che contro
la strapotenza di Napoleone.
Continuò la traduzione
dell'Iliade, già incominciata in
Francia. E credette giovare agli
Italiani col diffondere quella
educazione e quegli spiriti
militari, che più in essi si
desideravano. Onde imprese a
illustrare le opere di un grande
capitano italiano, Raimondo
Montecuccoli, non conosciuto
sino allora che in una pessima
versione francese: e letto poi
nella edizione del Grassi, assai
migliore di quella del Foscolo.
Nel gennaio del 1807 si recò a
Brescia, per intendersi col
tipografo Bettoni; e a
intervalli vi rimase fino al
settembre, attratto dall'amenità
del luogo, dalla cortesia degli
amici e dalla simpatia per la
contessa Maria Martinengo
Cesaresco. Quivi pubblicò, nei
primi d'aprile, coi tipi del
Bettoni, i Sepolcri; e negli
ultimi l'Esperimento di
traduzione dell'Iliade:
contenente una lettera
dedicatoria al Monti, la
versione letterale del primo
libro fatta dal Cesarotti, la
versione poetica sua, e di
fronte quella del Monti: oltre
alcune considerazioni del
Cesarotti, del Monti e sue sulla
difficoltà di tradurre alcuni
singoli passi di Omero, come il
cenno di Giove.
Specie tra i giovani, i Sepolcri
destarono un'eco di universale
ammirazione. Ma un Guillon,
ex-prete francese, nel
francesizzante Giornale
italiano, del 22 gennaio 1807,
si levò a deprezzare il carme,
di cui non aveva sentita l'alta
poesia, ma solo intuito gli
spiriti profondamente italiani.
E il Foscolo dette subito fuori,
ex abundantia cordis una Lettera
al Guillon su la sua
incompetenza a giudicare i poeti
italiani: un colpo di scudiscio
o di scopa che fece tacere per
sempre i! critico; ma altri,
della stessa specie. avrebbero
più tardi presa la rivincita.
Nel maggio del 1808 uscì il
primo volume del Montecuccoli. E
la grave e nobile fatica era
giovata non poco ad ottenere al
Foscolo, in quell'anno, la
cattedra di eloquenza
all'università di Pavia; per la
quale il governo gli conservava
anche la metà dello stipendio di
capitano: in tutto L. 6600: non
poco per quei tempi, anche se
poco alle voglie da grande
signore del Foscolo, che a Pavia
volle mettere su una casa in
tutto punto. Vero è che egli
sperava di rimanere sempre a
Pavia, in un ufficio nel quale
avrebbe potuto finalmente
affermare tutto se stesso.
Poichè l'insegnamento di
eloquenza non voleva per lui
essere precettistica pedantesca,
ma una nuova revisione del
prodotto letterario, ricondotto
alla sua origine psicologica,
alla sua ragione di essere
politica e sociale. Ciò che si
scorge dalla prolusione, detta
il 22 gennaio 1809, Dell'origine
e dell'uffizio della
letteratura, davanti a un
pubblico numerosissimo, presente
il Monti, che quattro anni
innanzi aveva pur parlato
eloquentemente da quella
cattedra.
Ma, prima ancora che il Foscolo
pronunziasse quella prolusione,
la cattedra, insieme con altre,
fu soppressa: conservato ai
professori lo stipendio per
quell'anno: liberi di fare o no
le loro lezioni. Il Foscolo fece
le sue lezioni, che durarono fin
al 6 di giugno; e molto si
adoperò, forse sperò che la
cattedra gli fosse conservata.
Ma come si sarebbe fatta una
eccezione per lui, che non aveva
invitato alla prolusione i
ministri, e si era rifiutato,
nonostante le insistenze anche
del Monti, di fare in essa il
solito encomio a Napoleone e
quello al principe Vicerè?
Con questo atto il Foscolo
rivendicava la libertà delle
lettere proclamata dal suo
Alfieri e alla quale si mantenne
fedele tutta la vita. Tanto più
spiace che neppure in quegli
anni il poeta sapesse imporsi
una condotta più rigidamente
morale. Pare che troppo
approfittasse della onerosità di
amici, come di Ugo Brunetti da
Lodi ispettore nell'esercito, e
di Paolo Montevecchi,
marchigiano, studente di
matematica e suo coinquilino a
Pavia. Anche, amico di Paolo
Bignami, banchiere a Milano, amò
la moglie di lui Maddalena, che
tentò di uccidersi. per salvarsi
dai rimproveri del marito,
finalmente indignato. E insieme
alla Bignami, o forse subito
dopo, amoreggiò con la Francesca
Giovio, di Como, figlia del
conte Gian Battista, un
letterato e patrizio all'antica,
che voleva un gran bene al
Foscolo. Nell'agosto del 1809 il
Foscolo però scriveva alla
contessina, pregandola di
dimenticarlo e di accettare il
marito, che il padre le
proponeva: un colonnello, il
barone Vautrè.
Ma, ridotto a vivere a Milano in
due stanzucce, con un assegno
annuo di 1000 lire, che egli
mandava in gran parte a Venezia
alla sua famigliuola, il Foscolo
espiò duramente la vita
spendereccia dell'anno
precedente. Domandò, invano, un
posto d'ispettore nella pubblica
istruzione. Domandò invano la
cattedra - allora istituita a
Milano - di eloquenza forense,
data a un poetastro nemico del
Foscolo, Angelo Anelli. Ottenne
l'umile ufficio di correttore
delle traduzioni dei
componimenti teatrali per la
compagnia dei commedianti
italiani al servizio di S. M. il
Re d'Italia. In quella miseria,
che troppo spesso lo metteva in
contraddizione con i suoi
principi d'indipendenza, lo
colpirono i suoi nemici: tanto
più fieri contro di lui, quando
alcuni uomini del governo, come
il ministro Vaccari, mostravano
di proteggerlo. E gli aizzarono
contro il Monti.
L'inimicizia dei due poeti era,
in fondo, diversità di tempra
morale: opposta concezione
dell'ufficio e della dignità
delle lettere. Le occasioni al
dissidio furono parecchie. Il
Monti dette una volta al Foscolo
la Palingenesi, perchè leggesse,
cioè lodasse: il Foscolo tacque.
In un articolo pubblicato nel
più serio periodico italiano del
tempo, gli Annali di scienze e
lettere, il Foscolo disse male
dei versi dell'Arici in morte di
Giuseppe Trento; e dell'Arici
parlò poco favorevolmente anche
in casa del ministro Venèri,
presente il Monti: protettore
dell'Arici. Il Foscolo scrisse
al Monti una nobilissima
lettera, per chiarire i
malintesi. Forse non fu spedita.
Ma nulla avrebbe impetrato dal
troppo vanitoso avversario, che
del Foscolo parla in qualche
lettera di quei tempi con un
linguaggio e in una maniera
assolutamente indegna; e lanciò
contro di lui un epigramma
troppo più cattivo, che non
quello notissimo attribuito al
Foscolo.
Ma, ad irritar più
universalmente i letterati di
mestiere, apparve, negli Annali,
un articolo del Foscolo, ove,
riprendendo le mosse, o il
pretesto, dalla traduzione
pindemontiana dell'Odissea, egli
entrò in campo contro il Salvini,
il Baccelli, il Soave, il Ceruti,
vecchi traduttori di Omero, e
contro pedanti, e accademici, e
ciarlatani. Il principe di quei
ciarlatani, il pessimo Urbano
Lampredi, nel Corriere milanese
del 15 maggio 1810, stampò una
Varietà, canzonando e malignando
il Foscolo: e addosso al Foscolo
si scagliarono, e allora e poi,
parecchi, e oscuri e magnati
delle lettere, e sin l'editore
dei Sepolcri, il Bettoni. E il
Foscolo si difese ancor negli
Annali, pubblicando il
Ragguaglio di un'adunanza
dell'accademia dei Pitagorici,
ove l'Araldo, che legge
l'articolo del Lampredi, è
interrotto di continuo dagli
accademici, che conciano
l'autore dell'articolo come
meglio o come peggio non si
potrebbe. E contro
principalmente il Lampredi e il
Monti il Foscolo componeva sin
d'allora la violenta satira
dell'Ipercalissi, che avrebbe
lanciata al pubblico qualche
anno dopo.
Questa volta il Foscolo fu
ancora salvato e consolato
dall'arte sua. Smesso il
pensiero di una tragedia
passionale - Bibli e Cauno -,
forse perché seppe che la
trattava l'amico suo
Gasparinetti, riprese una
tragedia già tramata sin dal
dicembre del 1809: l'Ajace. E
negli Annali, durante la
composizione di essa, pubblicò
un articolo su Gregorio VII, che
parve la riabilitazione del
pontificato e fu proibito.
Verseggiò la tragedia, con
impeto, durante il 1811. Alla
Scala (tanta fu l'affluenza del
pubblico, che non sarebbero
bastati teatri minori) fu data
il 9 dicembre di quell'anno.
Grande l'aspettazione degli
amici e dei nemici. Il Foscolo,
che assisteva, uscì dopo il
secondo atto. Il Lampredi,
durante la rappresentazione,
fece correre pel teatro un
epigramma:
Qui
estinto giace il furibondo Ajace,
Requiescat in pace.
All'atto quinto, il vocativo o
Salamini, fece, si dice, nascere
quel riso che uccide i drammi.
In realtà il dramma cadde per
manco di forza intrinseca. E il
poeta sperò indarno in una
rivincita a Venezia. Si videro
allusioni a Napoleone. Il dramma
fu proibito: i censori sospesi;
benchè il ministro Vaccari
stesso avesse mandato la copia
ai censori con la sua
autorizzazione. Il Foscolo
scrisse al Vicerè una lettera
molto remissiva, che in verità
dice assai poco, anche più a
scolpare i commedianti, che se
stesso. E fu punito blandamente,
con un congedo di otto mesi, per
ragioni di salute e
d'istruzione.
Fu per qualche mese a Venezia,
poi a Belgioioso, ospite di quel
principe. Nell'agosto si avviò a
Firenze. Si fermò prima alcuni
giorni a Bologna, a visitarvi la
contessa Cornelia Barbara
Martinetti, nota alla corte del
Beauharnais a Milano, a quella
di Napoleone a Parigi, e il cui
salotto vide i più celebri
scrittori italiani e stranieri
del tempo. Il Foscolo si accese
anche di lei, e le profferse un
amore che ella non accettò, e
rimase una tenera amicizia.
A Firenze - la città d'Italia
che a lui pareva la più italiana
- il poeta abitò, dai primi
d'aprile del 1813, a
Bellosguardo. La Isabella
Albrizzi l'aveva presentato per
lettera alla contessa d'Albany -
la donna amata dall'Alfieri, e
non da lui solo -: e la contessa
trattò con ogni cortesia il
poeta, che continuava gli
spiriti antifrancesi
dell'Alfieri, e suoi. Nel
salotto dell'Albany il Foscolo
rivide la Isabella Roncioni, ora
Bartolomei, corteggiata dal
prefetto Strozzi: e parecchie
donne anch'egli corteggiò, come
la Eleonora Nencini. Ma quella
che amò non certo più
caldamente, ma nell'amicizia
della quale trovò poi conforto
nei momenti amarissimi, fu la
sanese Quirina Mocenni, moglie
ad un Ferdinando Maggiotti,
demente e infermo, da lei
piamente vigilato. Il Foscolo,
nelle moltissime lettere che,
anche nei più tardi anni, le
scrisse, la chiamò costantemente
la Donna gentile, non senza,
credo, allusione al nome che
Dante dette alla donna, che
apparve a confortarlo dopo la
morte di Beatrice. Il Foscolo
conobbe la Quirina nell'agosto
del 1812: prima trovò in lei
l'amante; assai presto 1'amica,
che lo sovvenne, sin d'allora,
nei suoi bisogni, e sin d'allora
gli perdonò, generosa, amori
sempre più violenti, sempre meno
degni, per altre donne.
Ma l'ambiente fiorentino fu
favorevole quanto mai altro alla
produzione del poeta. Riprese e
rielaborò il Viaggio
sentimentale dello Sterne,
pubblicandone la versione a
Pisa, nel 1813, con la notizia
intorno a Didimo Chierico.
Lavorò alla Ricciarda, tragedia
tra amorosa e nazionale, che fu
rappresentata a Bologna il 18
settembre 1813, con un esito che
sarebbe stato assai più
favorevole, se l'autore, "che fa
lo scrittore e non il
ciarlatano", non si fosse
rifiutato d'apparire al
proscenio: modestia che parve
superbia. Forse dopo la
Ricciarda attese subito
all'Edipo, di cui non si conosce
che un abbozzo parziale in
prosa. E a Firenze in gran parte
verseggiò il Carme alle Grazie.
La rotta di Lipsia (1814)
significava la dissoluzione di
quel regno d'Italia, che al
Foscolo pareva ormai regno
italiano. Anche, al Vicerè
Beauharnais e ai suoi ministri
il Foscolo aveva troppi
obblighi. Da Firenze ritornò
dunque a Milano, fermo di
combattere per la patria. E al
Vicerè chiese di essere
riammesso nel servizio attivo
dell'esercito. Fu nominato
capitano aggiunto di stato
maggiore, al servizio del
generale Fontanelli, ministro
della guerra.
Dopo l'abdicazione
dell'Imperatore, il Foscolo
caldeggiò il partito che voleva
l'indipendenza del Regno e il
Beauharnais re d'Italia: e
sostenne queste idee in un
indirizzo al congresso di
Parigi, disteso a nome dei
comandanti della guardia civica.
Vide e cercò d'impedire
l'eccidio del ministro Prina,
con che la plebaglia e il
vecchio austriacante patriziato
intesero dimostrare la loro
ostilità allo stabilirsi della
dinastia dei Beauharnais. Per
l'energia spiegata in quei
giorni, il Foscolo fu nominato
capobattaglione.
Ma gli Austriaci ritornarono. Il
Foscolo, rappresentato come
eccitatore della pubblica
tranquillità, si difese presso
il Conte Verri, presidente della
reggenza, e il maresciallo
austriaco Bellegarde, che mostrò
per lui la più grande cortesia.
Egli, del resto, s'era tutto
raccolto nella lettura dei poeti
suoi e nella traduzione di
Omero: convinto che l'Italia,
inerme, non poteva più nulla e
che non aveva bisogno che di
pace: e con in fondo all'animo,
se non già il proposito
dell'esilio volontario, almeno
il desiderio di rifugiarsi in
una vita di raccoglimento e di
studi, a Venezia, dove la madre
e la sorella avevano già
affittata per lui una nuova
casetta.
In quello stato di perplessità e
di apatia, lo vennero a cercare
le seduzioni del governo
austriaco, che sarebbe stato
felice di trarre alla sua causa
lo scrittore che, specie sulle
nuove generazioni, esercitava un
fascino potente, e che
notariamente aveva avversato il
predominio francese. Il
Bellegarde gli propose l'idea di
fondare e dirigere un periodico,
che, naturalmente, avrebbe
dovuto diffondere fra le classi
colte la simpatia per l'Austria.
La tentazione era grande: grande
il pericolo di un rifiuto. Il
poeta tergiversò; poi accettò di
scrivere il disegno e il
programma del periodico. Pareva
che si fosse arreso. Aveva già
fatto credere di essersi
ordinata l'uniforme militare
austriaca, pel giuramento
solenne che doveva darsi il 1
aprile. Ma il cantore dei
Sepolcri, il discepolo del
Parini e dell'Alfieri, trovo
finalmente la parte migliore di
se stesso.
La sera del 30 marzo 1815 il
Foscolo partiva nascostamente da
Milano, per l'esilio, onde non
sarebbe ritornato mai più.
Rinunciava al benessere che
finalmente e stabilmente avrebbe
trovato. Egli, amante del lusso,
affrontava, non più
giovanissimo, disagi,
umiliazioni, miserie; ma la sua
dignità di uomo, di italiano, di
scrittore era salva: la santità
delle lettere era attestata col
martirio. E pochi giorni dopo
esponeva alla famigliuola sua i
motivi ideali di quello che non
era affatto un gesto di
orgoglio, ma una necessità di
coscienza squisita.
Ramingo per la Svizzera: fu a
Lugano, a Roveredo nei Grigioni,
a Coira, a San Gallo, a Zurigo.
Quivi conobbe il banchiere
Pestalozzi, e amoreggiò con
l'isterica moglie (di lui; ma
quand'ella non volle più saperne
della corte del poeta, il
Foscolo commise un'azione troppo
indegna di ogni galantuomo:
rivelò al Pestalozzi la tresca
di sua moglie con un Guido
Sorelli, maestro d'italiano:
Provò poi un disperato rimorso,
che confidò alla Donna gentile.
Più lungamente dimorò a
Hottingen, villaggio presso
Zurigo, in casa di un pastore
protestante. Conduceva una vita
poverissima. Una volta andò
attorno per quei villaggi,
vendendo i suoi anelli e
cercando di vendere anche
l'orologio. Era estremamente
avvilito. Ma vegliava su quel
vinto la Donna gentile. Ella si
offrì di fargli avere ogni tre
mesi una somma, sino a che non
potesse provvedere a sè più
largamente. Acquistò i suoi
libri lasciati a Milano, e gli
fece dal Pellico mandare la
somma, senza scoprire chi aveva
comperato quei libri. Tremò di
tutte le sofferenze fisiche e
morali dell'amico, compatì a
tutte le sue debolezze:
contenta, come di un premio
supremo, che il Foscolo le
ottenesse, come fece,
dall'Albany il suo ritratto
dipinto dal Fabre, per farne
tirare una copia. L'Albany
naturalmente non amava più il
Foscolo. La sua fuga gli era
parsa un gesto di cattivo gusto.
Ma, in quei primi tempi
dell'amarissimo esilio, l'anima
del Foscolo s'inacerbì. Riprese
e ampliò il Didimi clerici
prophetae minimi Hypercalypseos
liber singularis: una satira, o
libello, in versetti biblici,
sulla maniera dell'Apocalisse:
divisa in diciannove capitoli:
che sferzano il Lampredi (Jeromomo)
e gli amici suoi, il Paradisi,
il Lamberti, il Bettoni,
l'Anelli, il pittore Bossi,
l'amica e la protettrice di
tutti costoro, la vecchia
letterata Annetta Vadori. Anche
il Monti vi è deprezzato come
poeta, oltraggiato come marito.
Nè mancano giudizii sulla
decadenza irrimediabile
dell'Italia, e su Parigi
(Babilonia maxima) su Roma
(Babilonia perpetua) su Milano
(Babilonia minima). Il tutto
sotto nomi così strani, e così
oscuri velami, che l'autore
aggiunse all'opuscolo una
chiave, a spiegare le allusioni.
L'Hypercalipsis fu stampata in
pochissimi esemplari destinati
agli amici. È l'unico scritto
men che nobile pubblicato dal
Foscolo.
Un'altra operetta, polemica -
almeno nella mossa iniziale -
pensò il Foscolo, contro un
libello sulla rivoluzione di
Milano del 20 aprile 1814, che
accusava gli indipendenti alla
maniera del poeta di essere
stati la causa della rovina del
regno d'Italia. Il Foscolo, per
risposta tracciò un Discorso
sulla rovina del regno d'Italia,
che poi trovò uno sviluppo più
adeguato in un Discorso
proemiale e in tre Discorsi
della servitù d'Italia,
pubblicati però dopo la sua
morte. In essi è tutta la
professione politica del Foscolo
e il suo pessimismo, saldamente
radicato nella storia vecchia
d'Italia e nella recente.
Anche pubblicò il Foscolo a
Zurigo, il 1816, ma con la falsa
data di Londra 1814, una nuova
edizione dell'Ortis, con la
lettera contro il Buonaparte,
soppressa in tutte le precedenti
edizioni meno che nella prima: e
nel 15 l'operetta Vestigio della
Storia del Sonetto italiano
dall'anno 1200 al 1800, che
mandava in dono alla Donna
gentile, ultimo saluto a lei,
prima di andare in Inghilterra.
Giacchè il Foscolo aveva deciso
di tentare più sicura fortuna in
Inghilterra, dove lo scrittore
antinapoleonico non poteva non
essere accolto onoratamente. La
stessa Quirina lo incuorò al
viaggio. Il Foscolo le offrì di
sposarla: giacchè il marito di
lei era morto. Ella conosceva
troppo bene il poeta, per non
intendere che egli domandava ad
una donna tutto ciò che ella,
non più giovane e non bella, non
poteva dare. Lo amava troppo,
per imporgli una catena. E non
accettò.
Il Foscolo, per Basilea e
Francoforte sul Meno, giunse il
7 settembre 1816 ad Ostenda: di
dove si imbarcò per
l'Inghilterra. L'11 settembre
era a Londra.
Grandi speranze, in principio;
specie da poi che Giuseppe
Binda, un gentiluomo lucchese
che dimorava colà, l'ebbe
presentato nella casa di Lord
Holland, convegno dei più nobili
spiriti. Ma i guai
incominciarono assai presto:
cioè le strettezze economiche.
Unica via di guadagno - se non
di fortuna - il lavoro
letterario, che al Foscolo
pareva un delitto tradurre in
industria, e pel quale mancavano
a lui le virtù del metodo e
della costanza: per non dire
che, non abbastanza pratico di
inglese, doveva prima scrivere
in italiano, né sempre era
agevole trovar traduttori della
sua difficile prosa. Comunque,
tentò presso editori.
Ripubblicò, con poco o punto
frutto, l'Ortis, dedicandolo al
poeta Roger, che aveva
conosciuto in casa Holland.
Incominciò, per l'editore
Murray, una serie di lettere
sugli Usi, la letteratura e la
storia politica dell'Inghilterra
e dell'Italia: che furono poi i
frammenti del Gazzettino del bel
mondo, pubblicato postumo. Ma
aveva bisogno di danaro subito.
I debiti si succedevano ai
debiti.
I1 24 maggio 1817 moriva sua
madre. L'abbattimento del poeta
crebbe a dismisura. Gli balenò
l'idea di stabilirsi al Zante,
per vigilare sui tenui interessi
che erano già di competenza
della morta. Nel viaggio si
sarebbe recato a Firenze.
Avrebbe viaggiato coi deputati
delle isole Ionie, venuti a
presentare al principe reggente
la nuova costituzione. Ma non ne
fece nulla, e raccomandò i suoi
affari a quei deputati, tra i
quali era un suo cugino,
Dionisio Bulzo, che lo sovvenne
con qualche larghezza.
Si ritirò a Kensington, avendo a
sua disposizione la biblioteca
dello Holland. Lavorò non più
per editori, ma per periodici;
il compenso poteva essere ben
altro e ben più pronto. Scriveva
in francese articoli tradotti
subito in inglese. Il primo,
sopra Dante, fu pubblicato nella
Rivista di Edimburgo. Gli fu
pagato 32 sterline per ogni
foglio, invece delle 15 solite.
Fu sollecitato a mandare altri
articoli sulla letteratura
italiana. Il Foscolo vide il
benessere, e lo annunziò con
gioia alla Donna gentile. Conto
di dare annualmente alle Riviste
otto articoli, e di guadagnare
400 lire sterline, quante gli
bisognavano, per vivere in
Londra tollerabilmente. Ma in
quell'accensione subita di
grandi speranze, pensò ad
un'opera gigantesca, a cui non
sarebbe bastata la vita di un
uomo, sia pur dell'attività
(intermittente, ma intensissima)
del Foscolo: pubblicare in 36
volumi i classici italiani, con
biografia, introduzione sui
tempi dell'autore, collezione
dei testi, e tutto insomma
quell'apparato storico e
filologico che doveva illustrare
l'autore, collocandolo nella sua
età: secondo la maniera generosa
di critica, che il Foscolo
voleva appunto iniziare. Fra
pochi anni si riprometteva un
capitale di 10.000 lire
sterline. Bastava trovare 560
associati. Qui era appunto il
difficile. Ma pieno di questa
futura ricchezza, e persuaso che
in Inghilterra non merita
nessuna fiducia il letterato che
è - o apparisce - povero, il
Foscolo incominciò a sfoggiare.
Affittò una villa a Mouisey, la
montò riccamente, volle carrozza
e cocchiere.
John Cam Hobhouse, uomo di
stato, amico del Byron, volendo,
a commento del canto quarto del
Giovane Aroldo, dare un
brevissimo saggio della
letteratura italiana
contemporanea, si rivolse al
Foscolo, che aveva conosciuto
nel principio del 1818. Comparve
il Saggio sulla letteratura
italiana piena di aneddoti
irriverenti e di notizie
inesatte su scrittori italiani
del tempo; ma grandi lodi erano
fatte al Foscolo. Lo scandalo in
Italia fu grande.
L'Hobhouse ammise, a sua
discolpa, che il saggio era del
Foscolo. Il Foscolo negò
recisamente, segnatamente in una
lettera del 30 settembre 1818 al
Pellico. E davvero pare
impossibile sia cosa di lui,
anche se è probabile che egli
abbia dato all'Hobhouse notizie
e materiale. Così egli si ruppe
con l'amico; perdendo le 50
sterline al mese da lui
promessegli, a patto di
preparare i documenti sulle
ultime rivoluzioni italiane. E
intanto il Foscolo aveva
trascurato di scrivere altri
articoli per le riviste,
interrotta, appena sul
principio, la sua edizione dei
classici: e ripiombava nella
temuta povertà; anzi, non ne
usciva affatto.
E tuttavia continuava, come
poteva, a pagare la casa in
campagna, e anche aveva un
appartamento in città; come
Leopoldo Cicognara, recatosi a
Londra, scriveva alla Donna
gentile. Vero è che in città era
ritornato, a causa dell'ultimo e
più ardente forse dei suoi
amori. Intimo della famiglia
Russell, si innamorò della
giovinetta Carolina, a cui
parlava di lettere italiane e di
preferenza commentava il
Petrarca. Quando, con la
famiglia, la signorina si recò
in Isvizzera e rimase lungamente
a Losanna presso una sorella
ammalata, il Foscolo le scrisse
lettere piene di passione. Ma la
Carolina non potè mai offrire al
poeta più che dell'amicizia, né
sempre calda. E nel principio
del '20 la relazione, durata
quasi due anni, si troncò.
Rimasero, documento delle
letture e conversazioni
petrarchesche con la giovinetta
indarno amata, i Saggi sul
Petrarca, composti già nel 20,
pubblicati nel 21, in una
edizione di gran lusso in soli
12 esemplari. Su quello che
ritenne per sè e su quello
destinato a Carolina, il Foscolo
scrisse l'ode in inglese a
Calliroe, con innanzi l'epigrafe
miltoniana. "La sua forma era
velata. Ma all'estatico mio
sguardo Amore, Dolcezza, Bontà
splendevano nella sua persona.
Ahimè! Mi svegliai"!
Si svegliò, nella prosa di una
vita vuota oramai di ogni
lusinga. Si buttò al lavoro.
Pubblico dal Murray la Ricciarda,
sperando in un guadagno che si
tradusse in un debito. Continuò
nella versione di Omero, e il
terzo libro mandò a Gino
Capponi, che lo pubblicò nella
Antologia di Firenze. Scrisse -
e talvolta tirò giù - molti
articoli letterari e storici per
periodici inglesi. Dai quali
lavori ingrati e non tutti da
lui, si ritraeva a comporre
un'opera di più solidità, di più
eloquenza, di più nobiltà: la
storia degli eventi riguardanti
la cessione di Parga ai Turchi,
che voleva essere una apologia
di quel piccolo ed eroico popolo
tradito, e un atto di accusa
contro il governo britannico,
che aveva sopportato la
iniquità.
Annunziato già nel 20,
dall'editore Murray, come di
prossima pubblicazione, il libro
non comparve poi più, e uscì
solo molti anni dopo la morte
del poeta, tradotto in italiano
da Scipione Emiliani Giudici.
Corse, in Italia, la voce
calunniosa che il Foscolo si
fosse fatto pagare dal governo
inglese il suo silenzio. Egli
affermò che non volle pubblicare
il libro, per non comprometter
gli amici, che gli avevano
comunicati i documenti. Forse,
depresso più che mai dal lavoro
ingrato e dalle angustie
economiche, non trovò più il
coraggio di affrontar le ire del
Governo (che già contro il breve
saggio foscoliano su Parga
pubblicato nella Edimburgh
Review, faceva inserire, nella
Quarterly, una diatriba
minacciosa) e di esulare anche
da quella terra, che pur l'aveva
sì generosamente accolto.
Ma nel 1822 Ugo ritrovò la sua
figliuola naturale, natagli in
Fiandra: la madre era passata a
nozze: e la piccola affidata ad
una sua nonna, che ora, morendo,
le lasciava in legato circa 3000
lire sterline, investite in
terreni e in tre villette.
Si chiamava Floriana: aveva
diciassette anni: era bella:
mitissima. Il padre, che forse
appena sapeva della sua
esistenza, dovette essere anche
più esaltato che commosso. Sognò
un suo vecchio sogno e che
questa volta pareva realtà: una
vita serena, un tramonto sereno,
da artista e da studioso, in una
casa propria. E subito si dette
- sulla dote della figliuola - a
costruire una villa, cui pose
nome Digamma-Cottage (dal titolo
di un suo lunghissimo e
travagliosissimo saggio sul
Digamma Eolico, che l'inglese
Bentley aveva mostrato quanto
importasse alla ricostruzione
della metrica del testo
omerico). L'ammobiliò ed arredò
signorilmente: volle uomini e
donne al suo servizio: e per
cagione d'una di esse ebbe un
duello alla pistola con un certo
Graham, traduttore dei suoi
articoli.
Ma i debiti erano cresciuti a
dismisura nella fabbrica e
nell'arredamento del
Digamma-Cottage. Il Foscolo non
si era ancora installato che
già, in mezzo al lusso
apparente, si sentiva circondato
e strozzato dalla miseria.
S'affrettò a pubblicare, nel
1823, dal Murray i Saggi sul
Petrarca (in un'edizione più
completa della precedente), con
l'intento di inserire poi su
tutte le gazzette di Londra che
l'autore di quei saggi era
disposto a dar lezioni di lingua
e letteratura italiana, in casa
di chiunque lo volesse chiamare.
Lady Dacre, a cui il poeta
faceva questa desolante
confidenza, lo sovvenne,
facendogli tenere un corso di
letteratura italiana a pagamento
per sottoscrizione. Al Foscolo
parve umiliazione intollerabile
quel parlare ad un pubblico, che
veniva a udire, o a vedere
l'uomo celebre ridotto alla
povertà, non già ad ascoltare la
parola del pensatore. Pure
accettò; e i sottoscrittori
furono molti. Ma il provento non
bastò a nulla. Nuove angosce,
nuovi tormenti. Nell'ottobre di
quell'anno, 1823, Ugo scriveva
alla sorella Rubina di esser
costretto a lavorare sino a
quattordici ore al giorno, e a
nutrirsi di solo riso. Lady
Dacre lo scongiurava alle
economie. All'economia lo
scongiurava il generale Santorre
Santarosa, che dimorava da più
tempo esule in Londra. Quando
egli, il 2 marzo del 24, si reco
per salutarlo l'ultima volta,
trovò sua figlia; non lui. Egli
si era nascosto; poichè i
creditori avevano fatto spiccar
contro di lui un mandato
d'arresto. La villa e i mobili
furono messi all'asta.
Il 24 novembre del 1824 il
Foscolo fu, pare, arrestato. Da
allora la sua vita fu tutta una
lotta per isfuggire ai
creditori, o per calmarli in
parte, e un lavoro disperato, in
cui impiegava tutte le ore del
giorno; riservandosi la notte a
scorrere i libri da consultare.
Ruppe ogni legame cogli amici
inglesi e più cogli Italiani,
anche più maligni che curiosi.
Mutò nome; e perchè non si
sapesse che il miserabile
randagio era Ugo Foscolo, e
perchè bisognava sfuggire ai
creditori, alle calcagna sempre.
Si fece chiamare prima Mr.
Merriat; poi, facendo suo il
cognome della figliuola
tapinante con lui, Mr. Emerith.
Cambiò domicilio, spessissimo.
Ora fu in campagna, a Totteridge
Hertz; ora di nuovo in Londra,
d'uno in altro dei quartieri più
poveri. Dette lezioni private a
condizioni le più modeste; e nei
giorni più duri andò persino
attorno vendendo ad uno ad uno i
suoi libri, eccettuati Dante ed
Omero; e una volta fu preso per
uno spacciatore di libri rubati.
Eppure, in quelle strettezze
estreme, il Foscolo condusse
avanti il più meraviglioso, per
densità di pensiero, per dovizia
di dottrina, per originalità di
vedute, dei suoi lavori critici:
il Discorso sul testo della
Divina Commedia (1825), cioè il
primo volume dei quattro, in cui
1'editore Pickering avrebbe
pubblicato Dante: compenso alla
pubblicazione totale 1200
sterline, ipotecate senza più ai
creditori: 4 sterline ogni
settimana durante il lavoro. Il
Pickering venne meno ai patti: e
il Foscolo negò il manoscritto
degli altri volumi, anche perchè
si lusingava di poter rifare
tutto secondo il disegno suo
primitivo, molto più ampio;
essendo suo ardente desiderio,
come si esprimeva in una lettera
al Capponi del 26 settembre
1826, che gli Italiani vedessero
finalmente quanto egli aveva
sentito addentro nel maggior
loro poeta.
Nè le sventure fiaccarono
l'uomo. Rari i lamenti nelle
lettere di questi miserrimi
anni; alta, virile più che mai
la filosofia, che pervade gli
scritti letterari. Si direbbe
che in quella durissima vita il
Foscolo provi come una gioia di
espiazione. E in quella
solitudine gli sovvenne più che
mai l'amicizia dei buoni. Se un
esule come lui, Giovanni Berra,
suo copista, rivelò per danaro
il suo domicilio, un altro
esule, Fortunato Prandi, gli
faceva da intermediario con
editori e direttori di
periodici: Francesco Manni, già
profugo in Francia e ora, a 66
anni, in Inghilterra, maestro di
lingue, gli offrì tutti i suoi
servigi, in compenso
dell'avergli il Foscolo, in
tempi più lieti, trovate delle
lezioni. E molto si affezionò al
poeta, in quegli anni, il
gentiluomo Hudson Gurney, a cui
il Foscolo dedicò, grato, il
discorso dantesco. A lui
dovette, se potè abbandonare
l'orrendo quartiere di S. Giles
e trasferirsi in Henriette
Street, ottenendo, pel
cambiamento d'aria, una qualche
tregua alla febbre biliosa, che
lo travagliava da più tempo.
Pensò un'ultima volta di
ritornare al Zante. Lì avrebbe
tenuto volentieri, perchè
compreso ed amato, quelle
lezioni di letteratura, che in
Inghilterra faceva suo malgrado.
Avrebbe condotto a fine i suoi
lavori, che poi in Inghilterra
gli sarebbero stati pagati
convenientemente. E già pregava
il cugino Bulzo di fermargli una
casa colà. Sarebbe partito,
appena avesse i danari.
In realtà quella sete di riposo
ultimo e di pace era stanchezza
estrema. Il Foscolo non poteva
oramai lavorare più. E la
infiammazione del fegato e degli
intestini incrudiva. Oramai non
si sentiva in grado che di dar
lezioni ai giovanetti: di greco,
di latino, di italiano. Ma anche
questo umile lavoro mancava.
Forse l'unico guadagno
nell'ultimo anno della sua vita
gli venne dal Pickering, che,
riaccordatosi con lui, ottenne i
rimanenti volumi danteschi e gli
pagò lire sterline 167. Ma sin
dal dicembre 1826, o per
nascondersi o per riprender
salute, il Foscolo si era
stabilito nel villaggio di
Turnham Green, a Bohemian House:
frequentatovi da pochissimi, il
Manni, il dottor Negri, Giulio
Rossi, il canonico Miguel Riego.
I suoi ammiratori, fra i quali
il poeta Campbell, si
adoperarono, perché ottenesse in
Londra una cattedra
universitaria di letteratura
italiana. Ma il Foscolo rimaneva
indifferente: e compilava, con
l'amico Giulio Rossi, una
Antologia inglese dei poeti
italiani.
Nell'agosto del 1827, lord
Hudson Gurney seppe della
abitazione del poeta e si recò a
visitarlo. Lo trovò a letto,
enfiato dall'idropisia, e
stoicamente forte contro il
male. Altri amici inglesi
accorsero, benefici: lord
Russell fra gli altri. L'infermo
fu operato due volte. La
seconda, la molta acqua
levatagli lo prostrò talmente,
che rimase senza coscienza, o
quasi: né potè riconoscere il
Conte Capo d'Istria, che egli
aveva desiderato di rivedere,
per raccomandargli forse i suoi
tenui interessi al Zante.
Morì la sera del 10 settembre
1827. Un biglietto tracciato per
la figlia mostra che, anche
presso l'agonia, lo stringeva la
preoccupazione economica, ed era
lieto (pare) di aver soddisfatto
i suoi debiti. I1 18 settembre
fu sepolto nel cimitero di
Chiswick: cinque soli amici ve
l'accompagnarono: il Riego, il
Manni, il Negri, il generale
Demuster, Edward Roscoe. Fu
aperta, dalla Litterary
Chronicle, una sottoscrizione
per la tomba del poeta; ma non
fruttò molto. Il Gurney fece
porre lui, più tardi, sulla
fossa una lapide, con le
indicazioni del giorno di morte
e del numero degli anni. E poi
sostituì la lapide, con una
piccola tomba in forma di
altare. Nel 1871 le reliquie del
poeta furono trasferite a
Firenze, nel tempio delle glorie
italiane, da lui esaltato con
versi immortali: in Santa Croce.
Floriana fu affidata alla tutela
del canonico Riego; sovvenuta
dal Gurney e da altri. Morì di
mal di petto, quando non si sa,
ma pochi anni dopo il padre.
Ella lasciò tutti i manoscritti
paterni al Riego, che li
vendette nel 1835 al Capponi, a
Enrico Mayer e a Pietro Bastogi.
Nel 1844 passarono alla
biblioteca Labronica a Livorno(1).
Il Foscolo fu uomo di "vizii
ricco e di virtù", come si
definì egli stesso. Le virtù
erano nel suo profondo, i vizii
apparivano nella sua vita
esteriore, agli occhi di tutti:
e chi si fermò a questa deplorò
e detestò l'uomo, che destò
invece indomiti e tenaci amori
in chi visse vicino all'anima
sua. - Il Foscolo fu nel
medesimo tempo: violento e
tenerissimo: facile agli amori
non tutti nobili, e pur cultore
e ammiratore della verecondia;
pronto alla collera, ma anche
più pronto a dimenticare e a
disprezzare; e professò che la
pietà è la più umana e più
sociale delle virtù.
Certo, noi vorremmo che alcune
macchie non apparissero nella
storia di quell'uomo. Amò troppe
donne, anche se nell'amore egli
cercava l'esaltazione dello
spirito, assai più e meglio che
l'appagamento dei sensi. Fu
dedito al giuoco. Contrasse
debiti molti. Piatì troppo
spesso per aumenti di paghe.
Fece spese troppo superiori alle
entrate. Ma egli, come tanti
poeti moderni, come il Byron, il
Lamartine, il Chateaubriand e
qualche famoso contemporaneo,
provò forse quell'invincibile
bisogno della ricchezza e dello
splendore, senza di che può
apparire inanimata la stessa
bellezza. E bisogna infine
collocare il poeta nell'età sua,
per intenderne, cioè per
valutarne anche la figura
morale. Ogni individuo volle
vivere ed affermarsi negli anni
della Rivoluzione e dell'Impero.
L'adattamento alla mediocrità
della vita e alla necessità
delle cose sarebbe venuta poi. E
il Foscolo fu un prepotente
individuo, che volle vivere sino
al punto culminante la sua vita,
anzi le sue molte vite. Il
giovinetto tribuno, che a
Venezia declamava i suoi versi
rivoluzionarj avvolto in un
mantello logoro e stinto,
sarebbe stato l'ufficiale che in
Genova, durante l'assedio, si
nutriva di pane nero e dormiva
sulla paglia, come i suoi
soldati. Ma anche sarebbe stato
l'ufficiale elegante e mondano,
che faceva all'amore colle più
belle donne, anche se mogli de'
suoi superiori: e il professore
di eloquenza, che credeva giusto
che anche gli uomini della
cattedra avessero una bella e
comoda casa, da quanto i
negozianti e i proprietari: e lo
scrittore, credeva diritto e
dovere di essere ricco anche
lui, o almeno di apparirlo.
L'intemperanza è perciò la
caratteristica del Foscolo: un
Foscolo senza quella
intemperanza non sarebbe più
lui. Era la caratteristica anche
del suo Alfieri, né gli sarebbe
rimproverata, se avesse goduto
le rendite dell'Alfieri. Del
quale egli serbò intatto, con
eroicità di sacrificio l'alto
concetto della indipendenza
delle lettere e dello scrittore:
sia dall'impero della folla
rivoluzionaria, come dal cenno
di Napoleone e dalle insidie
dell'Austria. Il Foscolo non
scrisse forse mai una sola
pagina, di cui avesse ad
arrossire o a pentirsi poi: non
una sola pagina sacrificò al suo
convincimento, alla sua
coscienza. Dissimulare dovette
qualche volta, simulare non
volle mai.
Perciò il Foscolo vero è tutto
nel Foscolo scrittore. E la
grandezza e l'austerità dello
scrittore è tanta, da far
dimenticare le debolezze
dell'uomo.
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(1) I dati di
fatto sulla vita del Foscolo ho
preso in piccola parte dalla
vecchia vita del Foscolo, che il
CARRER premise all'edizione
delle opere foscoliane, di
Venezia, del 1842, e in parte
assai maggiore dalla
diligentissima vita, che del
Foscolo scrisse G. CHIARINI
(Firenze, Barbera, 1910). Non
però condivido sempre i giudizii
che dell'uomo recano questi due
biografi, l'uno troppo facile
panegirista, l'altro troppo
rigido censore. Molto utilmente
è stata ristampata da P.
Tommasini-Mattiucci (Città di
Castello, 1915) la più vecchia
delle vite del Foscolo, quella
scritta il 1830 da Giuseppe
Pecchio, che conobbe il poeta,
qua e là ostile; ma, negli
spiriti dello scrittore, il
Pecchio penetra molto bene
talvolta, e molto bene
rappresenta il mondo ideale e
reale, in cui il poeta si mosse.
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