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UGO FOSCOLO
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LE GRAZIE
Quell’aspirazione all’equilibrio
interiore, che gli consentisse
di poter dominare le proprie
passioni e di conseguire la
“calma” dello spirito necessaria
a trasfigurare il suo mondo di
affetti in immagini di pura ed
armoniosa fantasia, sembra il
Foscolo aver realizzata in
questo carme, nel quale si è del
tutto spento il clamore delle
battaglie della vita, ma non
l’eco di quei sentimenti
profondi che ispirarono quelle
battaglie e plasmarono la
coscienza del cittadino prima
ancora che quella del poeta. In
questo carme non si fa fatica ad
avvertire che il Poeta ha tratto
finalmente il massimo profitto
dalla lezione degli Antichi ed è
riuscito a purificare i propri
sentimenti da tutte le scorie
degli interessi più immediati
per immergerli in un’atmosfera
rarefatta di puro sogno.
Il carme, che non fu mai
ultimato e neppure
definitivamente ordinato dal
Foscolo, si compone di numerosi
frammenti lirici, in sé
compiuti, per un totale di circa
1300 versi sciolti.
Già nel 1802, nel discorso sulla
“Chioma di Berenice”, il Poeta
inseriva alcuni frammenti lirici
(da lui attribuiti - per
prendersi gioco dei dotti del
tempo - al poeta alessandrino
Fanocle), che in seguito avrebbe
utilizzato per il carme. Ma gli
anni che dedicò maggiormente
alla composizione de “Le Grazie”
furono il 1812 ed il 1813.
Inizialmente il Foscolo concepì
il carme in un unico Inno, ma
successivamente il disegno si
ampliò e gli inni divennero tre.
In quegli anni Antonio Canova,
il più illustre scultore
neoclassico italiano, aveva
appena ultimato una statua
rappresentante Venere che esce
dal bagno e stava iniziando a
lavorare ad un gruppo delle
Grazie per incarico di
Giuseppina Beauharnais. Il
Foscolo pensò dunque di dedicare
proprio al Canova il Carme:
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...al vago rito
vieni, o Canova, e
agl'Inni. Al cor men
fece
dono la bella Dea che in
riva d'Arno
sacrasti alle tranquille
arti custode;
ed ella d'immortal lume
e d'ambrosia
la santa immago sua
tutta precinse.
Forse (o ch'io spero!)
artefice di Numi,
nuovo meco darai spirto
alle Grazie
ch'or di tua man sorgon
dal marmo... |
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Il problema della frammentarietà
Il Foscolo continuò a lavorare
al carme per tutta la vita, sia
pure saltuariamente, ma, come
abbiamo detto, non riuscì ad
ultimarlo né a dargli una
definitiva struttura. In più
occasioni diede alle stampe
singoli episodi, ma l’opera vide
la luce per intero una prima
volta nell’edizione fiorentina
di tutte le opere del Foscolo
curata dall’Orlandini, poco dopo
la morte dell'Autore. In questa
occasione i vari frammenti del
carme furono ordinati in modo
alquanto arbitrario. Miglior
fortuna “Le Grazie” ebbero
successivamente nelle tre
edizioni curate dal Chiarini,
l’ultima delle quali, pubblicata
a Livorno nel 1904, sembra
essere la più accettabile, in
quanto il critico non ritenne
opportuno costruire un’ideale
architettura del carme su
congetture ed ipotesi del tutto
personali, ma preferì attenersi
all’ordine indicato dallo stesso
Foscolo nel terzo ed ultimo
sommario scritto di suo pugno.
Confrontando i frammenti in
nostro possesso (che sono
certamente tutti quelli scritti
dal Poeta) con detto “sommario”
(che è dettagliatissimo e divide
il carme in tre “inni”, il
secondo e il terzo dei quali
sono a loro volta divisi
ciascuno in tre parti), si
notano la mancanza di alcuni
episodi, lo stato di puro
abbozzo di altri, la non certa
rispondenza di altri, nella
collocazione data dal Chiarini,
alle parti del sommario. In
effetti il carme, anche dopo il
lavoro del Chiarini, rimane
frammentario nella struttura, né
sono da escludere eventuali
ripensamenti che sarebbero
potuti intervenire nell’Autore,
dopo quel sommario, in sede di
sistemazione definitiva.
Ma codesta frammentarietà
strutturale nuoce veramente alla
sostanziale unità artistica del
carme? Il Foscolo stesso avvertì
che il carme “ha stile fra
l'epico e il lirico” e che il
suo fine è “didattico”. Ora,
esaminando i vari progetti del
Foscolo tendenti a mettere
insieme i vari frammenti in modo
che ne risultasse un disegno
complessivo organico ed un
discorso coerente, si avverte
chiaramente che tutto ciò doveva
rispondere alla sola esigenza
“didattica”. Se il piano è
rimasto interrotto e non c’è la
possibilità oggettiva di
sostituirci all’Autore per
realizzarlo in sua vece, non
pare che ci si debba
eccessivamente rammaricare: che
l’intendimento didattico risulti
imperfettamente realizzato
nell’opera, è cosa di poco
conto, dal momento che i
numerosi frammenti si
ricompongono da se stessi in una
unità di ispirazione, che è
facilmente riscontrabile nel
particolare “tono lirico” del
carme, magistralmente spiegato
dal Flora con queste parole:
«Dopo i Sepolcri, trovata ormai
nella poesia una certezza morale
che riscatta dal dolore e dalla
morte, l’animo del Foscolo, nei
furtivi riposi in cui dalla
lotta del vivere può rifugiarsi
nel suo cuor lirico, è come
volto all'immagine stessa della
poesia, il ritmo eterno delle
Grazie, nel poema del mondo. A
questa rapita certezza, rendendo
la vita pratica un ricordo o un
desiderio, l'universo gli si
atteggia come la
rappresentazione della bellezza,
o anzi dell'armonia, nella forma
più pura ch'essa ebbe nei secoli
dell'antica Grecia. La
letteratura classica avviva gli
affetti del poeta come con un
suo respiro di eterno: quel
medesimo che le Muse fa custodi
dei sepolcri. E mai la grecità
in cui concorrono Omero e
Pindaro e Callimaco ravvivati
nella linfa latina di Catullo
ebbe più puro erede». Ed ecco
cosa il Flora pensa circa
l’insanabile frammentarietà
esteriore del carme: «Trovare
l'ordine ultimo che il poeta
poteva proporsi è assai
malagevole: e tuttavia io direi
che ha meno importanza di quel
che si creda. Ciò che fa l'unità
delle Grazie è il tono d'arte
raggiunto: è, se fosse possibile
dirlo, la grazietà... E la
sottile industria di una più
rigorosa edizione delle Grazie,
sarà nell'indulgere a tutte le
varie redazioni foscoliane,
senza vane sollecitudini per
l'ultima intenzione del poeta,
che è irraggiungibile; e se
fosse conosciuta ci priverebbe
forse di molta poesia che egli
sentì e che una ricerca di
euritmia esterna avrebbe potuto
cancellare. Forse è da benedire
la sorte che le Grazie ci siano
giunte così».
Anche noi siamo del parere che
forse lo stesso Foscolo avrebbe
finito col nuocere alla poesia
delle “Grazie” se avesse
insistito nella costruzione di
una architettura artificiale in
cui imprigionare quegli stupendi
“frammenti” nati liberi ed
indipendenti.
L'argomento
Il carme può essere così
riassunto.
Il Foscolo immagina di dedicare,
sul colle di Bellosguardo in
Firenze (ove visse per alcun
tempo), un tempio alle Grazie
(le tre figlie di Venere:
Eufròsine, Aglàia e Talìa), dato
che gli Antichi, pur venerandole
sempre, non ne fecero mai
oggetto di culto specifico e
sempre le accomunarono al culto
di Venere:
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Alle Grazie immortali
le tre di Citerea figlie gemelle
è sacro il tempio, e son d'Amor
sorelle;
nate il dì che a' mortali
beltà ingegno virtù concesse
Giove,
onde perpetue sempre e sempre
nuove
le tre doti celesti
e più lodate e più modeste
ognora
le Dee serbino al mondo. Entra
ed adora. |
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Quindi inizia il primo Inno,
intitolato a Venere (simbolo
della bellezza universale), nel
quale si descrive l’apparizione
della Dea nelle acque del mar
Ionio in compagnia delle Grazie
e l'inizio dell’incivilimento
dell’uomo. Fino a quel giorno
gli uomini erano vissuti nella
più squallida ferinità,
lasciando arrugginire l’aratro
che aveva loro donato Cerere e
divorando selvaggiamente il
frutto della vite, dono di
Bacco, prima ancora che il sole
autunnale lo facesse maturare.
All’apparire delle Grazie gli
uomini ammutolirono. Deposero le
fiere armi e le ruvide pelli e
incominciarono ad ingentilirsi
scoprendo le arti. Quando Venere
decise di tornare fra gli Dei,
lasciò le figlie sulla terra
perché rendessero più gradito ai
mortali il soggiorno terrestre,
invitandoli costantemente alla
pace, all’amore, alla poesia:
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Assai beato, o giovinette, è il
regno
de' Celesti ov'io riedo; a la
infelice
Terra ed a' figli suoi voi
rimanete
confortatrici; sol per voi sovr'essa
ogni lor dono pioveranno i Numi:
e se vindici sien più che
clementi,
allor fra' nembi e i fulmini del
Padre,
vi guiderò a placarli. Al partir
mio
tale udirete un'armonia
dall'alto,
che diffusa da voi farà più
liete
le nate a delirar vite mortali,
più deste all'Arti e men
tremanti al grido
che le promette a morte. Ospizio
amico
talor sienvi gli Elisi; e
sorridete
a' vati, se cogliean puri
l'alloro,
ed a' prenci indulgenti, ed alle
pie
giovani madri che a straniero
latte
non concedean gl'infanti, e alle
donzelle
che occulto amor trasse
innocenti al rogo,
e a' giovinetti per la patria
estinti.
Siate immortali, eternamente
belle! |
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L’effetto benefico delle Grazie
si propagò dapprima in Grecia e
per due volte esse furono ospiti
dell’Italia, prima in Roma,
nell’età antica, poi in Firenze,
durante il Rinascimento.
Ora però le Grazie sembrano
essere state bandite dagli
uomini. Il Poeta promette di
rinnovarne il culto nel tempio
da lui eretto a Bellosguardo ed
implora il loro ritorno:
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Venite, o Dee, spirate Dee,
spandete
la Deità materna, e novamente
deriveranno l'armonia gl'ingegni
dall'Olimpo in Italia: e da voi
solo,
né dar premio potete altro più
bello,
sol da voi chiederem, Grazie, un
sorriso. |
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Il secondo Inno, intitolato a
Vesta (simbolo delle virtù
umane), rappresenta il sacro
rito che si celebra dinanzi
all’ara delle Grazie, cui il
Poeta invita i giovinetti che la
guerra non ha ancora strappati
alle madri, perché allontanino i
profani dalla sacra soglia del
tempio. Il rito si compie con
l’ausilio di tre bellissime
sacerdotesse - tre donne amate
dal Foscolo: Eleonora Nencini di
Firenze, Cornelia Rossi
Martinetti di Bologna e
Maddalena Marliani Bignami di
Milano - che rappresentano
rispettivamente la musica, la
poesia e la danza.
La prima sacerdotessa, la
Nencini, esce dal suo palazzo di
Firenze (il palazzo Pandolfini,
la cui costruzione il Foscolo
attribuisce erroneamente a
Raffaello Sanzio, mentre fu
opera di Gianfrancesco Sangallo
e Bastiano d’Aristotile) e si
accosta all’ara per offrire alle
Grazie il suono dell’arpa:
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Leggiadramente d'un ornato
ostello,
che a lei d'Arno futura
abitatrice
i pennelli posando edificava
il bel fabbro d'Urbino, esce la
prima
vaga mortale, e siede all'ara; e
il bisso
liberale acconsente ogni
contorno
di sue forme eleganti; e fra il
candore
delle dita s'avvivano le rose,
mentre accanto al suo petto
agita l'arpa. |
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La seconda sacerdotessa, la
Martinetti, offre alle dee un
favo, simbolo dell’eloquenza e
della poesia, mentre il Poeta
coglie l’occasione per fare un
rapido excursus della
letteratura greca e italiana (le
due anime del Foscolo),
rievocando Omero, Corinna,
Pindaro, Saffo, Dante, Petrarca,
Boccaccio, Boiardo, Ariosto,
Tasso:
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Ora Polinnia alata Dea che molte
Lire a un tempo percote, e più
d'ogni altra
Musa possiede orti celesti,
intenda
anche le lodi de' suoi fiori; or
quando
la bella donna, delle Dee
seconda
sacerdotessa, vien recando un
favo. |
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La terza sacerdotessa, la
Bignami, danza leggiadramente
dinnanzi all’altare delle Grazie
e consacra loro un cigno offerto
in voto dalla viceregina
d'Italia Amalia Augusta di
Baviera per ringraziare gli Dei
del ritorno del marito, Eugenio
Beauharnais, dalla campagna
germanica del 1813:
|
Sostien del braccio un
giovinetto cigno,
e togliesi di fronte una catena
vaga di perle a cingerne
l'augello.
Quei lento al collo suo del
flessuoso
collo s'attorce, e di lei sente
a ciocche
neri su le sue lattee piume i
crini
scorrer disciolti, e più lieto
la mira
mentr'ella scioglie a questi
detti il labbro:
GRATA AGLI DEI DEL REDUCE MARITO
DA' FIUMI ALGENTI OV'HANNO
PATRIA I CIGNI,
ALLE VERGINI DEITA' CONSACRA
L'ALTA REGINA MIA CANDIDO UN
CIGNO. |
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Il terzo Inno, intitolato a
Pallade (simbolo delle belle
arti), dopo le prime due parti
estremamente lacunose e
incomplete, in cui si sarebbe
dovuto narrare il soggiorno
delle Grazie in compagnia di
Venere sulla terra, in cielo e
nell’Eliso, ci trasporta, nella
sua terza parte, nell’isola
mitica di Atlantide, regno di
Pallade, ove la Dea fa tessere
il velo promesso alle Grazie per
proteggerne la grazia e il
candore dall’assalto violento
delle passioni degli uomini.
Quando gli uomini, corrotti
dall’avidità e dalla lascivia,
si abbandonano ai vizi e si
immergono nelle guerre, allora
Minerva li abbandona e si
rifugia nel suo amabile regno:
|
Poi nell'isola sua fugge
Minerva,
e tutte Dee minori, a cui diè
Giove
d'esserle care alunne, a ogni
gentile
studio ammaestra: e quivi casti
i balli,
quivi son puri i canti, e senza
brina
i fiori e verdi i prati, ed
aureo il giorno
sempre, e stellate e limpidi le
notti. |
|
Così avvenne quando la Dea
decise di por mano al velo delle
Grazie:
|
Chiamò d'intorno a sé le Dive, e
a tutte
compartì l'opre del promesso
dono
alle timide Grazie. Ognuna
intenta
agl'imperj correa: Pallade in
mezzo
con le azzurre pupille
amabilmente
signoreggiava il suo virgineo
coro. |
|
Le Ore dispongono sul telaio le
fila dell’ordito tratte dai
raggi del sole mentre le Parche
mettono lo stame alla spola;
Psiche, pensosa e taciturna,
tesse, mentre Tersicore le danza
intorno per divertirla ed
incoraggiarla; Iride porge i
colori a Flora, che li
moltiplica in migliaia di
varietà, per procedere al ricamo
delle figure che Erato le
suggerisce cantando al suono
della lira di Talia. Infine
l’Aurora trapunta di rose gli
orli del velo su cui Ebe versa
l'ambrosia rendendolo
incorruttibile. Le figure sono
raggruppate in vari soggetti che
rappresentano la gioventù,
l’amor coniugale, l’ospitalità,
l’amore filiale e quello
materno. Terminato il velo,
|
Poi su le tre di Citerea gemelle
tutte le Dive il diffondeano; ed
elle
fra le fiamme d'amor ivano
intatte
a rallegrar la terra; e sì
velate
apparian come prima vergini
nude. |
|
Infine il Poeta si accommiata
dalle Grazie promettendo loro di
rinnovare il rito nel mese di
aprile e pregandole di vegliare
sulla vita della Bignami:
|
...Intanto, o belle
o dell'arcano vergini custodi
celesti, un voto del mio core
udite.
Date candidi giorni a lei che
sola,
da che più lieti mi fioriano gli
anni,
m'arse divina d'immortale amore.
Sola vive al cor mio cura soave,
sola e secreta spargerà le
chiome
sovra il sepolcro mio, quando
lontano
non prescrivano i fati anche il
sepolcro.
.................................
A lei da presso il piè volgete,
o Grazie,
e nel mirarvi, o Dee, tornino i
grandi
occhi fatali al lor natìo
sorriso. |
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Il valore morale delle allegorie
Come si può facilmente
intendere, il carme rappresenta
anche una grandiosa “allegoria”
o, meglio, un insieme di
allegorie che compongono una
stupenda sinfonia, l’allegoria
della vita: ogni dea, ogni mito,
ogni immagine non sono
costruzioni fantastiche fini a
se stesse, ma rappresentano un
“valore” che il Poeta ha scavato
dal profondo della sua anima o
come retaggio atavico della sua
origine greca, o come conquista
sofferta della sua travagliata
esistenza. I non rari accenni a
fatti reali o a situazioni
psicologiche riferiti al suo
tempo ed alla sua concreta
condizione esistenziale, non
sono intrusioni cervellotiche o
maldestre nella rarefatta
atmosfera in cui ondeggiano i
miti, ma rappresentano piuttosto
il terreno naturale sul quale e
per il quale questi sorgono. Per
il Foscolo il mondo classico, il
regno della Bellezza e
dell’Armonia, è sì sentito come
irraggiungibile, ma non per
questo egli rinunzia alla
speranza che esso possa ancora
far sentire i suoi benefici
effetti anche nel presente e
soprattutto nell’avvenire.
Contrariamente quel mondo non
avrebbe più alcuna validità e
sarebbe da deboli o da vinti
rimpiangerlo vanamente.
Vagheggiarlo invece per poterne
riaffermare la validità è opera
degna di un animo forte e
genroso.
Ecco perché i miti che il
Foscolo trae dall’antichità non
hanno soltanto il pregio di
rappresentare - ognuno in sé -
il segno dell’armonia
universale, ma hanno soprattutto
il pregio di trasmettere al
presente quei “valori” di cui
furono simboli presso gli
antichi: valori che per il
Foscolo non hanno affatto
perduto la propria validità
morale.
Poesia civile
Anche “Le Grazie” sono pertanto
poesia civile, non meno dei
“Sepolcri”. E se il tono lirico
è diverso, ciò è dovuto al fatto
che il Poeta ne “Le Grazie” ha
finalmente realizzato
compiutamente l’armonica fusione
delle sue due anime, quella
greca e quella italiana, quella
antica e quella moderna. Grazie
a questa riuscita fusione egli
ha potuto ergersi al di sopra
della materia contingente della
“sua” storia, ha potuto
collocarsi nella stratosfera del
Tempo, da dove è possibile
abbracciare con un solo sguardo
il passato e il presente e
spingersi anche verso
l’avvenire, non con animo
profetico, ma con la coscienza
pensosa del cittadino della
storia universale. Questo spiega
perché ne “Le Grazie” siano del
tutto assenti gli accenti
polemici, le proteste, il
rancore, la rabbia, il furore:
la visione “politica” dei
“Sepolcri” è qui divenuta
visione morale.
Non ha quindi senso godersi la
bellezza dei miti foscoliani,
presenti ne “Le Grazie”, senza
meditare sui valori che
simbolicamente rappresentano,
senza cioè tener conto delle
“allegorie”.
E' questa, a parer nostro, la
chiave di lettura del carme.
D’altra parte lo stesso Foscolo
ci dà un’indicazione in tale
direzione. In una sua
“dissertazione” scritta in
inglese su “Di un antico inno
alle Grazie” (e pubblicata in
traduzione italiana a Roma, nel
1872, da Domenico Bianchini), il
Foscolo afferma: «Le allegorie,
come che sembrino cose ridicole
ai critici metafisici, furono
non pertanto agli artisti i
materiali più belli ed efficaci
di lavoro; e il dispregio in cui
sono cadute fra noi deriva
dall'uso insensato che ne è
stato fatto, e dal cattivo gusto
degli inventori moderni.
Imperocché un'allegoria non è
veramente che un'idea astratta
personificata, la quale per
agire più rapidamente e
agevolmente sui sensi e sulla
immaginazione ci si apprende
alla mente con più prontezza. Ai
poeti ed artisti della Grecia,
Venere non era altro che la
rappresentazione personificata
della bellezza ideale» .
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