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UGO FOSCOLO
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LE ODI
Le due odi del Foscolo, composte
la prima, “A
Luigia Pallavicini caduta da
cavallo”,
nel 1800, la seconda, “All’amica
risanata”,
nel 1803, ci conducono in
un’atmosfera particolare,
tranquilla sotto un cielo
limpido ove qualche fiocco di
nuvola di passaggio non fa che
velare per un attimo, ma solo
per un attimo, la luce del sole;
un'atmosfera rarefatta, intrisa
di balsami beati, ove è bandita
ogni eco di lotta civile e
l’animo riposa dalle lunghe
traversie. In esse il Foscolo
canta la bellezza muliebre,
consolatrice delle miserie
umane, unico soggetto degno del
canto dei poeti.
Rappresentano quindi un inno
alla Grazia ed alla Bellezza e,
ricche come sono di quadri
mitologici, rientrano nel gusto
della poesia neoclassica.
La prima ode è di stampo
montiano e, partendo da un fatto
di cronaca, si libra poi nelle
sfere della mitologia, senza
però conferire alle immagini
quell’alito vitale che solo può
fare poesia. E' insomma un’ode
piuttosto impersonale, di
eccellente resa pittorica, ma
priva di un palpito sincero,
capace di soddisfare l’orecchio
e l’immaginazione, ma non il
cuore.
La seconda invece è più sentita,
più rispondente ad un’autentica
esigenza dell'animo del Poeta, e
perciò più viva, più poetica.
L’occasione per la prima ode fu
data dalla caduta da cavallo,
durante una partita di caccia,
di una nobile donna genovese,
che riportò ferite deturpanti al
volto. L’incidente avvenne a
Genova, nel marzo del 1800, e
fece scalpore negli ambienti
aristocratici della città,
suscitando emozione in non pochi
poeti.
Le Grazie apprestino per la
nobildonna infelice i balsami
che porsero a Venere quando, per
soccorrere il giovinetto Adone,
fu punta ad un piede da una
spina. Ora le danze nelle case
signorili sentono la mancanza
della dolce creatura, cui la
chioma disciolta arrecava dolce
impaccio, rendendola simile a
Pallade che, immersa nelle
acque, trattiene con la mano i
capelli liberatisi dall’elmo. Ma
perché la donna ha voluto
seguire le arti virili di Marte,
anziché quelle delle Muse? Il
cavallo, indocile al freno di
una donna, scalpita, prende il
via, aumenta sempre più
l’andatura e affronta impavido
le onde del mare. Ma Nettuno lo
respinge: atterrito, il cavallo
torna indietro, si impenna,
disarciona l’amazzone e la
trascina per lungo tratto
insanguinata e dolente. Muoia
chi per primo osò affidare “a
infedele corsiero / l’agil
fianco femineo! ” Anche Diana fu
scaraventata in un precipizio
quando le cerve che
trasportavano il suo cocchio
divennero furiose per gli
ululati delle fiere: gioirono le
dee dell’Olimpo quando videro la
rivale col volto deturpato, ma
poi tremarono, quando la videro
tornare dalle “danze efesie” più
bella di prima.
La seconda ode è invece dedicata
ad Antonietta Fagnani Arese che,
reduce da una grave malattia,
tornò più lieta e più bella alla
vita mondana.
Il Foscolo era stato legato alla
Fagnani da una fosca passione
che però, nel 1803, era soltanto
un ricordo. Perciò l’ode non
risente per niente del tumulto
dei sensi ed erige un altare
alla Bellezza che la poesia può
rendere divina.
Come il pianeta Venere sorge
dall'oceano in compagnia del
sole, tra le fuggenti tenebre,
così il divino corpo della donna
sorge dal letto ormai guarito e
rifiorisce in lei «l'aurea
beltade ond'ebbero / ristoro
unico a' mali / le nate a
vaneggiar menti mortali». Le
Ore, che prima le
somministravano le medicine,
apprestino per lei ornamenti
leggiadri: ella tornerà alle
danze e farà palpitare il cuore
dei giovani e trepidare quello
delle fanciulle. Le Grazie
guardino mestamente chi osa
ricordare alla donna che la
bellezza è fugace: Diana,
Bellona, Venere non furono che
donne mortali, ma la loro
bellezza, cantata dai poeti, le
tramutò in dee. Ed anche la
Fagnani, grazie al canto del
Poeta, sarà venerata come una
dea dalle future donne lombarde.
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