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UGO FOSCOLO
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I SONETTI
Il Foscolo compose numerosi
sonetti in età giovanile (per
non dire adolescenziale) che
successivamente ripudiò
considerandoli frutto di “vanità
giovanile”. Pubblicò invece a
Pisa, nel 1802, otto sonetti
scritti tra il 1798 e il 1802,
che ristampò poi in una nuova
edizione a Milano con l’aggiunta
di altri quattro sonetti
composti tra il 1802 e il 1803,
senz’altro i suoi migliori e
forse i più belli della
letteratura italiana.
Non è possibile stabilire una
cronologia esatta di questi
dodici sonetti perché le
testimonianze non sono certe ed
i critici appaiono discordi. Noi
ci atterremo a quella che ci
sembra più condivisa:
1798 |
“Di
se stesso”
(“Perché taccia il rumor
di mia catena”),
delicata poesia in cui
il Poeta confida a un
“solitario rivo” il suo
infelice amore per una
bellissima donna che,
secondo il Chiarini ed
il Mestica dovrebbe
essere Isabella Roncioni,
secondo il Casini
dovrebbe essere Teresa
Pikler.
“All'Italia”
(“Te nudrice alle Muse,
ospite e Dea”), in cui
il Foscolo esprime tutto
il proprio sdegno contro
il Gran Consiglio
legislativo della
Repubblica Cisalpina che
aveva proposto
l’abolizione dello
studio del latino:
l’Italia, perduto il
senno ed il valor di
Roma, conservava almeno
“il gran dir” che
avvolgeva “allori
regali” alla sua “servil
chioma”, ma ora ha
deciso di sacrificare
anche questo, sicché il
vincitore (Napoleone)
può andar fiero anche
della “barbarie” in cui
ha ridotto il nostro
Paese. |
1800 |
“Alla
sua donna lontana”
(“Meritamente, però
ch'io potei”), in cui
confessa di non essere
riuscito a liberarsi con
la lontananza dell’amore
che lo legava alla sua
donna (forse Teresa
Pikler) e di aver deciso
di tornare a lei.
“A
se stesso”
(“Che stai? già il secol
l'orma ultima lascia”):
il secolo XVIII è ormai
andato via portando con
sé gran parte della
giovinezza e degli
errori del Poeta: è ora
per lui di pensare alla
gloria. |
1801 |
“Alla
sua donna”
(“Così gli interi giorni
in lungo incerto”): il
Poeta vaga di notte
senza riuscire a
togliersi dalla mente e
dal cuore le sembianze
della sua donna
(Isabella Roncioni) e
prorompe in questa
petrarchesca
reminescenza: «Luce
degli occhi miei, chi mi
t'asconde». |
1802 |
“Di
se stesso”
(“Non son chi fui: perì
di noi gran parte”): uno
dei canti più desolati
del Foscolo, in cui
sembra cedere sotto il
peso degli affanni: solo
la morte potrebbe dargli
pace, ma dal pensiero
del suicidio lo
distolgono “furor di
gloria e carità di
figlio”.
“Il
proprio ritratto”
(“Solcata ho fronte,
occhi incavati
intenti”), che abbiamo
riportato integralmente
a proposito dell’indole
del poeta: il Foscolo
descrive di sé la
figura, il portamento,
il temperamento.
“A
Firenze”
(“E tu ne' carmi avrai
perenne vita”): il nome
di Firenze vivrà
gloriosamente eterno
grazie al canto dei
poeti e perché ancor
oggi “al pellegrino /
del fero vate (Dante,
secondo alcuni, Alfieri,
secondo i più) la magion
s'addita”, ma al Foscolo
è caro soprattutto
perché in questa città
gli ha sorriso la donna
del cuore (Isabella
Roncioni).
“In
morte del fratello
Giovanni”
(“Un dì, s'io non andrò
sempre fuggendo”): è il
famoso sonetto scritto
in occasione del
suicidio del fratello
Giovanni Dionigi,
tenente di artiglieria,
che a soli venti anni si
diede la morte per
sottrarsi alla vergogna
di una infamante quanto
falsa accusa di furto.
Se un giorno il Destino
cesserà di
perseguitarlo, egli
potrà recarsi sulla
tomba del fratello a
piangere i suoi verdi
anni infranti. Su quella
tomba ora trascina il
corpo invecchiato e
l’animo prostrato la
madre che parla ad un
“cenere muto” di un
figlio lontano e forse
perduto per sempre.
Anche il Poeta è stanco
della vita e spera di
poter finalmente
riposare l'animo stanco
nella quiete della
morte: le sue ossa siano
almeno rese al “petto
della madre mesta”. E'
un canto dolente
recitato sommessamente,
a fil di voce: è un
pianto senza lacrime che
sgorga lentamente dal
cuore, segnato di una
virile rassegnazione. |
1803 |
“A
Zacinto”
(“Né più mai toccherò le
sacre sponde”): il
Poeta, lontano dalla
terra natale, dispera
ormai di potervi un
giorno ritornare, come
toccò all’omerico
Ulisse: la sacra terra,
che si specchia nelle
onde di quel mare da cui
nacque la vergine Venere
e che per questo ebbe il
dono di essere rievocata
dal grande Omero, non
potrà aver altro dal
figlio disperso che un
canto d’amore: il fato
ha prescritto per lui
una “illacrimata
sepoltura”.
“Alla
sera”
(“Forse perché della
fatal quiete”): è
unanimemente considerato
il più bello dei sonetti
foscoliani. Il Poeta
esprime tutta la
suggestione dell'animo
suo quando contempla la
pace della Sera e riesce
a far tacere lo “spirito
guerriero” che l’incalza
durante il giorno. La
Sera, con la sua
immagine della Morte,
induce l’animo a
inseguire le orme che
portano al Nulla ed è
perciò sempre invocata
dal Poeta.
“Alla
Musa”
(“Pur tu copia versavi
alma di canto”): il
Poeta, che sempre e
soltanto dalla Poesia ha
tratto conforto alle
pene e forza di vivere e
speranza di gloria, ora
avverte che la Musa lo
abbandona, perché sente
che le poche “rime”
faticosamente costruite
non valgono a fargli
sfogare tutto il pianto
del cuore, deluso per
l’amore contrastato e
per la patria vilipesa. |
Nei sonetti l’animo esagitato
dell’Ortis ha trovato una
maggiore compostezza, il
sentimento è più maturo e sa
frenare gli impulsi delle
passioni; ma il disinganno della
patria tradita, la nostalgia
della terra natale e della
famiglia lontane, gli stenti
d’una vita tra genti straniere,
il desiderio di gloria da
difendere con tanta fatica in
tempi così tristi: sono tuttora
presenti e vivi nella stanca ma
non avvilita e sempre tetragona
coscienza del Foscolo. Naturale,
quindi, che nei sonetti si
ritrovino gli stessi motivi
presenti nel romanzo.
Ma è naturale anche che
sentimenti ed immagini si
distendano in un canto più
pacato, fatto di accenti più
lievi, sgombro da passioni
troppo accese, vibrante sulle
corde di un afflato via via più
universale: un canto insomma
sempre più cordiale e persuasivo
che annunzia la grande poesia
dei “Sepolcri” e troverà la sua
sublimazione ne “Le Grazie”.
Nell’ “Ortis” erano chiari i
segni della presenza morale del
Parini e dell’Alfieri. Nei
sonetti non poteva mancare anche
l’eco della malinconia del
Petrarca.
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