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GIACOMO LEOPARDI
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CENNI BIOGRAFICI
In una
lettera del marzo 1829 a Pietro
Colletta, Giacomo Leopardi
confida il proposito di scrivere
una autobiografia che
descrivesse però solo “poche
avventure estrinseche, e
queste... delle più ordinarie” e
si applicasse invece a rivelare
minutamente “le vicende interne
di un animo nato nobile e
tenero, dal tempo delle sue
prime ricordanze fino alla
morte”. Questa autobiografia -di
cui scrisse solo una breve
introduzione-, sarebbe dovuta
essere, insomma, la “Storia di
un’anima”. Quindi il Leopardi
stesso intuì per primo la scarsa
rilevanza che ebbero su di lui i
fatti esterni della vita
familiare e sociale, anche se
indubbiamente questi non
poterono non condizionare in
qualche modo, almeno negli anni
della adolescenza e della prima
giovinezza, la sua formazione
intellettuale e morale. La
verità, comunque, è che il
Leopardi visse nella solitudine
della propria coscienza
straordinarie avventure del
pensiero e del sentimento e che
per lui solo queste assumono il
rilievo di dati biografici.
E' chiaro, quindi, che la più
autentica biografia del Leopardi
vada ricercata non sui dati
storici della sua esistenza, ma
su quelli psicologici; non negli
avvenimenti esterni, ma nelle
sensazioni intime, nei palpiti
segreti. A tal fine molto
varrebbero le note sparse dello
Zibaldone, soprattutto quelle
raccolte, negli indici fatti
dallo stesso Poeta, sotto il
titolo di “Memorie della mia
vita”. Ma più ancora sarebbe
utile riconoscere come fonte per
una sua biografia tutta intera
la sua produzione artistica.
Non ci sembra però questo il
luogo per attingere a tali fonti
e riteniamo opportuno rimandare
il discorso sulla “storia
dell'anima leopardiana” al
momento in cui ci occuperemo
delle opere del grande
recanatese. In questa sede ci
limiteremo a dare i dati esterni
della sua vita.
Giacomo Leopardi nacque a
Recanati il 29 giugno 1798 dal
conte Monaldo e dalla marchesa
Adelaide Antici. Il padre,
conservatore e sostenitore del
potere temporale dei papi, fu
uomo di una certa cultura e
possedeva una ricchissima
biblioteca, ancora oggi oggetto
di grande ammirazione. La madre,
fredda e autoritaria, dedicò
tutta se stessa
all’amministrazione del
patrimonio familiare, abbastanza
dissestato dalle errate
speculazioni compiute dal
marito, e poco si curò
dell'educazione dei figli
(Giacomo, Carlo, Paolina, ecc.),
ai quali fece mancare del tutto
il calore dell’affetto materno.
Ben presto Giacomo si rivelò un
“bambino prodigio”, tanto che a
poco più di dieci anni avvertì
di poter fare a meno dei maestri
e di poter continuare da solo i
suoi studi nella biblioteca
paterna. A soli dodici anni era
già in grado di scrivere
correntemente in latino e dal
latino tradusse i primi due
libri delle Odi di Orazio.
Compose pure due tragedie: “La
virtù indiana” e “Pompeo in
Egitto”. A quindici anni iniziò
una dotta “Storia
dell'astronomia” e compose un
“Saggio sopra gli errori
popolari degli antichi”. In
questi anni di “studio matto e
disperatissimo” non solo scrisse
molto su vari argomenti, ma
riuscì pure a perfezionare la
sua conoscenza delle lingue
classiche e ad apprendere la
lingua ebraica ed alcune lingue
moderne. Questo pressoché
costante appartarsi nella
biblioteca paterna gli alienò il
mondo esterno, che egli avvertì
poi quasi sempre come ostile e
inadatto a comprendere la sua
persona; ma gli minò pure
gravemente la salute fisica che
gli fu causa di non poche
sofferenze.
Nel 1817 provò la prima
delusione amorosa, essendosi
invaghito, senza speranza, della
cugina Geltrude Cassi Lazzeri,
ospite in casa Leopardi insieme
col marito ed una figlioletta.
Altre delusioni del genere
seguirono a questa (pare fosse
innamorato di Teresa Fattorini,
figlia del cocchiere di casa,
forse la Silvia del canto “A
Silvia”, e di Maria Belardinelli,
forse la Nerina delle
“Ricordanze”), anche se, come
osservò il fratello Carlo, gli
amori di Silvia e di Nerina
furono più immaginati come
motivi di tristezza che
realmente sentiti. In effetti
Giacomo non ebbe mai interessi
profondi per una donna in
particolare ed egli stesso ebbe
a dire: «In ordine alle donne...
ho già perduto due virtù
teologali, la fede e la
speranza. Resta l'amore, cioè la
terza virtù della quale peranco
non mi posso spogliare, con
tutto che non creda né speri più
niente».
In questi anni avvertì
maggiormente gli angusti limiti
del suo “borgo selvaggio” e,
dopo aver anche meditato il
suicidio, tentò la fuga da casa.
Il progetto fu però sventato dal
padre e solo tre anni dopo, nel
1822, egli ottenne il permesso
di recarsi a Roma presso lo zio
materno Carlo Antici. La
permanenza a Roma fu oltremodo
deludente perché la città eterna
non lo attirò con le sue
magnificenze architettoniche e
monumentali e la vita
intellettuale gli apparve spenta
d’ogni fervore. Gli furono di
conforto l’amicizia col
cardinale Angelo Mai (per il
quale due anni prima aveva
scritto una canzone) e le
conversazioni tenute con alcuni
dotti stranieri, ma solo sei
mesi dopo decise di ritornare a
Recanati, ove restò fino al
luglio del 1825, quando ebbe
l'invito di recarsi a Milano per
curare l'edizione delle opere di
Cicerone per conto dell’editore
Antonio Fortunato Stella. Ben
presto, a causa del clima non
idoneo alla sua malferma salute,
abbandonò la città lombarda e
visse alcuni anni fra Bologna,
Recanati, Firenze (ove conobbe
il Manzoni, il Niccolini, il
Capponi, il Colletta ed il
Tommaseo) e Pisa. Dal 1830 al
1833 si stabilì a Firenze nella
casa dell’esule napoletano
Antonio Ranieri, che seguì poi a
Napoli.
In Napoli, in casa del Ranieri,
il Leopardi concluse la sua vita
terrena all'età di soli 39 anni.
Morì infatti di asma e idropisia
il 14 giugno 1837. Fu sepolto
nella Chiesa di S. Vitale, ma
dal 1938 le sua ossa riposano in
Piedigrotta, presso la tomba di
Virgilio.
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