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GIACOMO LEOPARDI
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L'INDOLE
Fra le
prime manifestazioni del
carattere del Leopardi, forse la
più radicata nel suo
temperamento, risalta un certo
sentimento di superiorità che
non riuscì mai a controllare,
neppure negli anni della piena
maturità, e che fu causa non
secondaria della sua infelicità,
condizionando assai
negativamente la sua vita di
relazione col prossimo. Fin da
fanciullo, quando organizzava
giochi da svolgere con i
fratelli e per lo più impostati
nella rappresentazione scenica
di avvenimenti storici antichi,
egli non solo riservava sempre a
se stesso la parte dell'eroe, ma
si prodigava ad esasperare la
viltà o la imbecillaggine degli
altri personaggi impersonati dai
fratelli. Egli stesso, da
adulto, ricordando quei giochi,
osservò in una nota dello
Zibaldone: «Piacere, entusiasmo
ed emulazione mi cagionavano
nella prima gioventù i giochi e
gli spassi ch'io pigliava co'
miei fratelli, dov'entrasse uso
e paragone di forze corporali.
Quella specie di piccola gloria
ecclissava per qualche tempo a'
miei occhi quella di cui io
andava continuamente e sì
cupidamente in cerca co' miei
abituali studi ».
Uno smodato desiderio di gloria
fu, dunque, l'altra dominante
caratteristica della personalità
del Leopardi, che non riuscì mai
a sottrarsi a quest'altro motivo
di infelicità pur riconoscendone
la pericolosità, tanto da
definirlo, in una lettera al
Giordani del 21 marzo 1817,
“smodato ed insolente”.
Il sentimento di superiorità e
il desiderio di gloria furono le
molle più evidenti e più
significative e determinanti di
tutta la sua attività
intellettuale, rappresentarono
la forza vitale di tutta la sua
intensa laboriosità, impressero
vigore alle sue meditazioni. Lo
resero però anche insofferente
della quotidiana consuetudine
col genere umano, gli fecero
sentire il paese natio come un
carcere tetro ed insopportabile,
gli mostrarono inadeguata
finanche la vita, pur varia e
dinamica, che si svolgeva a
Roma: lo condannarono, cioè, ad
un sostanziale isolamento, che
fu una condizione spirituale
pressoché costante della sua
esistenza, solo superficialmente
e temporaneamente modificata dai
rapporti col Ranieri e dalle
conversazioni che lo impegnarono
alcun tempo, a Bologna nel 1826,
con una nobile e colta signora
fiorentina, Rosa Carniani
Malvezzi.
Sembra quasi che il Leopardi
abbia speso ogni cura possibile
per inibire a se stesso ogni
gioia, ogni felicità. Infatti le
caratteristiche salienti della
sua personalità furono in gran
parte volute, coltivate,
esasperate dal Poeta stesso
nonostante la consapevolezza che
gli arrecassero fastidio e
dolore. Certo furono anche
aggravate dalle infermità
fisiche, anch’esse per altro
prodotte da una condotta di vita
antigienica spontaneamente
abbracciata (si ricordino i
sette anni di “studio matto e
disperatissimo”), ma mai il
Poeta tentò con un atto di
volontà non dico di reprimerle,
ma almeno di contenerle entro
limiti più sopportabili.
L’incapacità di comunicare col
prossimo più immediato -voglio
dire l’incapacità che ebbe di
avere conversazioni di tono
corrente con gli uomini comuni,
che pure rappresentano una
notevole fonte di scambio di
esperienze e di reciproco
conforto, e non già l'incapacità
a discorrere delle cose degli
uomini con gli uomini nel
profondo della sua solitudine e
dall'alto della sua arte -, se
determinò la sua tendenza ad
isolarsi, gli procurò pure
l'ostilità degli altri che mal
sopportavano il compiaciuto
senso di superiorità che egli
mostrava nei loro confronti.
Sicché appare naturale che la
sua vita si improntasse quanto
meno ad uno stato permanente di
insofferenza in cui fosse
frequente l'insorgere di quella
“ostinata, nera, orrenda,
barbara malinconia” di cui parla
nella lettera al Giordani del 30
aprile 1817.
Questo fu lo stato psicologico
in cui si svolse tutta la
“storia della sua anima”, che
ebbe sostanzialmente un solo
protagonista, il Poeta stesso, e
qualche “comparsa” in quei
pochissimi amici che reputava
degni delle sue confidenze e
confessioni, come quel Giordani
al quale sentiva di poter
partecipare le avventure più
esemplari della mente e del
cuore, o il fratello Carlo col
quale si sfogava per ottenere un
minimo di conforto alle sue
pene. Il grosso dell’umanità
sembra tagliato fuori dalla sua
“storia” e sono in molti a
ritenere che il Leopardi si sia
finalmente affacciato alla
finestra che dà sul mondo ed
abbia finalmente considerato
anche la vicenda degli “altri”
solo in uno dei suoi ultimi
canti, “La ginestra”. Ma il
cuore non ci dice di
sottoscrivere una tale
affermazione. E' vero che il
Leopardi nutrì sempre una certa
avversione a discorrere con gli
uomini comuni; è vero che in più
occasioni espresse giudizi molto
severi sul comportamento loro
(“Dico che il mondo è una lega
di birbanti contro gli uomini da
bene, e di vili contro i
generosi”, ove è chiaro che “il
mondo” sta per la quasi totalità
degli uomini contro i pochi
dabbene e generosi, i quali per
di più sono anche odiatissimi
perché “ordinariamente sono
sinceri, e chiamano le cose coi
nomi loro. Colpa non perdonata
dal genere umano, il quale non
odia mai tanto chi fa male, né
il male stesso, quanto chi lo
nomina.”); è vero che, sempre
considerando gli uomini, definì
Recanati un “borgo selvaggio”,
Napoli un “paese semibarbaro e
semiafricano” e dei Romani disse
che “il più stolido Recanatese
avesse una maggior dose di
buonsenso che il più savio e più
grave Romano”: con tutto ciò
come si può dire che avesse in
odio o, quanto meno, in dispetto
il genere umano un poeta che
soffrì tanto per l’infelicità
degli uomini, un poeta che amò
tanto le cose belle della vita e
che in più luoghi compianse se
stesso e tutto il genere umano
per non avere la disposizione a
godere di quelle cose belle, un
poeta che, come scrisse il De
Sanctis, «non crede al
progresso, e te lo fa
desiderare; non crede alla
libertà, e te la fa amare;
chiama illusioni l'amore, la
gloria, la virtù, e te ne
accende in petto un desiderio
inesausto»? Come si può dire che
non ami l'umanità chi
nell'umanità sa accendere tante
scintille di nobili speranze
nonostante si senta
personalmente del tutto escluso
da siffatte speranze?.
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