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 Autore Luigi De Bellis   
     

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GIACOMO LEOPARDI

L'AMOR LONTANO E IL PLATONISMO TASSIANO


Amor lontano


Il dato di partenza, desunto da un topos della tradizione lirica (l'amor lontano) e dal platonismo tassiano (il mondo reale non è che un'immagine imperfetta del mondo delle idee), è che l'immaginazione migliora la realtà: «quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana... mi pare una dea» (rr. 27-28). II sogno che il genio procurerà al Tasso, gli ricondurrà la donna lontana e gliela ricondurrà abbellita: consolazione e miglioramento del reale si intrecciano. II motivo, sappiamo, ha riflessi anche sulla prima poetica leopardiana, la poetica del vago e dell'indefinito che in questi anni non è ancora superata.

Che cosa è il vero?


Ma questo è per così dire solo l'antefatto del dialogo. Con la domanda del genio («Che cosa è il vero?», r. 50), in seguito alla sconsolata considerazione del Tasso («Gran conforto: un sogno in cambio del vero»), entriamo nel vivo dell'operetta, che è scandita da tre analoghe domande del genio: quella citata, «che cos'è il piacere?» (r. 78) e «che cos'è la noia?» (r. 121). Nella prospettiva esistenziale individuale, il sogno può essere equiparato alla realtà, anzi è meglio della realtà, perché più della realtà (negativa) può arrecare piacere. Così afferma il genio, che loda la saggezza degli antichi nel procurarsi in vario modo i sogni. II Tasso tuttavia - e il Leopardi con lui -, accettato il principio che il Piacere è il fine della vita umana, non sa rassegnarsi ad una vita che si riduca al solo sogno: «Per tanto, poichè gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o dell'animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso ridurre». Sarà consolazione e abbellimento del reale, tuttavia il sogno, l'immaginazione non possono essere posti come fini dell'esistenza umana (nello Zibaldone, oltre tutto il Leopardi rileva anche che gli stessi sogni sono partecipi dell'infelicità del vivere umano). Per rimanere a un testo esemplare del romanticismo da noi antologizzato, si coglie qui come il Leopardi, nel suo coerente razionalismo, percorra una via opposta a quella di un Novalis, che al sonno e al sogno attribuiva una funzione mistica e conoscitiva.

Che cos'è il piacere?


Archiviato così il paradosso della vita che si riduce a sogno, Leopardi si concentra sulla teoria del piacere: il piacere è il fine della vita umana, ma il piacere è negato all'uomo; è una tensione inappagabile, non uno stato costante; è un obiettivo posto sempre al futuro, mai raggiunto al presente (neppure in sogno). Da notare che il Leopardi per la sua teoria del piacere si rifà almeno inizialmente alle dottrine sensistiche settecentesche e che già il Verri, ad esempio, tendeva a concepire il piacere sostanzialmente come una semplice cessazione del dolore, che appariva quind'ì come la vera condizione costitutiva della condizione umana. Leopardi, con sensibilità romantica, accentua questi dati e ne fa il dramma essenziale della condizione umana: l'obiettivo dell'uomo, la ragione del suo esistere, è qualcosa che necessariamente gli è negato per natura. Ne deriva l'assoluta irrimediabile imperfezione della vita umana: «Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente impérfetta: e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento».
Inevitabile, allora domandarsi, come fa il Tasso: «Ma perchè viviamo noi?, voglio dire, perchè consentiamo di vivere?». Il quesito tremendo è lasciato aperto per ora. Altrove (si legga ad esempio il Dialogo di Plotino e di Porfirio) il Leopardi giunge ad affermare la legittimità del suicidio, non più cóncepito come un atto di eroica alfieriana ribellione (così ancori nel Bruto minore), ma come coerente soluzione di una condizione intollerabile e ineliminabile, che, ,se di fatto non viene attuata per un inspiegabile attaccamento alla vita, non può essere pietò condannata come immorale o irrazionale.

Che cos'è la noia?


Non il dolore, né tanto meno il piacere sono la condizione abituale dell'uomo, ma la noia, il vuoto che circonda i sottilissimi fili della ragnatela in cui metaforicamente consistono i diletti umani. La noia è definita «il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere». La maggior parte della vita è trascorsa tra la noia e il dolore. «il sonno, l'oppio, e il dolore» sono i soli rimedi alla noia, dice il genio. È vero, ammette il Tasso, e tuttavia conclude: «In cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita». Non si può che ribadire l'opposta soluzione dei Leopardi rispetto a quella di un Novalis (e poi di altri romantici). Il non risolversi del Tasso ad accettare la medicina del genio si concretizzerà in uno stoico, titanico guardare al fondo della realtà per svelarne tutte le contraddizioni e più tardi (La ginestra) in un messaggio di solidarietà di tutti gli esseri contro la malvagità della natura (che del resto ha profonde radici nel pensiero leopardiano), responsabile della "souffrance" universale. Rifiutata la medicina estrema, non rimangono che soluzioni parziali: la varietà delle azioni, l'intensità del vivere, lo stesso mettere a repentaglio la vita (come vien detto anche in un'altra notevole operetta, il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez) alleggeriscono la noia e fan più cara l'esistenza. Ma, per converso, l'isolamento - rappresentato emblematicamente dalla condizione del Tasso recluso -, la solitudine possono condurre a una sorta di assuefazione, attenuazione della noia e dell'infelicità. Addirittura la solitudine, il guardar la realtà da lungi sono paragonati all'età meno infelice dell'uomo, quell'infanzia in cui l'uomo può guardare con speranza alla vita. Tuttavia su quest'ultima pseudo-soluzione cadono le stesse riserve che cadevano sul sonno, sull'oppio e in genere sulla consolazione dell'immaginazione. «Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla, che questo è l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e l'unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi». Solo la prospettiva della morte, dell'annullamento - qui il tema è appena accennato ma tornerà in vari altri luoghi fra cui il Tristano, - è la reale soluzione dell'infelicità costitutiva della natura umana.

La teoria dei piacere è svolta dal Leopardi dapprima in una lunga riflessione consegnata, tra il 12 e il 23 luglio dei 1820, alle pagine dello Zibaldone (165-183), e poi in una serie di riflessioni successive, che introducono precisazioni e corollari (si veda l'indice analitico dello Zibaldone): della prima enunciazione riportiamo la parte iniziale, invitando alla lettura del seguìto. Già da queste prime considerazioni però emerge con chiarezza la contraddizione insita nella natura stessa dell'uomo, che più tardi porterà alle conseguenze ché si `sono appena illustrate.

(165) Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti: 1. nè per durata; 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli: 1. nè la sua durata, pechè nessun piacere è eterno; 2 nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente, e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto, non finisce se non coll'esistenza, e quindi l'uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch'è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialménte l'infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere, la cui estensione è indeterminata, e l'anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch'ella desidera illimitata.

Le osservazioni leopardiane sulla noia costituiscono dei corollari alla teoria del piacere. Fra i tanti esempi che si potrebbero addurre (cfr. l'indice analitico dello Zibaldone), ce ne paiono particolarmente significativi tre che mostrano come lo stato di noia abbia per il Leopardi delle potenzialità conoscitive rilevanti, in quanto addita all'uomo l'essenza stessa della vita e della propria natura, svela - per così dire- il male di vivere e la malvagità della natura. I pensieri che riproduciamo sono del 13 settembre 1821, dell'8 marzo 1824 e del 4 maggio 1829.
Vero è purtroppo che astrattamente parlando, l'amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia: e sopratutto la noia; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l'hanno. (13 Settembre 1821).
La noia è manifestamente un male, e l'annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male nè dolore particolare (anzi l'idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore) ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all'individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere, o il viver meno, sì per estensione che per intensione, é semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per se ed assolutamente alla vita ec. (8 Marzo 1824).
Quando l'uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l'infelicità nativa dell'uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia. (4 Maggio 1829).

 

© 2009 - Luigi De Bellis