L'AMOR LONTANO E IL PLATONISMO
TASSIANO
Amor lontano
Il dato di partenza, desunto da
un topos della tradizione lirica
(l'amor lontano) e dal
platonismo tassiano (il mondo
reale non è che un'immagine
imperfetta del mondo delle
idee), è che l'immaginazione
migliora la realtà: «quando mi
era presente, ella mi pareva una
donna; lontana... mi pare una
dea» (rr. 27-28). II sogno che
il genio procurerà al Tasso, gli
ricondurrà la donna lontana e
gliela ricondurrà abbellita:
consolazione e miglioramento del
reale si intrecciano. II motivo,
sappiamo, ha riflessi anche
sulla prima poetica leopardiana,
la poetica del vago e
dell'indefinito che in questi
anni non è ancora superata.
Che cosa è il vero?
Ma questo è per così dire solo
l'antefatto del dialogo. Con la
domanda del genio («Che cosa è
il vero?», r. 50), in seguito
alla sconsolata considerazione
del Tasso («Gran conforto: un
sogno in cambio del vero»),
entriamo nel vivo dell'operetta,
che è scandita da tre analoghe
domande del genio: quella
citata, «che cos'è il piacere?»
(r. 78) e «che cos'è la noia?»
(r. 121). Nella prospettiva
esistenziale individuale, il
sogno può essere equiparato alla
realtà, anzi è meglio della
realtà, perché più della realtà
(negativa) può arrecare piacere.
Così afferma il genio, che loda
la saggezza degli antichi nel
procurarsi in vario modo i
sogni. II Tasso tuttavia - e il
Leopardi con lui -, accettato il
principio che il Piacere è il
fine della vita umana, non sa
rassegnarsi ad una vita che si
riduca al solo sogno: «Per
tanto, poichè gli uomini nascono
e vivono al solo piacere, o del
corpo o dell'animo; se da altra
parte il piacere è solamente o
massimamente nei sogni, converrà
ci determiniamo a vivere per
sognare: alla qual cosa, in
verità, io non mi posso
ridurre». Sarà consolazione e
abbellimento del reale, tuttavia
il sogno, l'immaginazione non
possono essere posti come fini
dell'esistenza umana (nello
Zibaldone, oltre tutto il
Leopardi rileva anche che gli
stessi sogni sono partecipi
dell'infelicità del vivere
umano). Per rimanere a un testo
esemplare del romanticismo da
noi antologizzato, si coglie qui
come il Leopardi, nel suo
coerente razionalismo, percorra
una via opposta a quella di un
Novalis, che al sonno e al sogno
attribuiva una funzione mistica
e conoscitiva.
Che cos'è il piacere?
Archiviato così il paradosso
della vita che si riduce a
sogno, Leopardi si concentra
sulla teoria del piacere: il
piacere è il fine della vita
umana, ma il piacere è negato
all'uomo; è una tensione
inappagabile, non uno stato
costante; è un obiettivo posto
sempre al futuro, mai raggiunto
al presente (neppure in sogno).
Da notare che il Leopardi per la
sua teoria del piacere si rifà
almeno inizialmente alle
dottrine sensistiche
settecentesche e che già il
Verri, ad esempio, tendeva a
concepire il piacere
sostanzialmente come una
semplice cessazione del dolore,
che appariva quind'ì come la
vera condizione costitutiva
della condizione umana.
Leopardi, con sensibilità
romantica, accentua questi dati
e ne fa il dramma essenziale
della condizione umana:
l'obiettivo dell'uomo, la
ragione del suo esistere, è
qualcosa che necessariamente gli
è negato per natura. Ne deriva
l'assoluta irrimediabile
imperfezione della vita umana: «Laonde
la nostra vita, mancando sempre
del suo fine, è continuamente
impérfetta: e quindi il vivere è
di sua propria natura uno stato
violento».
Inevitabile, allora domandarsi,
come fa il Tasso: «Ma perchè
viviamo noi?, voglio dire,
perchè consentiamo di vivere?».
Il quesito tremendo è lasciato
aperto per ora. Altrove (si
legga ad esempio il Dialogo di
Plotino e di Porfirio) il
Leopardi giunge ad affermare la
legittimità del suicidio, non
più cóncepito come un atto di
eroica alfieriana ribellione
(così ancori nel Bruto minore),
ma come coerente soluzione di
una condizione intollerabile e
ineliminabile, che, ,se di fatto
non viene attuata per un
inspiegabile attaccamento alla
vita, non può essere pietò
condannata come immorale o
irrazionale.
Che cos'è la noia?
Non il dolore, né tanto meno il
piacere sono la condizione
abituale dell'uomo, ma la noia,
il vuoto che circonda i
sottilissimi fili della
ragnatela in cui metaforicamente
consistono i diletti umani. La
noia è definita «il desiderio
puro della felicità; non
soddisfatto dal piacere, e non
offeso apertamente dal
dispiacere». La maggior parte
della vita è trascorsa tra la
noia e il dolore. «il sonno,
l'oppio, e il dolore» sono i
soli rimedi alla noia, dice il
genio. È vero, ammette il Tasso,
e tuttavia conclude: «In cambio
di cotesta medicina, io mi
contento di annoiarmi tutta la
vita». Non si può che ribadire
l'opposta soluzione dei Leopardi
rispetto a quella di un Novalis
(e poi di altri romantici). Il
non risolversi del Tasso ad
accettare la medicina del genio
si concretizzerà in uno stoico,
titanico guardare al fondo della
realtà per svelarne tutte le
contraddizioni e più tardi (La
ginestra) in un messaggio di
solidarietà di tutti gli esseri
contro la malvagità della natura
(che del resto ha profonde
radici nel pensiero
leopardiano), responsabile della
"souffrance" universale.
Rifiutata la medicina estrema,
non rimangono che soluzioni
parziali: la varietà delle
azioni, l'intensità del vivere,
lo stesso mettere a repentaglio
la vita (come vien detto anche
in un'altra notevole operetta,
il Dialogo di Cristoforo Colombo
e di Pietro Gutierrez)
alleggeriscono la noia e fan più
cara l'esistenza. Ma, per
converso, l'isolamento -
rappresentato emblematicamente
dalla condizione del Tasso
recluso -, la solitudine possono
condurre a una sorta di
assuefazione, attenuazione della
noia e dell'infelicità.
Addirittura la solitudine, il
guardar la realtà da lungi sono
paragonati all'età meno infelice
dell'uomo, quell'infanzia in cui
l'uomo può guardare con speranza
alla vita. Tuttavia su
quest'ultima pseudo-soluzione
cadono le stesse riserve che
cadevano sul sonno, sull'oppio e
in genere sulla consolazione
dell'immaginazione. «Così, tra
sognare e fantasticare, andrai
consumando la vita; non con
altra utilità che di consumarla,
che questo è l'unico frutto che
al mondo se ne può avere, e
l'unico intento che voi vi
dovete proporre ogni mattina in
sullo svegliarvi». Solo la
prospettiva della morte,
dell'annullamento - qui il tema
è appena accennato ma tornerà in
vari altri luoghi fra cui il
Tristano, - è la reale soluzione
dell'infelicità costitutiva
della natura umana.
La teoria dei piacere è svolta
dal Leopardi dapprima in una
lunga riflessione consegnata,
tra il 12 e il 23 luglio dei
1820, alle pagine dello
Zibaldone (165-183), e poi in
una serie di riflessioni
successive, che introducono
precisazioni e corollari (si
veda l'indice analitico dello
Zibaldone): della prima
enunciazione riportiamo la parte
iniziale, invitando alla lettura
del seguìto. Già da queste prime
considerazioni però emerge con
chiarezza la contraddizione
insita nella natura stessa
dell'uomo, che più tardi porterà
alle conseguenze ché si `sono
appena illustrate.
(165) Il sentimento della
nullità di tutte le cose, la
insufficienza di tutti i piaceri
a riempierci l'animo, e la
tendenza nostra verso un
infinito che non comprendiamo,
forse proviene da una cagione
semplicissima, e più materiale
che spirituale. L'anima umana (e
così tutti gli esseri viventi)
desidera sempre essenzialmente,
e mira unicamente, benchè sotto
mille aspetti, al piacere, ossia
alla felicità, che
considerandola bene, è tutt'uno
col piacere. Questo desiderio e
questa tendenza non ha limiti,
perch'è ingenita o congenita
coll'esistenza, e perciò non può
aver fine in questo o quel
piacere che non può essere
infinito, ma solamente termina
colla vita. E non ha limiti: 1.
nè per durata; 2. nè per
estensione. Quindi non ci può
essere nessun piacere che
uguagli: 1. nè la sua durata,
pechè nessun piacere è eterno; 2
nè la sua estensione, perchè
nessun piacere è immenso, ma la
natura delle cose porta che
tutto esista limitatamente, e
tutto abbia confini, e sia
circoscritto. Il detto desiderio
del piacere non ha limiti per
durata, perchè, come ho detto,
non finisce se non coll'esistenza,
e quindi l'uomo non esisterebbe
se non provasse questo
desiderio. Non ha limiti per
estensione perch'è sostanziale
in noi, non come desiderio di
uno o più piaceri, ma come
desiderio del piacere. Ora una
tal natura porta con se
materialménte l'infinità, perchè
ogni piacere è circoscritto, ma
non il piacere, la cui
estensione è indeterminata, e
l'anima amando sostanzialmente
il piacere, abbraccia tutta
l'estensione immaginabile di
questo sentimento, senza poterla
neppur concepire, perchè non si
può formare idea chiara di una
cosa ch'ella desidera
illimitata.
Le osservazioni leopardiane
sulla noia costituiscono dei
corollari alla teoria del
piacere. Fra i tanti esempi che
si potrebbero addurre (cfr.
l'indice analitico dello
Zibaldone), ce ne paiono
particolarmente significativi
tre che mostrano come lo stato
di noia abbia per il Leopardi
delle potenzialità conoscitive
rilevanti, in quanto addita
all'uomo l'essenza stessa della
vita e della propria natura,
svela - per così dire- il male
di vivere e la malvagità della
natura. I pensieri che
riproduciamo sono del 13
settembre 1821, dell'8 marzo
1824 e del 4 maggio 1829.
Vero è purtroppo che
astrattamente parlando, l'amica
della verità, la luce per
discoprirla, la meno soggetta ad
errare è la malinconia: e
sopratutto la noia; ed il vero
filosofo nello stato di allegria
non può far altro che
persuadersi, non che il vero sia
bello o buono, ma che il male
cioè il vero si debba
dimenticare, e consolarsene, o
che sia conveniente di dar
qualche sostanza alle cose, che
veramente non l'hanno. (13
Settembre 1821).
La noia è manifestamente un
male, e l'annoiarsi una
infelicità. Or che cosa è la
noia? Niun male nè dolore
particolare (anzi l'idea e la
natura della noia esclude la
presenza di qualsivoglia
particolar male o dolore) ma la
semplice vita pienamente
sentita, provata, conosciuta,
pienamente presente
all'individuo, ed occupantelo.
Dunque la vita è semplicemente
un male: e il non vivere, o il
viver meno, sì per estensione
che per intensione, é
semplicemente un bene, o un
minor male, ovvero preferibile
per se ed assolutamente alla
vita ec. (8 Marzo 1824).
Quando l'uomo non ha sentimento
di alcun bene o male
particolare, sente in generale
l'infelicità nativa dell'uomo, e
questo è quel sentimento che si
chiama noia. (4 Maggio 1829).