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GIACOMO LEOPARDI
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DIALOGO DI TRISTANO E DI UN
AMICO
La protesta.
La critica ha individuato in
questo dialogo due momenti e due
diverse disposizioni
sentimentali. Da un lato, nella
prima parte del dialogo, sta la
protesta, l'indignazione per la
riduttiva e ingiusta limitazione
della validità filosofica,
morale, conoscitiva del suo
pensiero, e la replica
sarcastica (che ha luogo
soprattutto nella parte del
dialogo da noi omessa) contro i
pretesi «lumi» del secolo
decimonono, contro lo
spiritualismo diffuso, contro
l'ignoranza mascherata da
dottrina, insomma contro la
cultura dell'età sua incapace di
scorgere il vero per stupidità o
per falsa coscienza. Mentre in
un'altra operetta, il Dialogo di
Timandro ed Eleandro, che
chiudeva l'edizione 1827, il
Leopardi poteva ancora proporsi
in termini dialettici
«un'apologia dell'opera contro i
filosofi moderni» (come egli
stesso scrisse al suo editore),
ora nessuna discussione di
merito è più possibile: qui «la
disputa non può che risolversi
in una ironica e sprezzante
sottomissione dell'autore,
ancora consolato soltanto dal
proprio "riso", alla "verità
scoperta dal secolo decimonono",
in una sorta di professione di
fede che mima grottescamente le
formule liturgiche:
AM. E credete voi tutto quello
che crede il secolo?
TRIS. Certamente. Oh che
maraviglia?
AM. Credete dunque alla
perfettibilità indefinita
dell'uomo?
TRIS. Senza dubbio.
AM. Credete che in fatti la
specie umana vada ogni giorno
migliorando?
TRIS. Sì certo».
Il distacco dal mondo.
Dall'altro, sta il superiore
distacco che il Leopardi attinge
nella parte conclusiva del
dialogo: di fronte alla nullità
presuntuosa del proprio tempo, «
da sulfureo qual è, il discorso
di Tristano si sublima in
invocazione a una morte
liberatrice dall'orrore della
vita e di una qualsiasi
sopravvivenza» (Damiani). Nel
finale, «degli uomini e delle
loro codarde illusioni, Tristano
si dimentica per guardare nel
proprio intimo, per dar voce a
quello che è ormai il suo stato
d'animo costante e duraturo, e
può trovare, per esprimerlo, una
dolcezza di accenti nuova e
inattesa. [...] Con l'ultimo
discorso di Tristano ci sentiamo
sollevati dal caduco all'eterno,
dagli effimeri contrasti tra
uomo e uomo alla contemplazione
di un'anima sola di fronte a sé
stessa e al proprio destino.
Quella polemica estrema era
parsa necessaria al Leopardi: ma
in quella polemica non c'era
tutto il suo animo, né in quella
polemica si era rivelata tutta
la forza e la potenza, che egli
sentiva, dopo la sua ultima
grande esperienza, di possedere.
Perciò quando quella polemica
cessa ci sembra di assistere al
rivelarsi del suo animo
profondo, di sentire, più che
nelle ritorsioni violente o
nelle parole di scherno, gli
effetti di quella forza
interiore, per la quale il
Leopardi è fatto capace di
misurare, senza perplessità e
senza pianto, la propria
infelicità, così come non aveva
fatto per ('innanzi né in versi
né in prosa. E non solo nella
sua pagina sentiamola voce di
un'anima "per disperazion fatta
sicura", ma l'ardore di un nuovo
desiderio, quasi di un nuovo
amore, sorto con l'estinzione di
ogni desiderio, di ogni amore:
di qui, pur nella lucidità di
una visione disperata, il calore
di una passione, che pervade e
anima questa pagina e quella
nota di dolcezza, che non può
mancare quando si parla di cosa
molto desiderata ed amata» (Fubini).
Sul problema del rapporto tra
esperienza biografica e
concezione del mondo nel
Leopardi proponiamo una pagina
sintetica di Cesare Galimberti.
Che fossero le sofferenze
fisiche a determinare il suo
pessimismo, si cominciò presto a
insinuare (fra i primi
sostenitori della tesi fu
Tommaseo), e a procedimenti
riduttivi di tal genere Leopardi
stesso oppose subito la sua
protesta: «ce n'a été que par
effet de la làcheté des hommes,
qui ont besoin d'étre persuadés
du mérite de 1'existence, qui
1'on a voulu considérer mes
opinions philosophiques, comme
le résultat de mes souffrances
particulières, et que l'ori s'obstine
à attribuer à mes circonstances
matérielles ce qu'on ne doit qu'à
mori entendement. Avant de
mourir je vais protester contre
cette invention de la faiblesse
et de la vulgarité, et prier mes
lecteurs de s'attacher à
détruire mes observations et mes
raisonnements plutót que d'accuser
mes maladies» [questo non
dipende che dalla vigliaccheria
degli uomini, che hanno bisogno
di essere convinti del pregio
dell'esistenza, che hanno voluto
vedere le mie opinioni
filosofiche come il risultato
delle mie sofferenze particolari
e che si ostinano ad attribuire
a circostanze materiali ciò che
non deriva che dal mio
intelletto. Prima di morire
voglio protestare contro questa
invenzione della debolezza e
della volgarità e pregare i
lettori di voler distruggere le
mie osservazioni e i miei
ragionamenti piuttosto che
accusare le mie malattie]
(lettera a L. De Sinner del 24
maggio 1832).
L'interpretazione, che in
qualche punto intaccò il
giudizio dello stesso De Sanctis,
godette della massima fortuna
nel clima lombrosiano di fine
Ottocento grazie ai seguaci del
metodo psicoantropologico M.L.
Patrizi e Giuseppe Sergi, che
spiegarono con i caratteri
degenerativi della personalità
leopardiana non solo il suo
pessimismo ma il suo specifico
genio. Fu poi singolare (ma in
accordo con la sua visione
positiva dell'uomo e della
storia) che anche Croce,
idealista, definisse «una vita
strozzata» quella di Leopardi,
considerasse la sua fondamentale
condizione di spirito «un
ingorgo sentimentale» privo di
qualsiasi validità speculativa e
affermasse senza ambagi che il
«riso cattivo» delle più
numerose fra le Operette morali,
di alcune poesie satiriche e dei
Paralipomeni « è veramente da
mettere sul conto della natura a
lui matrigna e crudelissima, sul
L. malato». E la critica
italiana fra le due guerre, più
coerente, in questo caso, con le
premesse teoriche poste da Croce
stesso o animata, nella stagione
della lirica «pura», da un'idea
della poesia come diretta
esperienza dell'Assoluto, fece
poi astrazione da quel dato,
giudicandolo invece non
rilevante per l'interpretazione
dell'opera.
La questione del rapporto fra
vita (e, in particolare,
esperienze patologiche),
pensiero e poesia si offre, in
realtà, a tante soluzioni quanti
sono i punti di vista da cui ci
si ponga per considerare i
massimi problemi della persona
umana: della sua libertà, dei
rapporti tra condizione del
corpo e attività spirituale, tra
ambiente fisico, familiare,
sociale e possibilità
d'iniziative individuali, fra
fattori ereditari e singolarità
di carattere, come anche,
d'altra parte, tra situazione
storica e responsabile
atteggiamento personale. Se è
grossolano stabilire relazioni
meccaniche tra condizioni
ambientali e fisiologiche e
risultati spirituali (ma è
procedimento sostenuto, come
Leopardi vide subito, dalla
tendenza più o meno inconscia a
esorcizzare un pensiero
sgradito), non per questo è
necessario astrarre dalla
considerazione dei dati
biografici, qualora non si
decida di sottrarre idee, stati
d'animo, poesia a ogni rapporto
con le condizioni esterne. Il
vantaggio di tener conto di
quelle notizie potrà consistere,
s'intende, nella possibilità di
scoprire chiarimenti e conferme
delle ragioni interne a certi
modi del pensiero e dell'arte,
non certo nella pretesa di
ricavarne un criterio di
giudizio sul valore degli esiti:
che poterono ora esser costretti
ora invece esser favoriti ed
esaltati dai medesimi fattori.
Perché - ha affermato con
chiarezza Sebastiano Timpanaro
(1964) - «da malattia dette al
Leopardi una coscienza
particolarmente precoce ed acuta
del pesante condizionamento che
la natura esercita sull'uomo,
dell'infelicità dell'uomo come
essere fisico... Il torto dei
cattolici alla Tommaseo, dei
positivisti alla Sergi, degli
idealisti alla Croce non sta
nell'aver affermato l'esistenza
di un rapporto tra "vita
strozzata" e pessimismo, ma nel
non aver riconosciuto che
l'esperienza della deformità e
della malattia non rimase
affatto nel Leopardi un motivo
di lamento individuale, un fatto
privato e meramente biografico,
e nemmeno un puro tema di poesia
intimistica, ma divenne un
formidabile strumento
conoscitivo».
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