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 Autore Luigi De Bellis   
     

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GIACOMO LEOPARDI

CORO DI MORTI NELLO STUDIO DI FEDERICO RUYSCH


La situazione del dialogo è naturalmente paradossale: il Leopardi non crede né che i morti possano risvegliarsi né che esista alcuna forma di sopravvivenza post mortem. La fantasia austera e severa nella lirica, grottesca nella prosa - è funzionale innanzi tutto a creare l'effetto di straniamento che si ha nella considerazione della vita dall'improbabile punto di vista di un morto. La vita agli occhi del morto appare un «punto acerbo», un «antico dolor», un'interruzione momentanea e dolorosa di uno stato eterno di non esistenza, di nullità e di quiete. Tra il punto di vista dei vivi e dei morti esiste però una simmetria: ai morti la vita appare tale quale la morte ai vivi, una «cosa arcana e stupenda» (nel senso che desta stupore); senonché mentre ai vivi il pensiero della morte può incutere timore e accrescere il dolore, per i morti « da tema è lunge / il rimembrar», conformemente alla loro condizione «lieta no, ma sicura», che «l'età vote e lente senza tedio consuma».
Come ha notato il Damiani, «non vi è alcun sapere che discenda in positivo dalla morte ("confusa" è doppiamente detta dal Coro la "mente" e la "ricordanza")», i morti cioè non sono portatori di una sapienza che possa illuminare l'uomo sul senso della propria esistenza (anche per i morti vita e morte sono un fatto inspiegabile); anche nella prosa, da noi omessa, il morto che parla con Ruysch, affrontando il problema in effetti marginale se morendo si soffra o meno, dà una risposta congetturale, non ricordando il proprio trapasso. La stessa marginalità della questione sottolinea l'assenza di una sapienza che possa discendere all'uomo dal nulla che c'è dopo la morte, se non la constatazione a cui l'uomo stesso può giungere «ch'esser beato / nega ai mortali e nega a' morti il fato».
Da un punto di vista formale è da notare la pacatezza assoluta del discorso (conforme allo stato di assenza di passioni dei morti), ottenuta mediante un susseguirsi di periodi brevi, spezzati da pause sintattiche minori (punti e virgola, due punti, incisi) e mediante l'assenza di significative variazioni tonali (neppure le interrogative ne introducono di rilevanti). Anche antitesi, similitudini, coppie di termini coordinati separati da virgola - del tipo «lieta no, ma sicura», «Come da morte/ vivendo rifuggia, così rifugge», «e qual di paurosa larva, / e di sudato sogno» - assolvono la funzione di un rallentamento del ritmo, che assume l'andamento cantilenante di un discorso che proviene da remote lontananze. Notevole è infine, a conferma di un andamento non scosso da passione alcuna, la presenza di ricercate simmetrie: la ripetizione di alcuni versi-chiave a inizio e fine del componimento, che incornicia il nucleo del discorso, dando la sensazione di una circolarità definitiva e conclusa («Nostra ignuda natura; / Lieta no ma sicura» ai vv. 4-5 e 29-30); parallelismi («paurosa larva ... sudato sogno», «nega ai mortali e nega a' morti») e chiasmi («Come da morte/ vivendo rifuggia, così rifugge / dalla fiamma vitale»).

Breve nota di Mario Fubini ed Emilio Bigi:

Con il Coro di morti il Leopardi approda a una] poesia impersonale, un canto di infiniti esseri, non di quelli soli dello studio di Ruysch ma di tutti i morti per tutta la terra, come sarà detto nel corso del Dialogo. Alla concenzione non saranno stati estranei i pensieri del L. intorno alla poesia intrinseca ai cori delle tragedie antiche per il «vago» e l'«indefinito» naturalmente congiunto a ogni idea di moltitudine e alle voci che ne interpretano il comune sentimento: tanto più vago e più indefinito questo coro quanto più indeterminata, senza volto né nome, l'innumere folla che lo innalza in ogni parte della terra in un'ora determinata nel volgere dei secoli, espressione di un sentimento che insieme congiunge al di là di ogni singola particolarità, di ogni affetto individuale non solo i morti ma tutti i mortali. L'idea del «coro» è quindi essenziale a questa poesia, in cui l'indefinito, l'informe, l'inimmaginabile acquista, senza venir meno alla propria natura, determinatezza e forma poetica; e necessaria ci appare la struttura metrica, che è quella di un «coro» in forma di stanza libera, esemplata cioè sul modello dei cori dell'Aminta e del Pastor fido, lodati dal Leopardi in una delle pagine dello Zibaldone sui cori nelle opere drammatiche. Ma sarà da notare in questa stanza il gioco delle ripetizioni di parole e di frasi uguali o simili e delle rime relativamente frequenti ma ottenute con poche terminazioni, attraverso cui si viene creando, sotto l'apparente varietà del metro, l'impressione di un ritmo uguale e insistente.

 

© 2009 - Luigi De Bellis