L'INFINITO
Questa lirica, della
primavera-autunno del 1819,
appartiene alla serie che
nell'edizione 1826 porta il
titolo di idilli e che comprende
altri cinque testi, tra cui La
sera del dì di festa e Alla
luna. «Idilli» sono per il
Leopardi componimenti ché
esprimono - com'egli scrive -
«situazioni; affezioni,
avventure storiche del mio
animo», componimenti cioè «di
carattere più intimo, quasi
pagine di diario, parentesi di
confessione personale» (Fubini-Bigi),
che in questi anni si oppongono
alle canzoni, di tono e
contenuto più eloquente. Se la
denominazione rimanda agli
idilli greci (e in particolare
agli Idilli di Mosco, che egli
tradusse), tuttavia la natura di
questi componimenti richiama
modelli poetici e sentimentali
più recenti, dal Werther
all'Ortis, ai Pensieri d'amore e
agli Sciolti a Sigismondo Chigi
del Monti.
Negli Idilli, poi, è posta
sempre in primo piano «la figura
del poeta solitario, intento ad
ascoltare i moti del proprio
cuore», mentre «del mondo
esterno non compaiono che alcuni
aspetti della natura, testimone
e confidente delle sue
meditazioni» (Fubini-Bigi).
Nota metrica: endecasillabi
sciolti.
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Sempre caro mi fu
quest'ermo colle, |
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1. quest'ermo colle: secondo la
tradizione, il colle solitario
(ermo) sarebbe il monte Tabor,
un'altura nei pressi di casa
Leopardi; ma la determinazione
concreta del luogo è
assolutamente irrilevante.
Quanto ad ermo, va rilevato che
«è la prima di tutta una serie
di parole indefinite che
costituiscono uno degli aspetti
più caratteristici del
linguaggio del canto» (Fubini-Bigi).
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E questa siepe, che da
tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il
guardo esclude. |
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che sottrae allo sguardo (il
guardo esclude) così gran parte
dell'estremo (ultimo, latinismo)
orizzonte.
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Ma sedendo e mirando,
interminati
Spazi di là da quella, e
sovrumani |
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fermandosi a guardare (dando
così al verbo sedere il
significato generico di
"stare"); secondo Citati,
invece, Leopardi «stava seduto
per terra, ... a ridosso della
siepe», poiché il limite era
voluto: «mentre pensava
(infinito aveva bisogno di avere
attorno a sé un limite, una
siepe, un muro».
interminati: senza fine, senza
termine; «le parole che indicano
moltitudine, copia, grandezza,
lunghezza, larghezza, altezza,
vastità, ec. ec. sia in
estensione, o in forza,
intensità cc. cc. sono pure
poeticissime, e così pure le
immagini corrispondenti».
quella: la siepe.
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Silenzi, e profondissima
quiete
Io nel pensier mi fingo;
ove per poco
Il cor non si spaura. E
come il vento |
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mi fingo: mi costruisco, mi
immagino; «l'anima s'immagina
quello che non vede, che quell'albero,
quella siepe, quella torre ci
nasconde, e va errando in uno
spazio immaginario, e si figura
cose che non potrebbe, se la sua
vista si estendesse da per
tutto, perchè il reale
escluderebbe l'immaginario».
ove: «usato nel delicato duplice
senso di collocazione spaziale e
di consecuzione temporale
(`dove' e `per cui')» (Solmi).
come: quando.
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Odo stormir tra queste
piante, io quello
Infinito silenzio a
questa voce |
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tra queste... voce: il gioco dei
rimandi tra
realtà/immaginazione/realtà è
sostenuto dal deittico
dimostrativo
queste/quello/questa; questa
voce: quella del vento che
stormisce fra le piante.
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Vo comparando: e mi
sovvien l'eterno, |
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Vo comparando: vado paragonando,
confronto.
l'eterno: «dopo l'infinito dello
spazio, l'infinito del tempo» (Fubini-Bigi).
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E le morte stagioni, e
la presente
E viva, e il suon di
lei. Così tra questa |
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le morte stagioni: tutte le età
passate, tutta la storia; cfr.
La sera del dì dí festa, w.
33-39: «infinità del passato che
mi veniva in mente, ripensando
ai Romani così caduti dopo tanto
tumore e ai tanti avvenimenti
ora passati ch'io paragonava
dolorosamente con quella
profonda quiete e silenzio della
notte, a farmi avvedere del
quale giovava il risalto di
quella voce o canto villanesco».
e la presente... di lei: e il
tempo presente che ancora vive,
attraverso il rumore del vento.
immensità: «l'immensità dello
spazio che egli si era finta nel
pensiero e quella del tempo che
ora gli è tornata in mente alla
voce del vento» (Flora).
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Immensità s'annega il
pensier mio:
E il naufragar m'è dolce
in questo mare. |
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m'è dolce: mi risulta piacevole:
«qualifica la sensazione
dell'immergersi in questo mare
immaginato, dell'abbandonarsi a
un indeterminato fluttuare di
sensazioni e di idee» (Puppo).
La situazione. Il poeta è seduto
dinanzi a una siepe che gli
impedisce di vedere il profilo
dell'orizzonte e gli oggetti
reali che entro quello si
collocano; egli coscientemente
si finge, immagina al di là
della siepe «interminati /
spazi», «sovrumani / silenzi» e
«profondissima quiete», finché,
richiamato al presente da una
sensazione uditiva, lo stormire
delle fronde, estende il suo
fantasticare dalla dimensione
spaziale a quella temporale,
evocando le «morte stagioni» e
«l'eterno», in un contrasto
analogo a quello spaziale
precedente (limite della siepe /
infinità; presente / eterno), e
conclude sottolineando la
dolcezza di questa immaginazione
(«naufragar m'è dolce»).
Un'esperienza
dell'immaginazione. È
fondamentale rilevare come la
situazione del "naufragare"
nell'infinito e nell'eterno sia,
non già, come in altri poeti
romantici, una pura e semplice
fuga nell'irrazionale e nel
sogno, bensì un processo
immaginativo e consolatorio
sottoposto a un preciso
controllo razionale o, per usare
ad altro fine una formula nota,
un sogno fatto in presenza della
ragione: il soggetto che vive
l'esperienza costruisce
consapevolmente la situazione di
contrasto tra limitato e
illimitato (ricerca nella siepe
il limite spaziale che consenta
l'attività immaginativa) e poi
paragona il presente al passato
é all'eterno. Il poeta descrive
una situazione che si deve
immaginare iterativa: «tutti i
verbi al presente della lirica
che si riferiscono a un'attività
o a un'emozione del soggetto
saranno da intendersi come
presenti iterativi: "sono solito
fingermi nel pensiero", "sono
solito andare comparando", ecc.»
(Blasucci). Egli nell'atto dello
scrivere è consapevole della
vanità del suo tendere, nel'
momento della contemplazione,
all'infinito, sa in altri
termini che quella che compie è
un'esperienza dell'immaginazione
e nulla più, per quanto sia
dolce e consolatoria. Decisivo
appare in questo senso il valore
di «mi fingo», che indica
chiaramente la coscienza della
finzione. Si confronti anche
quanto scrive M.A. Rigoni: «Non
si tratta [...] dell'abbandono a
un infinito teologico, né
propriamente di un'esperienza
del "sacro", come molti hanno
sostenuto o suggerito: numerose
note dello Zibaldone, lungo un
arco di tempo che va almeno dal
'20 fino al '27, attestano
infatti la polemica contro ogni
interpretazione metafisica del
fenomeno».
Da un punto di vista formale si
ha conferma di questa volontà di
controllo razionale del processo
immaginativo nell'elaboratissima
e controllatissima struttura del
componimento, fondato su
calibrate simmetrie (Blasucci
negli Approfondimenti che
seguono). Del resto, quel
«lavoro dell'immaginazione» che
nell'Infinito è rappresentato
«con immediatezza e con accenti
di singolare novità, come di chi
scopre un'inesplorata regione
dell'animo», che si sublima anzi
sino ad apparire « un moto
dell'anima allo stato puro,
l'attrazione e lo smarrimento
dinanzi all'infinito» (Fubini-Bigi),
viene «razionalmente spiegato»
in una pagina dello Zibaldone
relativa alla definizione della
teoria del piacere e così
ricondotto ad un preciso intento
non già irrazionalistico o
mistico, bensì poetico e
immaginativo: «Alle volte
l'anima desidererà ed
effettivamente desidera una
veduta ristretta e confinata in
certi modi, come nelle
situazioni romantiche. La
cagione è la stessa, cioè il
desiderio dell'infinito [che
poco prima il Leopardi aveva
detto costituzionalmente negato
all'individuo e causa della sua
più radicale e intima
sofferenza], perché allora in
luogo della vista lavora
l'immaginazione, e il fantastico
sottentra al reale. L'anima
s'immagina quello che non vede,
che quell'albero, quella siepe,
quella torre gli nasconde, e va
errando in uno spazio
immaginario, e si figura cose
che non potrebbe, se la sua
vista si estendesse da per
tutto, perché il reale
escluderebbe l'immaginario».
L'esperienza dell'infinito è
insomma tutta mentale, è
un'esperienza priva dello
statuto di realtà.
I procedimenti formali omologhi.
Il rapporto finito/infinito,
nella duplice dimensione
spaziale e temporale, trova poi
riscontro in altri procedimenti
formali, messi in rilievo dalla
critica. Innanzi tutto la
tensione cui l'uso sistematico
dell'enjambement sottopone la
struttura metrica
dell'endecasillabo: a parte due
casi (il v. 1 e il v. 15), la
struttura sintattica infrange
sistematicamente la misura
metrica, impedendo una lettura
che rispetti il ritmo
dell'endecasillabo e creando
viceversa misure ritmiche e
melodiche libere e variate, che
seguono i moti dell'animo e
creano una musicalità nuova e
libera. Questo procedimento a
ben vedere costituisce un
equivalente formale del rapporto
finito/infinito: finita è la
struttura metrica
dell'endecasillabo, che però
viene costantemente violata
quasi a ricreare, a livello
ritmico e melodico, il moto
immaginativo e sentimentale che
oltrepassa il limite spaziale e
temporale e si proietta verso
l'infinito.
Altri procedimenti formali si
inseriscono in questo quadro: la
scelta lessicale che comprende
termini indefiniti e vaghi
(secondo la nota poetica
leopardiana) come «caro»,
«ermo», «ultimo»,
«profondissima», «eterno»,
«annegare», «naufragare»,
«dolce», ma soprattutto termini
come «interminati», «sovrumani»,
«infinito», «immensità»,
composti cioè in cui il prefisso
(in, sovra) modifica e nega il
nucleo semantico del vocabolo
cui si applica (termine, umano,
finito, misurabile). Analoghe
considerazioni potrebbero farsi
per altri aspetti della metrica,
della lingua e dello stile. Ci
limitiamo ad un ultimo esempio:
la contrapposizione ripetuta tra
i deittici «questo» e «quello»,
che indicano rispettivamente
vicinanza e lontananza anche in
questo caso sia a livello
spaziale che temporale.
Il disegno costruttivo
dell'Infinito
Di Luigi Blasucci proponiamo ora
uno dei suoi Paragrafi sull'
"Infinito", dedicato a
descrivere le «puntuali
corrispondenze» che fanno
dell'Infinito «un organismo
armonico e perfettamente
conchiuso» (ma corre obbligo
avvertire che il critico nella
parte precedente del saggio
mostra elementi formali e
semantici di diverso segno, cioè
aperti e dinamici).
Questo continuum
ritmico-sintattico non esclude
tuttavia la presenza di un
evidente disegno costruttivo,
fondato su una serie di puntuali
corrispondenze fra le varie
parti della lirica. Da questo
punto di vista essa si offre
come un organismo armonico e
perfettamente conchiuso. Già un
acuto lettore come il Fubini
aveva parlato della «conchiusa
compiutezza» di questo testo,
del suo movimento racchiuso e
come incorniciato tra i versi
iniziali e finali, accomunati da
una «cadenza uniforme». Mala
sapienza costruttiva del
componimento non si limita a una
corrispondenza tra le sue parti
estreme: essa investe, come si è
detto, l'intero organismo. Dal
punto di vista sintattico la
lirica risulta composta di
quattro periodi (delimitati dai
quattro punti fermi), di
lunghezza metrica varia, ma
sostanzialmente riconducibili a
misure che si corrispondono in
modo speculare: il primo periodo
(«Sempre caro... il guardo
esclude») e il quarto («Così tra
questa... in questo mare») hanno
una durata più breve,
rispettivamente di tre e di due
versi e mezzo, nei confronti del
secondo («Ma sedendo e
mirando... non si spaura») e del
terzo («E come il vento... e il
suon di lei»), rispettivamente
di quattro versi e mezzo e di
cinque (computando in
quest'ultimo caso come un verso
intero la somma dei due
emistichi isolati dei vv. 8 e
13). La simmetria è perfetta se
si considerano le somme dei
versi che formano
rispettivamente i primi due e
gli ultimi due periodi: la
lirica ne riesce infatti divisa
in due parti uguali di sette
versi e mezzo ciascuna. Di
conseguenza' l'ottavo verso
risulta centrale non solo dal
punto di vista metrico, ma anche
rispetto alla partizione
sintattica, formato com'è da due
emistichi contenenti ciascuno un
segmento dei due periodi
mediani: « il cor non si spaura.
E come il vento».
Queste corrispondenze
quantitative ne richiamano altre
su diversi piani. Il primo e
l'ultimo periodo si distinguono
per un loro andamento piano,
paratattico, a carattere
essenzialmente enunciativo; i
due periodi mediani sono invece
connotati da una sintassi più
mossa ed ariosa, con un
incremento di costrutti
ipotattici. Quanto al rapporto
metro-sintassi, i due periodi
estremi contribuiscono solo in
minima parte alla ricchezza di
inarcature che caratterizza il
componimento, esattamente con un
enjambement per ciascuno; per
converso, ognuno di essi
contiene un verso
sintatticamente isolabile,
rispettivamente il primo e
l'ultimo, che sono anche gli
unici versi isolabili della
lirica. Se si considera che essi
costituiscono anche l'incipit e
l'explicit dell'intero
componimento, il fenomeno
apparirà allora come uno dei
fattori più rilevanti della sua
strutturazione.
A questa quadripartizione
sintattico-metrica non sarà
difficile associare una
ripartizione dei segmenti
tematici, con una possibilità di
individuazione di elementi
specularmente corrispondenti
anche a questo livello. Così il
primo e l'ultimo periodo,
sintatticamente piani, enunciano
la situazione di partenza e
quella di arrivo, caratterizzate
entrambe da una dichiarazione di
gradimento («Sempre caro» = «
m'è dolce»), presente
rispettivamente nel primo e
nell'ultimo verso. Essi inoltre
contengono una serie di
riferimenti a entità
paesistiche, non importa per ora
se fisiche o metaforiche,
sottolineate dall'uso di
aggettivi dimostrativi di
vicinanza («quest'ermo colle»,
«questa siepe» = « questa
immensità», «questo mare»). I
due periodi mediani,
sintatticamente mossi, svolgono
invece il motivo dell'infinito
come processo mentale sui due
versanti della spazialità e
della temporalità. La narrazione
di questi due processi culmina
in due serie polisindetiche di
tre termini ciascuna («interminati
spazi..., e sovrumani silenzi, e
profondissima quiete» =
«l'eterno, e le morte stagioni,
e la presente e viva») disposte
reciprocamente in figura
speculare non solo quanto alla
collocazione sintattica (nel
primo caso la serie infinitiva
precede, nel secondo segue, il
predicato verbale), ma anche
quanto alla gradualità semantica
dei singoli termini (alla
progressione ascendente della
prima serie risponde la
progressione discendente della
seconda).
Ma queste simmetrie sono
operanti all'interno di un
discorso che si configura come
un processo narrativo. Di qui il
diverso valore di quei ritorni
rispetto ai medesimi elementi
nella loro prima apparizione. In
questo senso lo stesso principio
di specularità opera a suo modo
come un fattore di progressione.
Così nella serie graduale (in
senso diminutivo) che
caratterizza il processo
dell'infinito temporale è
ravvisabile un movimento di
riemersione all'ora (la stagione
presente) che si pone come
antitesi e insieme come
compimento narrativo rispetto al
processo di immersione, di
discesa nel profondo,
rappresentato nel periodo
precedente dalla serie graduale
(in senso accrescitivo) dei
predicati dell'infinito
spaziale. Ancora più evidente è
la progressione nella
specularità dei due periodi
estremi. Abbiamo già accennato
al diverso valore,
rispettivamente fisico e
metaforico, delle immagini
paesistiche che caratterizzano i
due periodi: a un colle e ad una
siepe come elementi di un
paesaggio reale si
contrappongono una immensità ed
un mare come elementi di un
paesaggio mentale. Ma anche
prescindendo dal diverso statuto
di quelle immagini, la loro
stessa valenza semantica si pone
su una linea chiaramente
oppositiva: colle versus mare,
siepe versus immensità.
Conseguentemente gli stessi
dimostrativi che li determinano
(«questo... questa» = «questa...
questo») finiscono col
sottolineare nella loro identità
la diversità degli oggetti,
costituendo così i più efficaci
indici di misurazione del
percorso tematico della lirica:
dal definito all'immensurabile,
dal reale all'immaginario, dal
sedere e mirare al naufragare.