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GIACOMO LEOPARDI
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OPERETTE MORALI
«Questo è
il sentimento che riempie di sé
tutta l'opera leopardiana: la
desolata nostalgia d'una
felicità sconosciuta ed assurda,
la disperata aspirazione verso
un mondo migliore. Nelle più
riuscite fra le "Operette", come
nei "Canti", la poesia non nasce
dalla brutta realtà ma dal vano
bisogno di superarla... Così
nelle "Operette" come nei
"Canti" questa realtà grigia si
disegna sul fondo luminoso di un
ideale: e l'impressione
dominante è quella di una
delusione non rassegnata».
Queste parole di Attilio
Momigliano bastano da sole a
definire il mondo poetico del
Leopardi; e di una definizione
sintetica il giovane lettore
aveva certamente bisogno dopo la
lunga attenzione dedicata ai
“Canti”.
Ma queste parole valgono anche
come magistrale premessa allo
studio delle “Operette Morali”
perché ci danno subito una
indicazione preziosa: che le
“Operette” sono certamente opere
di poesia a dispetto dello
stesso Autore che voleva forse
farne opera di filosofia e che
anche per questo aveva adottato
la prosa. Anche per questo, ma
la ragione più profonda, quella
che si impone da sé all’artista,
certamente derivò dalla
condizione particolare in cui
venne a trovarsi l’animo del
Poeta, costretto nuovamente,
dopo la squallida parentesi
romana, a rinchiudersi in
Recanati senza alcuna
prospettiva per un futuro
migliore (resterà nel “borgo
selvaggio” dal 1822 al 1825,
fino a quando, cioè, ebbe
l’invito di recarsi a Milano
dall’editore Stella; la maggior
parte delle “Operette” risalgono
al 1824).
Nelle “Operette Morali” il
Leopardi ci vuol dare “la
descrizione concreta della vita
e la dimostrazione che essa è
ignobile e misera” (Momigliano)
e a questo scopo non serve il
ritmo del verso, l’immagine
icastica che sorge per incanto
da un sostantivo, da un
aggettivo, e che invita la
fantasia a prodursi in un volo
acrobatico nella stratosfera del
sentimento: serve invece il tono
dimesso, che più agevolmente
scivola nei meandri della
coscienza, il sottile linguaggio
del persuasore che deve
inculcare una amara verità.
Eppure anche nella prosa delle
“Operette” il Leopardi è
soltanto poeta: «Sembra prosa
riflessiva - osserva il
Momigliano -, ragionativa, ma in
fondo non è. Si paragoni, per
esempio, con quella del
“Principe”; e si vedrà che qui
si può sempre isolare il periodo
o il breve tratto che, anche in
sé, ha il suo significato e il
suo rilievo, perché la sua forza
deriva dal pensiero, da una
riflessione morale o
psicologica: nelle “Operette”
questo non succede, perché il
motivo è diffuso, è uno stato
d’animo assai più che una
osservazione o una
constatazione: e anche le
“Operette”, come i “Canti”,
sono, nella loro viva essenza,
un’autobiografia sentimentale».
Insomma il Leopardi prosatore
non cessa di essere poeta; e se
si risolve a scrivere in prosa è
perché egli in questi anni,
“ripiegandosi su se medesimo -
come nota il Fubini - trova
purificati e chiariti i motivi
originari del suo pessimismo,
formulati in alcuni concetti tra
logici e fantastici a cui egli
si può rivolgere con un moto di
affetto, di amore e di odio”:
non per nulla le pagine più vive
e palpitanti sono quelle in cui
riaffiorano le rimembranze degli
ameni inganni, si riaccendono
lumi di speranza nonostante la
piena consapevolezza che la vita
è male.
Le “Operette Morali” composte
dal Leopardi furono 26. Due,
però, il Poeta stesso le ripudiò
successivamente, sicché
l’edizione definitiva curata da
lui stesso tra il 1834 ed il
1835 ne comprende 24. Di queste,
19 furono scritte nel 1824, una
nel 1825, due nel 1827 e due nel
1832. Le “Operette” non vanno
intese singolarmente, come opere
a se stanti, ma nel loro
insieme, perché tutte
rappresentano un'opera d’arte
sostanzialmente unitaria per
tono ed ispirazione. Questo
anche se alcune sono in forma di
dialogo (ad imitazione dei
dialoghi ironici dello scrittore
greco Luciano di Samosata,
121-180 d.C.) ed altre in prosa
continuata.
Vari documenti danno la certezza
che il Leopardi meditasse da
tempo sul progetto di queste
“Operette”: nel 1818 scrisse che
aveva in animo di dare
all'Italia un nuovo tipo di
prosa in cui “la lingua e lo
stile essendo classico e antico
paresse moderno e fosse facile
ed intendere e dilettevole così
al volgo come ai letterati”; nel
1819 affermò di volere scrivere
alcuni “dialoghi satirici alla
maniera di Luciano... tra
personaggi che si fingono vivi,
ed anche volendo, fra animali”;
nel 1821 annunciava: «Io
cercherò di portare la commedia
a quello che finora è stato
proprio della tragedia, cioè i
vizi dei grandi, i princìpi
fondamentali della calamità e
miseria umana, gli assurdi della
politica, le sconvenienze
appartenenti alla morale
universale e alla filosofia,
l’andamento e lo spirito
generale del secolo, la somma
delle cose, della società, delle
civiltà presente» (da qui forse
derivò l’idea di definire
“morali” le sue future
operette); e sempre nel 1821,
quasi a voler giustificare per
tempo quella che sarebbe stata
una tendenza abbastanza diffusa
nella sua opera di prosatore, e
cioè la rievocazione di “favole
antiche”, scrisse: «Io non
voglio credere alle allegorie né
cercarle nella mitologia o
invenzioni dei poeti o credenze
del volgo. Tuttavia la favola di
Psiche, cioè dell’anima, che era
felicissima senza conoscere e
accontentandosi di godere, e la
cui infelicità provenne dal
voler conoscere, mi pare un
emblema così conveniente e
preciso, e nel tempo stesso così
profondo della natura dell’uomo
e delle cose, della nostra
destinazione vera su questa
terra, del danno del sapere,
della felicità che si conveniva,
che unendo questa considerazione
col manifesto significato del
nome Psiche appena posso
discredere che quella favola non
sia un parto della più profonda
sapienza e cognizione della
natura dell’uomo e di questo
mondo»; e, ancora più
esplicitamente, qualche mese
dopo: «Uno dei principali dogmi
del cristianesimo è la
degenerazione dell’uomo da uno
stato primitivo più perfetto e
felice... Il principale
insegnamento del mio sistema è
appunto la detta degenerazione.
Tutte, pertanto, le infinite
osservazioni e prove generali o
particolari ch’io adduco per
dimostrare come l’uomo fosse
fatto primieramente alla
felicità, come il suo stato
perfettamente naturale, che non
si trova mai nel fatto, fosse
per lui il solo perfetto, come
quanto più ci allontaniamo dalla
natura tanto più diveniamo
infelici... ».
Se però il Leopardi meditava da
tempo la composizione delle
“Operette”, bisogna riconoscere
che a queste pose mano quando il
suo “istinto” poetico glielo
impose. Ed anche se parla di
sistema ed afferma di voler
dimostrare con osservazioni e
prove generali la degenerazione
della condizione umana, in
effetti anche in queste prose dà
corpo alla propria immaginazione
ed esprime i propri sentimenti:
non è cosa assai ardua “rendersi
conto della sostanziale unità -
come sostiene il Ferretti - che
accomuna l’opera poetica e
quella in prosa del Leopardi,
poeta in quanto filosofo e
filosofo in quanto poeta, più
conscio forse d’esser filosofo,
cioè di aver offerto ai suoi
lettori la documentazione di un
pensiero originale e coerente,
che d’esser poeta: ma, per noi,
essenzialmente poeta non meno
nella limpida prosa che nei
versi concettosi, perché non
meno in quella che in questi
muove l’immaginazione, cioè fa
rivivere in noi il suo mondo
interiore”.
La prima delle “Operette Morali”
è la “Storia del genere umano”
in cui il Leopardi accoglie,
trasformandola, la materia di un
mito pagano già cantato da
Esiodo e da Ovidio. La storia
dell'uomo si divide in quattro
epoche: nella prima l'umanità
viveva in uno stato quasi
felice, allietato da vaghe
speranze che però non venivano
mai ad effetto. Non paghi di
questa condizione che, pur
essendo quasi beata, non
mostrava di poter accrescere il
bene, gli uomini si lamentarono
e Giove per accontentarli mandò
sulla terra sogni e illusioni.
Ebbe così inizio la seconda età
in cui gli uomini,
eccessivamente impegnati nella
impossibile realizzazione dei
sogni e delle illusioni,
scivolarono nella corruzione e
furono da Giove puniti col
diluvio che li annientò. Si
salvarono Deucalione e Pirra cui
gli dei assegnarono il compito
di ripopolare la terra. Ebbe
così inizio la terza età, nella
quale Giove
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«...fatto accorto, per
le cose passate, della
propria natura degli
uomini, e che non può
loro bastare, come agli
altri animali, vivere ed
essere liberi da ogni
dolore e molestia del
corpo; anzi, che
bramando sempre e in
qualunque stato
l'impossibile, tanto più
si travagliano con
questo desiderio da se
medesimi, quanto meno
sono afflitti dagli
altri mali; deliberò
valersi di nuove arti a
conservare questo misero
genere: le quali furono
principalmente due.
L'una mescere la loro
vita di mali veri;
l'altra implicarla in
mille negozi e fatiche,
ad effetto di
intrattenere gli uomini,
e divertirli [=
distrarli] quanto più si
potesse dal conversare
col proprio animo, o
almeno col desiderio di
quella loro incognita e
vana felicità.
Quindi primieramente
diffuse tra loro una
varia moltitudine di
morbi e un infinito
genere di altre
sventure; parte volendo,
col variare le
condizioni e le fortune
della vita mortale,
ovviare alla sazietà e
crescere colla
opposizione dei mali il
pregio de' beni; parte
acciocché il difetto dei
godimenti riuscisse agli
spiriti esercitati in
cose peggiori, molto più
comportabile che non
aveva fatto per lo
passato; e parte
eziandio con
intendimento di rompere
e mansuefare la ferocia
degli uomini,
ammaestrarli a piegare
il collo e cedere alla
necessità, ridurli a
potersi più facilmente
appagare della propria
sorte, e rintuzzare
negli animi affievoliti
non meno dalle infermità
del corpo che dai
travagli propri, l'acume
e le veemenza del
desiderio...
E per escludere la
passata oziosità,
indusse nel genere umano
il bisogno e l'appetito
di nuovi cibi e di nuove
bevande, le quali cose
non senza molta e grave
fatica si potessero
provvedere, laddove
insino al diluvio gli
uomini, dissetandosi
delle sole acque, si
erano pasciuti delle
erbe e delle frutta che
la terra e gli arbori
somministravano loro
spontaneamente, e di
altre nutriture vili e
facili a procacciare,
siccome usano di
sostentarsi anche oggidì
alcuni popoli, e
particolarmente quelli
della California... Esso
medesimo diede leggi,
stati e ordini civili
alle nuove genti; e in
ultimo volendo con un
incomparabile dono
beneficiarle, mandò tra
loro alcuni fantasmi di
sembianze
eccellentissime e
soprumane, ai quali
permise in grandissima
parte il governo e la
potestà di esse genti: e
furono chiamati
Giustizia, Virtù,
Gloria, Amor patrio e
con altri sì fatti nomi.
Tra i quali fantasmi fu
medesimamente uno
chiamato Amore, che in
quel tempo
primieramente, siccome
anco gli altri, venne in
terra: perciocché
innanzi all'uso dei
vestimenti, non amore,
ma impeto di cupidità,
non dissimile negli
uomini di allora da
quello che fu di ogni
tempo nei bruti,
spingeva l'un sesso
verso l'altro, nella
guisa che è tratto
ciascuno ai cibi e a
simili oggetti, i quali
non si amano veramente,
ma si appetiscono.»
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In questa terza età gli uomini
condussero una vita abbastanza
tollerabile, ma poi si
stancarono anche di essa e
cominciarono a pretendere di
conoscere la verità. Giove,
seccato di questa eterna
incontentabilità degli uomini,
mandò in terra la Verità e
rimosse tutti gli altri antichi
fantasmi, ad eccezione
dell'Amore: sorse così la quarta
ed ultima età dell'uomo, quella
della infelicità.
La seconda delle “Operette” è in
forma di dialogo e si intitola
appunto “Dialogo d’Ercole e di
Atlante”. Anche qui la materia è
tratta da una favola mitologica:
Ercole, per volere di Giove, si
reca da Atlante per aiutarlo a
sostenere la sfera terrestre.
Questa però non ha più quasi
alcun peso e sembra morta o
addormentata. Per scuoterla in
qualche modo decidono di giocare
“a palla”, ma la sfera cade loro
di mano e dopo un botto sembra
per davvero morta. I due si
spaventano: Atlante si affretta
a riporsi il carico sulle spalle
mentre Ercole corre dritto da
Giove a scusarsi del fallo.
Inutile dire che l’intenzione
del Poeta è di deridere,
mettendola addirittura in
ridicolo, la sonnacchiosa
società contemporanea, ma non
certo con la volontà di
scherzare su un argomento che
invece sentiva molto seriamente
e dolorosamente: in effetti egli
in questa operetta porta ad
effetto quanto affermato qualche
anno prima in una nota dello
“Zibaldone”: «A volere che il
ridicolo primieramente giovi,
secondariamente piaccia
vivamente e durevolmente, cioè
la sua continuazione non annoi,
deve cadere sopra qualche cosa
di serio e d’importante. Se il
ridicolo cade sopra bagatelle e
sopra, dirò quasi, lo stesso
ridicolo, oltre che nulla giovi,
poco diletta e presto annoia.
Quanto più la natura del
ridicolo è seria, tanto il
ridicolo è più dilettevole,
anche per il contrasto... ».
Forse è bene anche per questa
operetta riportarne uno
squarcio, in modo da dare un
esempio di dialogo leopardiano:
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«Ercole: Come può
stare che sia tanto
alleggerita? Mi accorgo
bene che ha mutato
figura, e che è
diventata a uso delle
pagnotte, e non più
tonda, come era al tempo
che io studiai la
cosmografia per fare
quella grandissima
navigazione cogli
Argonauti: ma tutto
questo non trovo come
abbia a pesare meno di
prima.
Atlante: Della
causa non so. Ma della
leggerezza ch'io dico te
ne puoi certificare
adesso adesso, solo che
tu voglia torre questa
sulla mano per un
momento, e provare il
peso.
Ercole: In fe
d'Ercole, se io non
avessi provato, io non
poteva mai credere. Ma
che è quest'altra novità
che vi scuopro? L'altra
volta che io la portai,
mi batteva forte sul
dosso, come fa il cuore
degli animali; e metteva
un certo rombo continuo,
che pareva un vespaio.
Ma ora quando al
battere, si rassomiglia
a un oriuolo che abbia
rotta la molla; e quanto
al ronzare, io non vi
odo un zitto [= un
benché minimo rumore].
Atlante: Anche di
questo non ti so dire
altro, se non ch'egli è
già gran tempo, che il
mondo finì di fare ogni
moto e ogni rumore
sensibile; e io per me
stetti con grandissimo
sospetto che fosse
morto, aspettandomi di
giorno in giorno che
m'infettasse col puzzo;
e pensava come e in che
luogo lo potessi
seppellire, e
l'epitaffio che gli
dovessi porre...
Ercole: Io
piuttosto credo che
dorma... io voglio che
noi proviamo qualche
modo di risvegliarlo.
Atlante: Bene, ma
che modo?
Ercole: Io gli
farei toccare una buona
picchiata di questa
clava: ma dubito che lo
finirei di schiacciare,
e che io non ne facessi
una cialda [= sfoglia di
pasta]; o che la crosta,
atteso che riesce così
leggero, non gli sia
tanto assottigliata, che
egli mi scricchioli
sotto il colpo come un
uovo. E anche non mi
assicuro che gli uomini,
che al tempo mio
combattevano a corpo a
corpo coi leoni e adesso
colle pulci, non
tramortiscano dalla
percossa tutti in un
tratto. Il meglio sarà
ch'io posi la clava e tu
il pastrano, e facciamo
insieme alla palla con
questa sferuzza. Mi
dispiace ch'io non ho
recato i bracciali o le
racchette che adoperiamo
Mercurio ed io per
giocare in casa di Giove
o nell'orto: ma le pugna
basteranno.»
Durante il gioco la
sferuzza cade, ma nessun
uomo sembra svegliarsi
al gran colpo. Ciò è di
pretesto ad Ercole per
una sagace battuta:
«Ercole: E' molti
secoli che sta in casa
di mio padre un certo
poeta, di nome Orazio,
ammessoci come poeta di
corte ad istanza di
Augusto, che era stato
deificato da Giove per
considerazioni che si
dovettero avere alla
potenza dei Romani.
Questo poeta va
canticchiando certe sue
canzonette, e fra
l'altre una dove dice
che l'uomo giusto non si
muove se ben cade il
mondo. Crederò che oggi
tutti gli uomini sieno
giusti, perché il mondo
è caduto, e niuno s'è
mosso.
Atlante: Chi
dubita della giustizia
degli uomini? Ma tu non
istare a perder più
tempo, e corri su presto
a scolparmi con tuo
padre, che io m'aspetto
di momento in momento un
fulmine che mi trasformi
di Atlante in Etna.» |
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Nel “Dialogo della Moda e della
Morte” il Leopardi ironizza
sulla vanità della prima e la
definisce sorella della Morte
perché entrambe sono nate dalla
Caducità: dice la Moda: «...l'una
e l'altra tiriamo parimente a
disfare e a rimutare di continuo
le cose di quaggiù, benché tu
vada a questo effetto per una
strada e io per un'altra».
Segue la “Proposta di premi
fatta dall'Accademia dei
Sillografi” [=poeti burleschi],
in cui, come nella “Palinodia al
marchese Gino Capponi”, si
afferma che le nuove scoperte ed
invenzioni scientifiche possono
accrescere il benessere
materiale, ma non liberare
l’umanità dai vizi, che sono la
fonte maggiore dell’infelicità
degli uomini.
Nel “Dialogo di un Folletto e di
uno Gnomo” (il primo appartiene
alla categoria degli spiriti, di
invenzione medievale, che
vagavano nell’aria a molestare
gli uomini; il secondo alla
categoria degli spiriti che
custodivano i tesori nascosti
nella terra) si canzona la
pretesa dei filosofi che
affermano che l’universo sia
stato creato per gli uomini: i
due protagonisti del dialogo si
incontrano dopo la scomparsa
dell’uomo dalla terra e ridono
sulla vanità degli uomini, ma
poi incominciano a discutere se
il mondo sia stato creato per i
folletti o per gli gnomi. Più
saggi degli uomini, però, alla
fine concludono che non vale la
pena discutere su tale argomento
perché forse anche le lucertole
ed i moscerini staranno
rivendicando ognuno per la sua
specie il privilegio di avere il
mondo in funzione di loro.
Nel “Dialogo di Malambruno e di
Farfarello” il mago Malambruno
evoca il diavolo Farfarello per
ottenere da lui almeno un attimo
di felicità, ma lo spirito
infernale gli dice che nemmeno
Belzebù potrebbe concedergli
tanto, dato che questo andrebbe
contro l'ordine della natura.
Nel “Dialogo della Natura e di
un'Anima” l’Anima chiede alla
Natura un po’ di felicità, ma
questa risponde che al più può
concederle un po’ di gloria,
visto che tutti la considerano
un gran bene, anche se per
l’invidia che produce è
piuttosto motivo di dolore che
di gioia. L’Anima allora prega
la Natura di riprendersi pure
tutte le nobili doti che le ha
dato e di ricacciarla pure nel
più ignobile degli animali,
purché la faccia morire presto.
Nelle operette successive
continua la polemica contro la
nuova filosofia e la nuova
scienza e contro il progresso in
generale: “Dialogo della Terra e
della Luna”, “La scommessa di
Prometeo”, “Dialogo di un Fisico
e di un Metafisico” (nel quale
il Fisico si vanta di aver
trovato il modo per prolungare
la vita dell’uomo e il
Metafisico lo accusa di aver
danneggiato l’uomo in quanto
questi apprezza la vita solo se
è fonte di felicità e quindi il
Fisico meglio avrebbe fatto a
scoprire il modo di rendere
felice l’esistenza umana, magari
abbreviandola), “Dialogo di
Torquato Tasso e del suo Genio
familiare” (nel quale si espone
la tesi che la vita umana è
fatta di dolore e noia e di
niente altro). Questo gruppo di
operette si conclude col
“Dialogo della Natura e di un
Islandese” nel quale si
attribuisce alla Natura la
responsabilità dell’infelicità
umana, ma questa si difende
dicendo che essa si limita a
compiere il “perpetuo circuito
di produzione e distruzione”
senza minimamente porsi il
problema della felicità o
infelicità degli uomini.
Segue una lunghissima operetta,
“Il Parini ovvero della gloria”,
divisa in dodici capitoli.
Rifacendosi con molta
probabilità alla terza e quarta
lezione di eloquenza tenute dal
Foscolo a Pavia, il Leopardi
afferma che la gloria può essere
conseguita più con le azioni che
con le lettere, che è comunque
difficile da raggiungere e dà
certamente più pene che gioie.
Però, mentre il Foscolo riteneva
che, passata la stagione
dell’attuale barbarie, i posteri
avrebbero riconosciuto il valore
dei poeti, il Leopardi, più
pessimisticamente, ritiene che i
posteri non saranno punto
migliori della società presente
e che pertanto ingegno e
immaginazione sono beni
superflui e dannosi.
Nel “Dialogo di Federico Ruysch
e delle sue mummie” il Leopardi
immagina che il grande
anatomista olandese (1638-1731),
svegliato in piena notte dal
canto delle mummie, atterrito
dal sospetto che queste siano
resuscitate, intraprende con
esse una discussione circa le
sensazioni che si provano nel
momento del passaggio dalla vita
alla morte.
Le mummie affermano che tale
passaggio non è affatto
doloroso, anzi è piacevole
perché annienta i sensi
gradualmente, fino a spegnerli
del tutto, come fa il sonno che
ci vince poco a poco, dandoci
una benefica sensazione di
rilassamento. In questa operetta
sono evidenti le influenze di
Epicuro, Lucrezio e Cicerone
(per citare solo gli antichi).
C’è poi un’altra lunga operetta,
in sette capitoli, “Detti
memorabili di Filippo Ottonieri”,
in cui il Leopardi, imitando la
foscoliana “Notizia intorno a
Didimo Chierico”, ci offre una
breve ideale autobiografia ed un
insieme di precetti di filosofia
pratica che riguardano i temi
del dolore e del piacere, dei
vizi e delle virtù, sulla
giustizia, sulla falsa austerità
e concretezza degli uomini
maturi e sull’imprudenza dei
giovani, ecc. Nel primo
capitolo, in cui dà notizie
biografiche sull’Ottonieri (cioè
su se stesso), è assai evidente
l’imitazione del Foscolo:
«Filippo Ottonieri, del quale
prendo a scrivere alcuni
ragionamenti notabili, che parte
ho uditi dalla sua propria
bocca, parte narrata da altri;
nacque e visse il più del tempo,
a Nubiana, nella provincia di
Valdiveneto [entrambi sono nomi
fantastici]; dove anche morì
poco addietro; e dove non si ha
memoria d'alcuno che fosse
ingiuriato da lui, né con fatti
né con parole...
Nella vita, quantunque
temperatissimo, si professava
epicureo, forse per ischerzo più
che da senno. Ma condannava
Epicuro; dicendo che ai tempi e
nella nazione di colui, molto
maggiore diletto si poteva
trarre dagli studi della virtù e
della gloria, che dall'ozio,
dalla negligenza, e dall'uso
delle voluttà del corpo; nelle
quali cose quegli riponeva il
sommo bene degli uomini. Ed
affermava che la dottrina
epicurea, proporzionatissima
all'età moderna, fu del tutto
aliena dall'antica.
Nella filosofia godeva di
chiamarsi socratico: e spesso,
come Socrate, s'intratteneva una
buona parte del giorno
ragionando filosoficamente ora
con uno ora con altro, e massime
con alcuni suoi familiari, sopra
qualunque materia gli era
somministrata dall'occasione. Ma
non frequentava, come Socrate,
le botteghe de' calzolai, de'
legnaiuoli, de' fabbri e degli
altri simili; perché stimava che
se i fabbri e i legnaiuoli di
Atene avevano tempo da spendere
in filosofare, quelli di Nubiana,
se avessero fatto altrettanto,
sarebbero morti di fame...
Non lasciò scritta cosa alcuna
di filosofia, né d'altro che non
appartenesse ad uso privato. E
dimandandolo alcuni perché non
prendesse a filosofare anche in
iscritto, come soleva fare a
voce, e non deponesse i suoi
pensieri nelle carte, rispose:
il leggere è un conversare che
si fa con chi scrisse. Ora, come
nelle feste e nei sollazzi
pubblici, quelli che non sono o
non credono di essere parte
dello spettacolo, prestissimo si
annoiano; così nella
conversazione è più grato
generalmente il parlare che
l'ascoltare. Ma i libri per
necessità sono come quelle
persone che, stando cogli altri,
parlano sempre esse, e non
ascoltano mai. Per tanto è di
bisogno che il libro dica molto
buone e belle cose, e dicale
molto bene; acciocché dai
lettori gli sia perdonato quel
parlar sempre. Altrimenti è
forza che così venga in odio
qualunque libro, come ogni
parlatore insaziabile.»
E come il Chierico foscoliano,
anche l’Ottonieri provvide a
scrivere il proprio epitaffio:
«Vicino a morte, compose esso
medesimo questa inscrizione, che
poi gli fu scolpita sopra la
sepoltura:
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OSSA
DI FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE OPERE VIRTUOSE
E ALLA GLORIA
VISSUTO OZIOSO E
DISUTILE
E MORTO SENZA FAMA
NON IGNARO DELLA NATURA
NE' DELLA FORTUNA
SUA» |
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Il “Dialogo di Cristoforo
Colombo e di Pietro Gutierrez”
anticipa la tematica, poi svolta
nella canzone “Al conte Carlo
Pepoli” e nell’idillio “La
quiete dopo la tempesta”, che la
vita non è altro che dolore e
noia e che quel tanto di piacere
che tocca ai mortali deriva o
dallo scampato pericolo o dalla
pausa breve che intercorre fra
un dolore e l'altro.
Nell’ “Elogio degli uccelli” il
Leopardi, per bocca del filosofo
Amelio (III sec. d.C.), dice che
gli uccelli sono le uniche
creature a mostrare di prendere
diletto dalla vita: «Sono gli
uccelli naturalmente le più
belle creature del mondo... Si
veggono gli altri animali
comunemente seri e gravi; e
molti di loro anche paiono
malinconici: rade volte fanno
segni di gioia, e questi piccoli
e brevi;... Gli uccelli per lo
più si dimostrano nei moti e
nell'aspetto lietissimi: e non
da altro procede quella virtù
che hanno di rallegrarci colla
vista, se non che le loro forme
e i loro atti, universalmente,
sono tali, che per natura
dinotano abilità e disposizione
speciale a provare godimento e
gioia».
Nel “Cantico del Gallo
Silvestre” l’Autore fa ricorso
questa volta ad un’immagine
biblica, a quella di “un certo
gallo selvatico, il quale sta in
sulla terra coi piedi, e tocca
colla cresta e col becco il
cielo”: questo gallo di buon’ora
chiama al risveglio gli uomini
perché tornino al consueto
dolore, dato che è questo il
loro destino ed il sonno è
concesso dalla Natura solo
perché altrimenti sarebbe
impossibile vivere in uno stato
permanente di sofferenza.
A questo punto il Leopardi
inserì un’operetta scritta nel
1825, “Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco”, in cui
tratta della origine del mondo,
della sua esistenza e della sua
certa distruzione: è esperienza
comune che le cose del mondo,
singolarmente considerate,
periscono tutte. Esse, quindi,
debbono avere un principio. Ma
la materia di cui sono composte
non perisce mai: deve quindi
ritenersi che non abbia un
principio e sia perciò eterna.
Questa incessante trasformazione
della materia è però assai
lenta, sicché noi ci accorgiamo
della scomposizione dei singoli
individui, ma non percepiamo la
dissoluzione dei generi e delle
specie. Da qui la nostra falsa
convinzione che il mondo sia
eterno. Ma non è così, perché
anch'esso, nella sua totalità,
prima o poi si dissolverà, dando
origine ad un nuovo caos. Ma
poiché nessuna particella della
materia può perire, dal caos
nasceranno nuove relazioni fra
le innumerevoli particelle che
costituiscono la materia e
quindi un nuovo mondo: «Venuti
meno i pianeti, la terra, il
sole e le stelle, ma non la
materia loro, si formeranno di
questa nuove creature, distinte
in nuovi generi e nuove specie,
e nasceranno per le forze eterne
della materia nuovi ordini delle
cose ed un nuovo mondo. Ma le
qualità di questo e di quelli,
siccome eziandio
degl’innumerabili che già
furono, e degli altri infiniti
che poi saranno, non possiamo
noi né pur solamente
congetturare». E' chiaro che in
questa operetta il Leopardi
faccia propria la dottrina dei
materialisti e che, ravvisando
la rovina del mondo sulla scorta
delle ipotesi del Newton e del
Laplace, attribuisca tale rovina
solo ad una forza intrinseca
nella materia stessa, con
l’esclusione di ogni intervento
di una “mente superiore”.
Segue l’ultima delle operette
scritte nel 1824, il “Dialogo di
Timandro e di Eleandro”. I due
protagonisti (i cui nomi,
secondo un’etimologia greca,
significano rispettivamente,
“colui che onora il genere
umano” e “colui che ha
compassione del genere umano”)
hanno uno scontro verbale tra di
loro perché Timandro accusa
Eleandro (che rappresenta il
Leopardi stesso) di prendersi
gioco degli uomini, pur non
facendo mai loro male
materialmente. Eleandro
ribadisce che, consistendo la
vita in uno stato permanente di
infelicità, è necessario che
l’uomo si convinca ad accettare
tale suo destino senza ricorrere
goffamente ed assurdamente a
teorie filosofico-religiose che
vogliono illuderlo del contrario
o ingannarlo con false promesse
di felicità futura: meglio è
accettare virilmente la propria
condizione e ridere dei mali
comuni, anziché disperarsi.
Seguono le due operette composte
nel 1827, “Il Copernico” e
“Dialogo di Plotino e di
Porfirio”. Di quest’ultima, che
tratta il tema del suicidio,
abbiamo già parlato. L’altra è
in forma drammatica ed è divisa
in quattro scene. Nella prima il
Sole annuncia alla Prima Ora che
vuole riposare perché è stanco
di illuminare la terra: se vuole
riscaldarsi, faccia essa il
cammino intorno al sole; e se
gli uomini sono riluttanti a
ciò, dia l’incarico ad un
filosofo di convincerli. Nella
seconda scena Copernico (il
grande astronomo prussiano,
1473-1543, che compì i suoi
studi a Bologna), stupito che il
Sole tarda a sorgere, si
affaccia “in sul terrazzo di
casa sua, guardando in cielo a
levante, per mezzo d’un
cannoncello di carta; perché non
erano ancora inventati i
cannocchiali”. Tutta la scena è
occupata da un suo soliloquio.
Nella terza scena Copernico ha
un colloquio con l’Ora Ultima e
si lascia convincere a seguirla
nella casa del Sole per tentare
di persuaderlo a desistere dal
suo proposito. Nell’ultima scena
si svolge il dialogo fra
Copernico ed il Sole. Copernico
dice che non è facile convincere
la Terra ad abdicare al suo
ruolo di regina dell’universo ed
a mettersi a roteare intorno al
sole; che se anche accettasse di
farlo, gli altri pianeti
pretenderebbero la parità con
essa e vorrebbero fiumi, piante,
abitatori, ecc., senza dire che
poi le altre stelle potrebbero
avanzare la pretesa di stare
ferme ed essere attorniate pure
loro da vari pianeti: insomma si
sconvolgerebbe l’ordine attuale
dell’universo ed il Sole
cesserebbe di essere il secondo
nell’universo, dopo la Terra. Il
Sole risponde che preferisce
essere il primo nel suo sistema
anziché il secondo
nell’universo, e che comunque
non ne fa una questione di
dignità, quanto piuttosto una
questione di tranquillità. A
Copernico non resta che
accettare di convincere gli
uomini alla nuova disciplina, ma
confessa di temere il rogo. Il
Sole però gli consiglia come
fare per salvare la pelle:
|
«Copernico: Che
io non vorrei, per
questo fatto, essere
abbruciato vivo, a uso
della fenice: perché,
accadendo questo, io
sono sicuro di non avere
a risuscitare dalle mie
ceneri, come fa quell'uccello,
e di non vedere mai più,
da quell'ora innanzi, la
faccia della signoria
vostra.
Sole: Senti,
Copernico: tu sai che un
tempo, quando voi altri
filosofi non eravate
appena nati, dico al
tempo che la poesia
teneva il campo, io sono
stato profeta. Voglio
che adesso tu mi lasci
profetare per l'ultima
volta, e che per la
memoria di quella mia
virtù antica, tu mi
presti fede. Ti dico io
dunque che forse, dopo
te, ad alcuni i quali
approveranno quello che
tu avrai fatto, potrà
essere che tocchi
qualche scottatura, o
altra cosa simile: ma
che tu per conto di
quest'impresa, a quel
ch'io posso conoscere,
non patirai nulla. Se tu
vuoi essere più sicuro,
prendi questo partito:
il libro che tu
scriverai a questo
proposito, dedicarlo al
papa. In questo modo, ti
prometto che né anche
hai da perdere il
canonicato.» |
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Ancora una volta il Leopardi
fustiga l’orgoglio degli uomini
e la presunzione dei filosofi,
con una ironia così sottile e
con una grazia discorsiva così
elegante, che non ti
stancheresti mai di leggere
queste pagine.
Concludono le “Operette Morali”
due dialoghi, veri gioielli
d'arte, entrambi scritti nel
1832. Nel primo, il famosissimo
“Dialogo di un venditore
d'almanacchi e di un
passeggere”, con poche argute
battute, il Poeta afferma che la
vita che piace non è quella
trascorsa, ma quella avvenire,
quella cioè che si ignora: il
che equivale ad affermare che la
felicità non esiste in atto, ma
solo nella speranza; nel
secondo, “Dialogo di Tristano e
di un amico”, il Leopardi, nelle
vesti di Tristano, finge prima
di ricredersi di tutte le sue
pessimistiche passate opinioni
circa il destino dell’uomo, ma
poi fa sul serio, tanto serio
che il De Sanctis disse che il
tono qui raggiunto era quello
solenne di un testamento, e
riafferma per l’ultima volta che
la vita è male e solo la morte
può salvarci: egli non invidia
quelli che avranno lunga vita né
i posteri, ma gli uomini
passati, che sono già morti.
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