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ALESSANDRO MANZONI
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LE IDEE
Le tappe
fondamentali della formazione
culturale del Manzoni furono
sostanzialmente tre: la prima
riguarda l’educazione ricevuta
nei collegi ecclesiastici,
frequentati nella fanciullezza e
nell’adolescenza, che ebbe
l’effetto contrario a quello che
si proponeva, allontanando il
giovinetto dalla fede cattolica
a causa soprattutto della
grettezza con cui veniva
impartito l’insegnamento: già
abbiamo visto il giudizio che il
Manzoni espresse nel carme “In
morte di Carlo Imbonati” circa
tale insegnamento, ed anche se
in seguito si pentì della
durezza con cui aveva espresso
quel giudizio, in un certo senso
lo ribadì affermando che quegli
educatori “lasciavano molto a
desiderare essi stessi in
educazione”; la seconda riguarda
gli anni trascorsi a Parigi, ove
approfondì le teorie
illuministiche già in gran parte
assimilate e accettate durante i
suoi studi personali condotti
anche in collegio di nascosto
dai suoi maestri; la terza si
riferisce al periodo in cui
maturò la conversione al
cattolicesimo ed agli anni
successivi.
Storia e storiografia
Il primo dato che balza evidente
è che il Manzoni fu
principalmente un autodidatta:
lo confessa egli stesso nel
Carme per l’Imbonati. Il secondo
è che, anche quando si allontanò
dal primitivo insegnamento
cattolico per accostarsi alle
dottrine illuministiche, di
queste accettò soprattutto
quelle più direttamente ed
esplicitamente umanitarie e
filantropiche: segno evidente
della sua innata vocazione a
considerare il problema dell’
“uomo” nella sua globalità e
universalità più ancora che in
rapporto alla situazione
contingente. Fu certamente
codesta vocazione, oltre
all’influenza esercitata su di
lui dal Fauriel, a determinarlo
agli studi storici, che egli
condusse però in modo del tutto
indipendente e non certo come un
“curioso” di cose passate, sì
invece con lo spirito di chi
vuol carpire dalla storia il
segreto, il mistero in cui è
immerso quel “guazzabuglio” che
è il cuore umano. Perciò egli
nei suoi studi storici rivolse
la propria attenzione non tanto
ai fatti salienti ed alle
vicende dei Grandi che
lasciarono più marcata la
propria impronta nel tempo in
cui vissero, ma alle condizioni
di vita delle folle anonime,
alle loro miserie ed alle loro
aspirazioni ed ai loro
disinganni, alle loro
superstizioni ed alla loro fede.
E' significativo a tal proposito
quanto il Manzoni affermerà nel
“Discorso sopra alcuni punti
della storia longobardica in
Italia”: egli lamenta che gli
storici di quel periodo non si
siano punto interessati alla
condizione delle masse popolari:
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«Prenda adunque qualche
acuto e insistente
ingegno l' impresa di
trovare la storia patria
di que' secoli; ne
esamini, con nuove e più
vaste e più lontane
intenzioni, le memorie;
esplori nelle cronache,
nelle leggi, nelle
lettere, nelle carte de'
privati che ci
rimangono, i segni di
vita della popolazione
italiana. I pochi
scrittori di que' tempi
e de' tempi vicini non
hanno voluto né potuto
distinguere, in ciò che
passava sotto i loro
occhi, i punti storici
più essenziali, quello
che importava di
trasmettere alla
posterità: riferirono
de' fatti, ma
l'istituzione e i
costumi, ma lo stato
generale delle nazioni,
ciò che per noi sarebbe
il più nuovo, il più
curioso a sapersi, era
per loro la cosa più
naturale, più semplice,
quella che meritava meno
d'essere raccontata. E
se fecero così con le
nazioni attive e
potenti, e dal nome
delle quali intitolavano
le loro storie, si pensi
poi quanto dovessero
occuparsi delle
soggiogate! Ma c'è pure
un'arte di sorprendere
con certezza le
rivelazioni più
importanti, sfuggite
allo scrittore che non
pensava a dare una
notizia, e d'estendere
con induzioni fondate
alcune poche cognizioni
positive. Quest'arte,
nella quale alcuni
stranieri fanno da
qualche tempo studi più
diligenti [è chiaro che
il Manzoni si riferisce
al Fauriel], e di cui
lasciano di quando in
quando monumenti degni
di grande osservazione,
quest' arte, se non
m'inganno, è, ai giorni
nostri, poco esercitata
tra di noi.» |
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Cattolicesimo liberale
Intanto dall’Illuminismo aveva
appreso e fatti propri i
princìpi di Libertà, Giustizia e
Fraternità, princìpi che,
durante le lunghe meditazioni
che lo condussero alla
conversione religiosa, egli
riscoprì nelle pagine del
Vangelo. Da questo punto di
vista la conversione non fu che
un approfondimento della sua
moralità. La Fede riacquistata,
o meglio, finalmente acquistata,
con spontanea e convinta
adesione, conferì ai suoi valori
morali il segno di una certezza
che li rendeva incrollabili e li
arricchiva di un significato ben
altrimenti sublime che non
quello che potevano avere entro
i limiti di una gretta
concezione materialistica della
vita.
Se la lettura della storia
portava all’amara considerazione
che la forza del Male prevale
più spesso che quella del Bene
nelle vicende umane (concezione
pessimistica della storia), il
senso del “divino” calato nella
storia aveva la forza di
santificare il dolore, rendere
purificatrice la sofferenza
umana e bollare la cattiveria e
la violenza dei malvagi col
marchio sinistro della
ribellione alla legge di Dio: il
sacrificio degli “umili” veniva
esaltato come dono al Signore e
come simbolo di autentica
umanità, mentre l'arroganza dei
“potenti”, anche quella che
aveva dettato i fatti più
clamorosi della storia umana,
veniva screditata ed abbassata
al livello della bestialità.
La vita appariva dunque al
Manzoni come l’eterno conflitto
tra il Bene ed il Male,
che si svolge continuamente
nelle coscienze dei singoli
individui come nelle vicende dei
popoli e che impegna gli uni e
gli altri in infinite prove, in
cui si erge a protagonista il
“libero arbitrio” dell’uomo. E'
nell’impegno di orientare le
proprie scelte in favore del
Bene che si distingue il
cristiano, il quale deve
riconoscersi nelle parole con
cui il Manzoni definisce
l’esempio dato dal Cardinale
Borromeo: «Persuaso che la vita
non è già destinata ad essere un
peso per molti, e una festa per
alcuni, ma per tutti un impiego,
del quale ognuno renderà conto,
cominciò da fanciullo a pensare
come potesse render la sua utile
e santa». A confortare e
sostenere la difficile prova del
cristiano vale la fede nella
Provvidenza Divina, la fede in
quel Dio che «non turba mai la
gioia de' suoi figli, se non per
prepararne loro una più certa e
più grande».
Poetica
Naturale quindi che il Manzoni
non potesse pensare all’attività
artistica se non come un impegno
in favore dell’uomo, in difesa
del Bene e nel rispetto del
disegno divino.
E’ nota la proposizione con cui
egli definisce l’arte, la quale
deve proporsi il “vero per
oggetto, l'utile per iscopo e
l'interessante per mezzo”. E'
chiaro, però, che il Vero
dell’arte, cioè il “vero
poetico”, pur traendo origine
dal “vero storico”, è cosa ben
diversa da questo. Infatti il
“vero storico” è l’insieme dei
fatti realmente accaduti che
hanno avuto a protagonista
l’uomo. Esso costituisce la
“realtà” della vita che non deve
mai essere elusa o falsata o,
peggio, tradita in nessuna
circostanza e in nessuna
attività umana, se non ci si
vuole deliberatamente porre
contro la vita stessa. E' giusto
quindi che il “vero storico” sia
a fondamento anche dell’attività
artistica come unica materia
legittima di qualsivoglia
“speculazione” umana. Però
l’artista non può e non deve
confondersi con lo “storico” e
non può quindi limitarsi a
leggere la “realtà” per come si
presenta in superficie. Egli
deve invece penetrare quella
realtà oggettiva per giungere a
scoprire le verità più riposte,
cioè tutto quanto si agitava
nelle coscienze degli uomini che
produssero quella realtà, e
ricavare così il “vero poetico”,
cioè l’essenza stessa della
vita, che sarà poi il motivo
d’ispirazione dell’opera d’arte.
Perciò nell’opera d’arte non si
riproduce questo o quel momento
storico, ma il senso della
storia e, quindi, della vita.
Questo “senso” non si trova
nell’esame dei fatti oggettivi,
ma, attraverso tale esame,
bisogna scoprirlo nel cuore
degli uomini, nella sede cioè in
cui si vive realmente il
“dramma” dell’esistenza. Ed è
nella rappresentazione di questo
dramma che consiste la poesia:
«Più si va addentro a scoprire
il vero nel cuore dell'uomo -
dice il Manzoni - e più vi si
trova poesia vera».
Se il “Vero” (cioè il “vero
poetico” che nasce
dall’intuizione del Genio
esercitata sul “vero storico”)
deve essere l’oggetto dell’arte,
il fine di questa deve essere l’
“utile”, cioè la capacità di
trasmettere un messaggio morale
che sappia conquistare le
coscienze degli uomini,
purificarle e rigenerarle. Non è
concepibile che l’arte viva da
sé e di sé e per sé: essa deve
invece nascere dalla
considerazione della storia,
nutrirsi degli affetti e delle
passioni degli uomini e servire
all’elevazione del loro spirito.
Naturalmente l’ “utile” - cioè
il messaggio morale - non va
perseguito a bella posta
dall’artista perché in questo
caso limiterebbe e
condizionerebbe la libertà di
ispirazione e di espressione
dell’artista stesso.
L’ “utile” costituisce invece,
secondo il Manzoni, un fatto
intrinseco all’arte: esso
rientra nella natura stessa
dell’arte: non può esistere
opera d’arte veramente tale che
non sia “morale”.
Infine l’arte deve avere l’
“interessante” per mezzo, nel
senso che deve rappresentare
qualcosa di vivo e palpitante
per le coscienze del suo tempo,
sicché quel “senso” della vita
in essa calato, cioè il “Vero” -
che per sua natura è universale
ed eterno -, trovi una immediata
verifica nell’attualità del
momento storico in cui l’opera
sorge.
Queste idee furono alla base
dell’attività artistica del
Manzoni e trovano riscontro
nelle opere della sua migliore
stagione. Ma qui trovarono quasi
istintivamente il loro effetto,
mentre nelle opere teoriche
sulla Poetica appaiono segnate
della fatica di una lunga
ricerca, di una macerante
meditazione, che indusse
l’Autore anche a profonde
revisioni e clamorose smentite
dei risultati già espressi.
A tal proposito le opere più
significative furono la “Lettera
a Monsieur Chauvet sull'unità di
tempo e di luogo della
tragedia”, del 1820, e la
“Lettera sul Romanticismo”, del
1823, indirizzata al marchese
Cesare D’Azeglio.
Con la prima lettera il Manzoni
risponde alle critiche mossegli
dal letterato francese Chauvet
per non aver egli rispettato il
precetto delle famose “unità”
aristoteliche di tempo e di
luogo nella tragedia “Il Conte
di Carmagnola”. Il Manzoni
obietta che quelle unità sono
assurde in quanto costringono
l’autore a condensare ed
esasperare le passioni dei
protagonisti, facendolo così
incorrere in due errori assai
gravi per la vera poesia: il
primo consiste nel falsare il
ritmo psicologico reale di
quelle passioni; il secondo nel
coinvolgere violentemente lo
spettatore in quelle passioni,
contravvenendo al canone più
naturale della poesia, che è
invece quello di mettere lo
spettatore nella condizione
ideale della “contemplazione
disinteressata”. In questa
lettera il Poeta ribadisce
l’opinione che solo la storia ha
la dignità di materia poetica ma
che il poeta non può fermarsi,
come lo storico, alla conoscenza
oggettiva degli avvenimenti e
deve invece penetrarli per
mettere a nudo la coscienza
dell’uomo: «...che cosa ci dà la
storia? dei fatti che non sono,
per così dire, conosciuti se non
nel loro aspetto esteriore;
quello cioè che gli uomini hanno
fatto: ma quello che hanno
pensato, i sentimenti che hanno
accompagnato le loro
deliberazioni e i loro progetti,
i loro successi e le loro
sventure; i discorsi per mezzo
dei quali essi hanno fatto o
cercato di far prevalere le loro
passioni e la loro volontà su
altre passioni e altre volontà,
per mezzo dei quali hanno
espresso la lor collera, dato
sfogo alla loro tristezza,
hanno, in una parola, rivelato
la loro individualità, tutto
questo è passato quasi sotto
silenzio della storia; e tutto
questo è il dominio della
poesia».
Nella seconda Lettera il Manzoni
tenta di delineare la posizione
assunta dai Romantici nei
confronti dell’arte, ma in
effetti illustra la sua poetica.
Egli afferma che gli studi dei
Romantici sulla poesia hanno
avuto due direzioni: una
“negativa” per contestare la
poetica neoclassica e cancellare
per sempre l’uso della
mitologia, dell’imitazione e
delle regole prestabilite;
l’altra “positiva” per affermare
soprattutto che la poesia deve
esprimere il “vero” e deve
essere popolare. Per quanto
riguarda la mitologia egli
afferma di condividere la tesi
dei Romantici contraria alla
pretesa dei classicisti di voler
riproporre le “allegorie” che
sarebbero insite nei miti
classici (tesi questa cara al
Foscolo: si confronti il
paragrafo su “Le Grazie”), ma
aggiunge di suo che la mitologia
gli sembra vera e propria
“idolatria”.
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«Un’altro argomento de'
Classicisti era che
nella mitologia si trova
involto un complesso di
sapientissime allegorie.
I Romantici rispondevano
che, se sotto quelle
fandonie, c'era
veramente un senso
importante e
ragionevole, bisognava
esprimer questo
immediatamente; che, se
altri, in tempi lontani,
avevano creduto bene di
dire una cosa per farne
intendere un’altra,
avranno forse avuto
delle ragioni che non si
vedono nel caso nostro,
come non si vede perché
questo scambio d'idee
immaginato una volta
deva divenire e rimanere
una dottrina, una
convenzione perpetua...» |
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«Ma la ragione per la quale io ritengo detestabile l'uso della mitologia,
e utile quel sistema che tende
ad escluderla... è che l'uso
della favola è idolatria. Ella
sa molto meglio di me che questa
non consisteva soltanto nella
credenza di alcuni fatti
naturali e soprannaturali:
questi non erano che la parte
storica, ma la parte morale era
fondata nell'amore, nel
rispetto, nel desiderio delle
cose terrene come se fossero il
fine, come se potessero dare la
felicità, salvare... Così
l'effetto generale della
mitologia non può essere che di
trasportarci alle idee di que'
tempi in cui il Maestro [Cristo]
non era venuto, di quegli uomini
che non ne avevano né la
previsione, né il desiderio; di
farci parlare anche oggi, come
se Egli non avesse insegnato; di
mantenere i simboli,
l'espressioni, le formule de'
sentimenti ch'Egli ha inteso
distruggere; di farci lasciar da
una parte i giudizi ch'Egli ci
ha dati delle cose, il
linguaggio che è la vera
espressione di quei giudizi, per
ritenere le idee e i giudizi del
mondo pagano.»
Quanto alla parte positiva della
poetica romantica egli riconosce
che non è facile definire il
“vero” e che i Romantici hanno
trovato più agevole specificare
quello che non rientra nel
concetto di “vero”, e cioè il
“falso, l'inutile e il dannoso”,
anziché quello che esso deve
rappresentare. Dal canto suo
egli intravede nella poetica
romantica, anche se non
espressamente dichiarata, una
tendenza cristiana, giacché
«proponendo anche in termini
generalissimi il vero, l'utile,
il bono, il ragionevole,
concorre se non altro, con le
parole, allo scopo del
cristianesimo, non lo
contraddice almeno nei termini».
Questa “Lettera sul
Romanticismo” fu scritta nel
1823 ma fu pubblicata
dall’Autore solo nel 1871. Ciò
ci persuade che essa
rappresenti, in definitiva, il
credo poetico del Manzoni, anche
se fra queste due date
comparvero altri scritti che
sembrano in parte contraddire la
tesi esposta nella “Lettera”. Ad
esempio è del 1845 il discorso
“Del romanzo storico e, in
genere, dei componimenti misti
di storia e d'invenzione”, nel
quale egli afferma
l’impossibilità della sintesi
estetica di storia e di
invenzione (condannando quindi
come opere ibride e poeticamente
inconsistenti anche l’ “Adelchi”
ed i “Promessi Sposi”!) ed
afferma esplicitamente: «Un gran
poeta e un gran storico possono
trovarsi, senza far confusione,
nell'uomo medesimo, ma non nel
medesimo componimento»; ed è del
1850 il dialogo
“Dell'invenzione”, in cui,
riprendendo il pensiero del
Rosmini, afferma che solo Dio
può creare e che quindi il poeta
non crea, ma scopre nella sua
mente l’idea poetica esistente
da sempre, ab aeterno, nella
Mente di Dio.
Questione linguistica
Il Manzoni si interessò molto
anche al problema della lingua,
sia perché necessitato dalle sue
esigenze di scrittore, sia
perché animato da motivi
democratici e patriottici. Si sa
che egli andò a risiedere per
alcun tempo in Firenze per
riscrivere il suo romanzo
nell’autentica e moderna lingua
fiorentina, e ciò prova la
predilezione che egli ebbe per
questa lingua dal punto di vista
artistico. Ma il Manzoni,
osservando che una nazione ormai
unita non potesse fare a meno di
avere una lingua unitaria, e
considerando altresì che la
letteratura, per essere
veramente popolare come le
istanze romantiche richiedevano,
non poteva che adottare la
lingua del popolo, concluse che
il fiorentino - lingua usata
ormai da secoli da tutti i
letterati della penisola -
dovesse essere assunto come
lingua nazionale ed essere
diffuso in tutta Italia mediante
l’insegnamento scolastico, così
come, nei tempi antichi, la
lingua di Roma fu estesa a tutto
l’impero e, nei tempi più
recenti, la lingua parigina fu
estesa a tutta la Francia.
Naturalmente il Manzoni faceva
propria la tesi, già assunta dal
Monti, che una lingua è un
organismo vivente che nasce e
prospera da sé e non può essere
artificialmente confezionata con
l’apporto delle varie parlate
regionali, né può essere
bloccata in una forma definitiva
una volta per sempre. Pertanto
la lingua nazionale da adottare,
che valesse tanto per i
letterati che per il popolo,
doveva essere il fiorentino
colto dei contemporanei: questa
lingua, divenuta patrimonio di
tutti gli Italiani, cesserebbe
d’essere “fiorentina” per
divenire “italiana” e continuare
il suo processo evolutivo col
contributo di tutti gli
Italiani.
Degli scritti dedicati al
problema della lingua
ricordiamo: “Sentir messa”
(1835, incompiuto), “Dell'unità
della lingua e dei mezzi di
diffonderla” (1868, relazione al
Ministro della Pubblica
Istruzione Emilio Broglio), le
due lettere a Ruggero Bonghi,
del 1868, “Intorno al libro De
vulgari Eloquio di Dante” e
“Intorno al Vocabolario”.
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