Manzoni e Scott
I Promessi Sposi sono un romanzo
storico, un nuovo genere di
romanzo che ebbe grande successo
nell’Ottocento e che ha il suo
capostipite nell’ “Ivanhoe”
(1819) dello scrittore inglese
Walter Scott (1771-1832).
Diciamo subito, però, che
l’influenza dello Scott fu
pressoché irrilevante
sull’ispirazione del Manzoni,
anzitutto perché il Nostro aveva
già dimostrato con estrema
evidenza il suo orientamento a
trarre dalla storia non solo gli
argomenti ma anche i motivi
delle proprie opere (liriche
civili e tragedie), ma anche e
soprattutto perché gli esiti del
suo romanzo sono risultati
estremamente diversi da quelli
conseguiti dallo Scott con i
suoi vari romanzi storici. Lo
Scott fa, tutto sommato, storia
romanzata, nel senso che
rappresenta epoche ambienti e
personaggi storici mettendone in
risalto gli aspetti più
pittoreschi e più capaci di
colpire la fantasia del lettore
e quello che di fantastico
aggiunge ai dati reali finisce
col falsare la realtà stessa. Il
Manzoni, invece, anche nel
romanzo, come già nelle
tragedie, è rispettoso della
verità storica e quello che vi
aggiunge di fantastico non
nasce da una pura e gratuita
invenzione, a fine di diletto,
ma da una cordiale e profonda
penetrazione dei fatti reali
allo scopo di intuire e meglio
rappresentare la verità della
vita quale si agita nel profondo
della coscienza umana. Senza
voler essere irriguardosi
dell’arte dello Scott, che fu
pure un notevole scrittore, ci
sembra di poter affermare che
fra i romanzi dell’inglese e
quello del Manzoni corre la
stessa differenza che separa i
romanzi d’appendice da un grande
poema esistenziale.
Le edizioni
La prima redazione del romanzo
risale agli anni 1821 - 1823: il
primo titolo fu “Fermo e Lucia”,
mutato poi in “Sposi Promessi”.
L’opera non lasciò soddisfatto
l’Autore, che non volle mai
pubblicarla (fu infatti
pubblicata postuma ma solo per
metterla a confronto con
l’edizione definitiva) e la
rinnovò sostanzialmente,
pubblicandola col titolo di
“Promessi Sposi” nel 1827. Il
Manzoni sottopose poi il romanzo
ad una lenta e paziente
revisione linguistica “per
mettere quel povero testo nella
lingua viva di Firenze”, e a
tale scopo si trasferì per
qualche tempo nel capoluogo
toscano. L’edizione definitiva,
quella che noi oggi leggiamo, fu
da lui pubblicata a Milano in
fascicoli tra il 1840 ed il
1842.
I motivi fondamentali: la
Provvidenza e la Storia
La trama del romanzo è fin
troppo nota ai nostri giovani
lettori che vorranno perciò
scusarci se non ci addentriamo
in una descrizione analitica.
Riteniamo tuttavia opportuno
richiamare alla loro memoria
alcuni dati essenziali.
Come si sa, il filo conduttore
del romanzo è dato dalla vicenda
di due umili promessi sposi,
Renzo Tramaglino e Lucia
Mondella, che vengono
contrastati nel loro disegno di
nozze dalla tracotanza di un
signorotto locale, don Rodrigo,
che ha messo gli occhi sulla
formosa Lucia e si avvale di
ogni mezzo per farla sua,
ricorrendo alla complicità del
timoroso Don Abbondio, ma anche
all’influenza di cui son capaci
i suoi potenti parenti di
Milano, quando è necessario
ridurre all’impotenza quel certo
Padre Cristoforo, che ha osato
prendere le difese di una
insignificante contadina
mettendosi contro un nobile
casato. Don Rodrigo, forte della
protezione che la società del
tempo gli offre, non rinunzia
alla sua impresa neppure quando
non ha altra scelta che il
rapimento della ragazza, che
egli tenta una prima volta con i
suoi bravi, senza successo, e
poi con l’aiuto di un ribaldo
più potente di lui
(l’Innominato).
La vicenda si svolge tra il 7
novembre 1628 e la fine del 1630
nella Lombardia dominata dagli
Spagnoli. Ha inizio in un
piccolo paese tra Como e Lecco,
ma si estende poi in uno
scenario ben più vasto
coinvolgendo soprattutto Monza,
il Bergamasco, Milano.
La vicenda dei protagonisti è
essenziale all’Autore per poter
esprimere la sua profonda
ispirazione, il suo Vero, che
consiste nella eterna lotta tra
il Bene ed il Male, ma essa si
inserisce costantemente in
situazioni ben più rilevanti
della storia di quegli anni (la
carestia, la peste, la guerra
per la successione al ducato di
Mantova, la discesa dei
Lanzichenecchi; il malgoverno
spagnolo, la crisi della
giustizia, le violente
contestazioni popolari, ecc.)
senza per questo annullarsi e
neppure ridimensionarsi agli
occhi del lettore, che partecipa
al dramma dei due giovani
promessi (come a quello di tanti
altri personaggi minori: ad
esempio, la madre di Cecilia)
con non minore commozione di
quella che lo coglie alla
visione dei campi desolati e
inariditi dalla siccità, delle
strade di Milano ora invase
dalla folla tumultuante ora
squallidamente deserte per
timore della peste,
dell’agghiacciante scenario del
Lazzaretto. Forse è proprio qui
il segreto della “coscienza
storica” del Manzoni, che non
riesce a cogliere alcun
significato nei grossi
avvenimenti della storia se non
verificandone cause ed effetti
nelle singole coscienze degli
uomini, potenti od umili che
siano, dato che la vera tragedia
della storia è lì che si compie.
E che di tragedia si tratti è
dimostrato dalla considerazione,
tutt’altro che gratuita, che la
vita è essenzialmente “dolore”,
l’egoismo non paga, la fede in
una superiore Giustizia resta
l’unica risorsa dell’uomo per
fargli accettare la vita come
dolore ed il Bene come un
valore. Si spiega così nel
romanzo la costante presenza
della Provvidenza, che non è un
personaggio a sé stante come i
miti delle divinità pagane nelle
opere classiche, ma è
indistintamente, impalpabilmente
dappertutto: è l’anima stessa
della storia. D’altra parte la
storia, al di là delle apparenze
che ce la mostrano assai spesso
in contrasto con la Legge di
Dio, non può che tendere verso
il fine supremo prescritto da
Dio. Scrive a proposito il
Sapegno: «In questo mondo basso,
più triste che lieto, l'opera di
Dio la senti soprattutto nelle
tribolazioni, negli affanni, e
in quegli spiragli di luce che
s'aprono improvvisi in mezzo
alle tenebre dell'angoscia e
chiudono le porte alla
disperazione... E' una presenza
paterna, amorosa e severa, che
palpita in ogni cosa; e il poeta
l'avverte con la fede semplice e
intatta di un fanciullo, la fede
dei suoi contadini e di tutta la
povera gente... Non a caso i
Promessi Sposi sono stati
chiamati il romanzo della
Provvidenza». Ma se questo è
vero, è pure vero che «se
davvero di un protagonista
sensibile si vuol parlare - come
osserva il Russo -, bisognerebbe
pensare e sostenere che
protagonista è tutto un secolo,
è tutta una civiltà,
protagonista vero e immanente in
ogni pagina è il Seicento».
Leggiamo questa pagina
interessantissima del Russo:
«Di quel secolo egli viene
tracciando l'intera vita, la
quale, perché svuotata del
sentimento intimo di Dio, deve
essere necessariamente vana,
pomposa, barocca. Il puntiglio e
l'orgoglio, ecco le più vere
divinità di quel secolo
esteriore e farisaico. Don
Rodrigo muove tutta l'azione per
spuntare un impegno, per tenere
fede a una vile scommessa; il
conte Attilio e il conte zio
debbono sostenere l'onore del
casato; il podestà, l'onore
della formale dottrina
giuridica; don Ferrante, il più
innocente di tutti, l'onore
della scienza umbratile ed
inutile e quello delle buone
regole ortografiche. Il
cancelliere Ferrer, per tutelare
l'onore del governo, prima
abbassa il prezzo del pane, e
poi sguinzaglia i suoi bargelli;
e don Gonzalo Fernandez de
Cordova, per salvare l'onore di
un trono, conduce una guerra
funesta per la conquista del
Casal Monferrato. Più cupo di
tutti, come eroe di questo
pregiudizio dell'onore e del
decoro, il principe-padre, che
sacrifica e conduce alla
perdizione una figliuola. Del
farisaismo del secolo il
principe-padre è forse
l'espressione più complessa.
Nessuno vìola lo spirito formale
delle leggi; nessuno impone,
apertamente, la sua volontà. Il
principe non adopera mai parole
grosse. Egli ha un rispetto
pieno di cortesia della volontà,
delle inclinazioni, degli
affetti della figlia; ma sulla
sua volontà egli agisce, per vie
indirette, quasi magicamente,
demiurgicamente, creando tutta
una atmosfera, che deve ispirare
a poco a poco certi determinati
sentimenti».
Quindi i veri protagonisti del
romanzo sono la Provvidenza e la
Storia. Questo secondo
protagonista ha un nome: il
Seicento. E come tutti i
personaggi storici del romanzo
ha una sua fisionomia
inconfondibile che non può e non
deve essere alterata. Non per
niente il Manzoni, prima di
accingersi a scrivere l’opera,
si è abbondantemente documentato
sulla realtà storica di quel
periodo, leggendo le storie di
Giuseppe Ripamonti e di Pietro
Verri, l’ “Economia statistica”
di Melchiorre Gioia, la vita di
Federico Borromeo scritta da
Francesco Rivola, ma soprattutto
un’infinità di cronache e
documenti sparsi. Ciò non
toglie, però, che quel secolo fu
scelto a protagonista dell’opera
più per rispetto di un principio
teorico del Manzoni
(“l'interessante per mezzo”) che
per autentiche esigenze di
ispirazione. Esso infatti,
rappresentando la vita sociale,
politica, economica, religiosa
e, quindi, morale della
Lombardia soggetta agli
Spagnoli, richiamava la
condizione attuale dei Lombardi
soggetti agli Austriaci. Ma
l’esigenza di scavare nel fondo
degli avvenimenti reali per
mettere a nudo il vero dramma
degli uomini, soprattutto degli
umili, coinvolti nell’eterna
lotta tra il Bene ed il Male,
certamente il poeta l’avrebbe
potuta soddisfare con qualsiasi
altra epoca storica. E' perciò
più giusto affermare che non il
Seicento, ma la Storia intesa
come tragedia umana è il secondo
protagonista del romanzo, che
per questo è stato definito il
romanzo degli umili.
Il romanzo degli umili:
l'umorismo
Scrive ancora il Sapegno:
«Questo fondo popolano tiene una
parte grande, predominante,
nella struttura del romanzo.
Anche il quadro storico, in cui
tutta la vicenda si inserisce,
non tocca se non di passata gli
eventi politici, diplomatici,
bellici, quelli insomma che
formano essenzialmente e quasi
esclusivamente la trama di una
storia nel senso corrente del
termine, e si specifica
piuttosto in una serie di quadri
d'ambiente e di costume, per cui
si delinea, non il corso solenne
dei fatti, sì il colore, la
fisionomia minuta e variegata di
un'epoca. E quando un
avvenimento di vasta portata -il
malgoverno spagnolo, la
carestia, la guerra, la peste-
penetra nel racconto, è visto
non in una considerazione
astratta e disinteressata da
storico professionale, bensì in
quanto aderisce alla vita degli
umili, li agita, li fa soffrire,
reca un improvviso sconquasso
nelle loro abitudini e nelle
loro coscienze.
Naturalmente, in quella
rappresentazione vasta e
complessa di un periodo storico
visto nei suoi riflessi umani e
quotidiani, debbono entrare
anche i grandi, i personaggi
illustri, i rappresentanti dei
ceti e degli ordini
privilegiati; ma vi entrano,
come è giusto, in funzione
subordinata: o per antitesi,
come le ombre che hanno il
compito di delimitare e porre in
rilievo le zone di luce; ovvero
come elementi di sostegno e di
conforto del concetto che regola
la rappresentazione nel suo
complesso, in quanto si tratti
di potenti che s'adeguano al
mondo degli umili e si mettono
al loro servizio.»
A questo mondo di umili il
Manzoni aderisce con intima
cordialità e profonda
solidarietà. E se pure è vero
che egli tratti quella povera
gente con affetto e con
simpatia, ma pur sempre con un
certo compiaciuto divertimento
nel sottolineare l’ingenuità od
anche l’astuzia proverbialmente
contadinesca (“scarpe grosse e
cervello fino”), è senz’altro da
scartare l’ipotesi di un
atteggiamento volutamente
malizioso ed è piuttosto da
riscontrare in ciò la
registrazione fedele di un
rapporto genuino, non farisaico,
fra l’Autore, aristocratico
intellettuale, e le sue umili
creature.
E forse proprio grazie a questa
genuinità di rapporti è nato il
tono umoristico del romanzo, che
poi ha assunto l’ufficio, ben
più importante ed essenziale
all'ispirazione etico-religiosa,
di far da livellatore tra la
severità del giudizio morale e
l’umana comprensione o di
limitare l’asprezza della
polemica sociale (Così va il
mondo, o almeno così andava nel
secolo decimosettimo!”).
I personaggi
Ricchissima la galleria dei
personaggi tratti dalla storia,
come il cardinale Federico
Borromeo, la monaca di Monza
(figlia del conte Martino de
Leyva), l’Innominato (Francesco
Bernardino Visconti), il suo
amico Egidio (Gian Paolo Osio),
il gran cancelliere Antonio
Ferrer, lo stesso fra Cristoforo
(secondo un convincimento
diffuso tra gli studiosi anche
se le numerose ricerche
effettuate non hanno portato ad
alcuna precisa identificazione)
o creati dalla fantasia dello
scrittore - ma non per questo
meno “storici” dei primi in
quanto sapientemente costruiti
sulle notizie attinte dalle
cronache del tempo e ritratti
con estrema perizia psicologica
-, come Renzo, Lucia, Agnese,
Perpetua, don Abbondio, don
Rodrigo e tutta una serie di
minori anch’essi magistralmente
ben definiti e compiuti
(Azzeccagarbugli, fra Galdino,
il conte Attilio, il Conte Zio,
il Padre provinciale, Tonio,
Gervaso, Bortolo, don Ferrante,
donna Prassede, il sarto), e
ancora osti, barcaioli,
barrocciai, comari, serve,
“bravi” e bambini (Menico,
Bettina, i figli di Tonio,
quelli del sarto).
Il paesaggio
Più avara la fantasia del Poeta
nei confronti della natura: le
descrizioni paesaggistiche
certamente non mancano ma sono
di una sobrietà eccezionale che
trattiene e quasi impedisce ogni
effusione lirica. In questo il
Manzoni si distacca molto dagli
altri romantici che si sono
serviti del paesaggio come
espressione di particolari stati
d'animo. Il paesaggio
manzoniano, invece, è concreto,
il palcoscenico di tante vicende
storiche accadute sotto il cielo
di Lombardia, in cui prevale l’
“autunno”, la stagione che
meglio si addice all’intuizione
manzoniana della vita.
Il motivo patriottico e
l'ispirazione etico-religiosa
Un problema - per la verità
marginale dal punto di vista
estetico - è quello relativo
alla presenza o meno del motivo
“patriottico” nel romanzo. Sotto
la spinta degli ideali e -
perché no? - degli interessi
risorgimentali, non pochi
critici risposero nell’Ottocento
positivamente a questo
interrogativo. Lo stesso De
Sanctis non lo negava e negli
ambienti intellettuali correva
voce che il Metternich avesse
affermato che i “Promessi Sposi”
erano una grande lettera «la cui
soprascritta era indirizzata
alla Spagna, ma il contenuto era
per l'Austria». Ma già il
Carducci era decisamente di
parere opposto in quanto
l’umiltà evangelica che dominava
su tutto il romanzo non era, a
suo parere, conciliabile con gli
interessi politici e civili
della Nazione.
Noi siamo del parere che
l’analogia fra la situazione
della Lombardia seicentesca
dominata dalla Spagna e la
Lombardia ottocentesca dominata
dall’Austria fu certamente
ricercata dal Manzoni perché
l’opera risultasse
“interessante” per il lettore
moderno, ma siamo anche convinti
che il Poeta sentisse il
problema della secolare servitù
italiana in chiave morale,
inquadrato cioè nella visione
del rapporto fra oppressori ed
oppressi, più che in chiave
patriottica secondo il senso
comune di questa espressione.
Insomma per noi il motivo
patriottico è assorbito
dall'ispirazione etico-religiosa:
nel romanzo non c’é l’Apostolo
della Libertà della Patria nel
senso mazziniano e tanto meno
nel senso garibaldino, e non c’è
neppure l’accorto politico che
con le sue arti sottili vuol
preparare il terreno della
rivoluzione nazionale: c’è
invece l’Apostolo di una
superiore Giustizia che impone
il rispetto della libertà dei
popoli e dei singoli individui
come legge universale di vita,
come inoppugnabile volontà
divina.
Lo stile
I caratteri essenziali dello
stile del romanzo sono da
individuare nella “naturalezza”
del discorso narrativo e nella
disinvoltura con cui l’artista
registra, soprattutto nei
dialoghi, il tono della parlata
popolare.
Abbiamo detto: il “tono”, perché
in effetti la lingua è
rigorosamente selezionata nel
lessico (certamente senza
l’ottuso perfezionismo dei
puristi) e controllata nella
costruzione sintattica, come se
il Manzoni prestasse la sua
sapienza linguistica a quei
poveri popolani senza punto
condizionarne la schiettezza,
l’istintiva aderenza al
linguaggio delle cose, la
semplicità ed infine quel non so
che di pittoresco, di rustico
che sempre affiora dalla bocca
dei “paesani”. A noi sembra che
il Manzoni avesse aderito alle
tesi romantiche del “realismo” e
della “popolarità” dell’arte con
estremo equilibrio, senza cioè
il velleitarismo delle crociate
anticlassiciste che lo
avrebbero costretto a
mortificare un aspetto, un
elemento non secondario del
proprio “gusto”: un vero artista
teoricamente può anche smentire
se stesso, ma praticamente non
si tradisce mai.