IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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ALESSANDRO MANZONI

I PROMESSI SPOSI


Manzoni e Scott


I Promessi Sposi sono un romanzo storico, un nuovo genere di romanzo che ebbe grande successo nell’Ottocento e che ha il suo capostipite nell’ “Ivanhoe” (1819) dello scrittore inglese Walter Scott (1771-1832). Diciamo subito, però, che l’influenza dello Scott fu pressoché irrilevante sull’ispirazione del Manzoni, anzitutto perché il Nostro aveva già dimostrato con estrema evidenza il suo orientamento a trarre dalla storia non solo gli argomenti ma anche i motivi delle proprie opere (liriche civili e tragedie), ma anche e soprattutto perché gli esiti del suo romanzo sono risultati estremamente diversi da quelli conseguiti dallo Scott con i suoi vari romanzi storici. Lo Scott fa, tutto sommato, storia romanzata, nel senso che rappresenta epoche ambienti e personaggi storici mettendone in risalto gli aspetti più pittoreschi e più capaci di colpire la fantasia del lettore e quello che di fantastico aggiunge ai dati reali finisce col falsare la realtà stessa. Il Manzoni, invece, anche nel romanzo, come già nelle tragedie, è rispettoso della verità storica e quello che vi aggiunge di fanta­stico non nasce da una pura e gratuita invenzione, a fine di diletto, ma da una cordiale e profonda penetrazione dei fatti reali allo scopo di intuire e meglio rappresentare la verità della vita quale si agita nel profondo della coscienza umana. Senza voler essere irriguardosi dell’arte dello Scott, che fu pure un notevole scrittore, ci sembra di poter affermare che fra i romanzi dell’inglese e quello del Manzoni corre la stessa differenza che separa i romanzi d’appendice da un grande poema esistenziale.

Le edizioni


La prima redazione del romanzo risale agli anni 1821 - 1823: il primo titolo fu “Fermo e Lucia”, mutato poi in “Sposi Promessi”. L’opera non lasciò soddisfatto l’Autore, che non volle mai pubblicarla (fu infatti pubblicata postuma ma solo per metterla a confronto con l’edi­zione definitiva) e la rinnovò sostanzialmente, pubblicandola col titolo di “Promessi Sposi” nel 1827. Il Manzoni sottopose poi il romanzo ad una lenta e paziente revisione linguistica “per mettere quel povero testo nella lingua viva di Firenze”, e a tale scopo si trasferì per qualche tempo nel capoluogo toscano. L’edizione definitiva, quella che noi oggi leggiamo, fu da lui pubblicata a Milano in fascicoli tra il 1840 ed il 1842.

I motivi fondamentali: la Provvidenza e la Storia


La trama del romanzo è fin troppo nota ai nostri giovani lettori che vorranno perciò scusarci se non ci addentriamo in una descrizione analitica. Riteniamo tuttavia opportuno richiamare alla loro memoria alcuni dati essenziali.

Come si sa, il filo conduttore del romanzo è dato dalla vicenda di due umili promessi sposi, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, che vengono contrastati nel loro disegno di nozze dalla tracotanza di un signorotto locale, don Rodrigo, che ha messo gli occhi sulla formosa Lucia e si avvale di ogni mezzo per farla sua, ricorrendo alla complicità del timoroso Don Abbondio, ma anche all’influenza di cui son capaci i suoi potenti parenti di Milano, quando è necessario ridurre all’impotenza quel certo Padre Cristoforo, che ha osato prendere le difese di una insignificante contadina mettendosi contro un nobile casato. Don Rodrigo, forte della protezione che la società del tempo gli offre, non rinunzia alla sua impresa neppure quando non ha altra scelta che il rapimento della ragazza, che egli tenta una prima volta con i suoi bravi, senza successo, e poi con l’aiuto di un ribaldo più potente di lui (l’Innominato).

La vicenda si svolge tra il 7 novembre 1628 e la fine del 1630 nella Lombardia dominata dagli Spagnoli. Ha inizio in un piccolo paese tra Como e Lecco, ma si estende poi in uno scenario ben più vasto coinvolgendo soprattutto Monza, il Bergamasco, Milano.

La vicenda dei protagonisti è essenziale all’Autore per poter esprimere la sua profonda ispirazione, il suo Vero, che consiste nella eterna lotta tra il Bene ed il Male, ma essa si inserisce costantemente in situazioni ben più rilevanti della storia di quegli anni (la carestia, la peste, la guerra per la successione al ducato di Mantova, la discesa dei Lanzichenecchi; il malgoverno spagnolo, la crisi della giustizia, le violente contestazioni popolari, ecc.) senza per questo annullarsi e neppure ridimensionarsi agli occhi del lettore, che partecipa al dramma dei due giovani promessi (come a quello di tanti altri personaggi minori: ad esempio, la madre di Cecilia) con non minore commozione di quella che lo coglie alla visione dei campi desolati e inariditi dalla siccità, delle strade di Milano ora invase dalla folla tumultuante ora squallidamente deserte per timore della peste, dell’ag­ghiacciante scenario del Lazzaretto. Forse è proprio qui il segreto della “coscienza storica” del Manzoni, che non riesce a cogliere alcun significato nei grossi avvenimenti della storia se non verificandone cause ed effetti nelle singole coscienze degli uomini, potenti od umili che siano, dato che la vera tragedia della storia è lì che si compie.

E che di tragedia si tratti è dimostrato dalla considerazione, tutt’altro che gratuita, che la vita è essenzialmente “dolore”, l’egoismo non paga, la fede in una superiore Giustizia resta l’unica risorsa dell’uomo per fargli accettare la vita come dolore ed il Bene come un valore. Si spiega così nel romanzo la costante presenza della Provvidenza, che non è un personaggio a sé stante come i miti delle divinità pagane nelle opere classiche, ma è indistintamente, impalpabilmente dappertutto: è l’anima stessa della storia. D’altra parte la storia, al di là delle apparenze che ce la mostrano assai spesso in contrasto con la Legge di Dio, non può che tendere verso il fine supremo prescritto da Dio. Scrive a proposito il Sapegno: «In questo mondo basso, più triste che lieto, l'opera di Dio la senti soprattutto nelle tribolazioni, negli affanni, e in quegli spiragli di luce che s'aprono improvvisi in mezzo alle tenebre dell'angoscia e chiudono le porte alla disperazione... E' una presenza paterna, amorosa e severa, che palpita in ogni cosa; e il poeta l'avverte con la fede semplice e intatta di un fanciullo, la fede dei suoi contadini e di tutta la povera gente... Non a caso i Promessi Sposi sono stati chiamati il romanzo della Provvidenza». Ma se questo è vero, è pure vero che «se davvero di un protagonista sensibile si vuol parlare - come osserva il Russo -, bisognerebbe pensare e sostenere che protagonista è tutto un secolo, è tutta una civiltà, protagonista vero e immanente in ogni pagina è il Seicento». Leggiamo questa pagina interessantissima del Russo:

«Di quel secolo egli viene tracciando l'intera vita, la quale, perché svuotata del sentimento intimo di Dio, deve essere necessariamente vana, pomposa, barocca. Il puntiglio e l'orgoglio, ecco le più vere divinità di quel secolo esteriore e farisaico. Don Rodrigo muove tutta l'azione per spuntare un impegno, per tenere fede a una vile scommessa; il conte Attilio e il conte zio debbono sostenere l'onore del casato; il podestà, l'onore della formale dottrina giuridica; don Ferrante, il più innocente di tutti, l'onore della scienza umbratile ed inutile e quello delle buone regole ortografiche. Il cancelliere Ferrer, per tutelare l'onore del governo, prima abbassa il prezzo del pane, e poi sguinzaglia i suoi bargelli; e don Gonzalo Fernandez de Cordova, per salvare l'onore di un trono, conduce una guerra funesta per la conquista del Casal Monferrato. Più cupo di tutti, come eroe di questo pregiudizio dell'onore e del decoro, il principe-padre, che sacrifica e conduce alla perdizione una figliuola. Del farisaismo del secolo il principe-padre è forse l'espressione più complessa. Nessuno vìola lo spirito formale delle leggi; nessuno impone, apertamente, la sua volontà. Il principe non adopera mai parole grosse. Egli ha un rispetto pieno di cortesia della volontà, delle inclinazioni, degli affetti della figlia; ma sulla sua volontà egli agisce, per vie indirette, quasi magicamente, demiurgicamente, creando tutta una atmosfera, che deve ispirare a poco a poco certi determinati sentimenti».

Quindi i veri protagonisti del romanzo sono la Provvidenza e la Storia. Questo secondo protagonista ha un nome: il Seicento. E come tutti i personaggi storici del romanzo ha una sua fisionomia inconfondibile che non può e non deve essere alterata. Non per niente il Manzoni, prima di accingersi a scrivere l’opera, si è abbondantemente documentato sulla realtà storica di quel periodo, leggendo le storie di Giuseppe Ripamonti e di Pietro Verri, l’ “Economia statistica” di Melchiorre Gioia, la vita di Federico Borromeo scritta da Francesco Rivola, ma soprattutto un’infinità di cronache e documenti sparsi. Ciò non toglie, però, che quel secolo fu scelto a protagonista dell’opera più per rispetto di un principio teorico del Manzoni (“l'interessante per mezzo”) che per autentiche esigenze di ispirazione. Esso infatti, rappresentando la vita sociale, politica, economica, religiosa e, quindi, morale della Lombardia soggetta agli Spagnoli, richiamava la condizione attuale dei Lombardi soggetti agli Austriaci. Ma l’esigenza di scavare nel fondo degli avvenimenti reali per mettere a nudo il vero dramma degli uomini, soprattutto degli umili, coinvolti nell’eterna lotta tra il Bene ed il Male, certamente il poeta l’avrebbe potuta soddisfare con qualsiasi altra epoca storica. E' perciò più giusto affermare che non il Seicento, ma la Storia intesa come tragedia umana è il secondo protagonista del romanzo, che per questo è stato definito il romanzo degli umili.

Il romanzo degli umili: l'umorismo


Scrive ancora il Sapegno:

«Questo fondo popolano tiene una parte grande, predominante, nella struttura del romanzo. Anche il quadro storico, in cui tutta la vicenda si inserisce, non tocca se non di passata gli eventi politici, diplomatici, bellici, quelli insomma che formano essenzialmente e quasi esclusivamente la trama di una storia nel senso corrente del termine, e si specifica piuttosto in una serie di quadri d'ambiente e di costume, per cui si delinea, non il corso solenne dei fatti, sì il colore, la fisionomia minuta e variegata di un'epoca. E quando un avvenimento di vasta portata -il malgoverno spagnolo, la carestia, la guerra, la peste- penetra nel racconto, è visto non in una considerazione astratta e disinteressata da storico professionale, bensì in quanto aderisce alla vita degli umili, li agita, li fa soffrire, reca un improvviso sconquasso nelle loro abitudini e nelle loro coscienze.

Naturalmente, in quella rappresentazione vasta e complessa di un periodo storico visto nei suoi riflessi umani e quotidiani, debbono entrare anche i grandi, i personaggi illustri, i rappresentanti dei ceti e degli ordini privilegiati; ma vi entrano, come è giusto, in funzione subordinata: o per antitesi, come le ombre che hanno il compito di delimitare e porre in rilievo le zone di luce; ovvero come elementi di sostegno e di conforto del concetto che regola la rappresentazione nel suo complesso, in quanto si tratti di potenti che s'adeguano al mondo degli umili e si mettono al loro servizio.»

A questo mondo di umili il Manzoni aderisce con intima cordialità e profonda solidarietà. E se pure è vero che egli tratti quella povera gente con affetto e con simpatia, ma pur sempre con un certo compiaciuto divertimento nel sottolineare l’ingenuità od anche l’astuzia proverbialmente contadinesca (“scarpe grosse e cervello fino”), è senz’altro da scartare l’ipotesi di un atteggiamento volutamente malizioso ed è piuttosto da riscontrare in ciò la registrazione fedele di un rapporto genuino, non farisaico, fra l’Autore, aristocratico intellettuale, e le sue umili creature.

E forse proprio grazie a questa genuinità di rapporti è nato il tono umoristico del romanzo, che poi ha assunto l’ufficio, ben più importante ed essenziale all'ispirazione etico-religiosa, di far da livellatore tra la severità del giudizio morale e l’umana comprensione o di limitare l’asprezza della polemica sociale (Così va il mondo, o almeno così andava nel secolo decimosettimo!”).

I personaggi


Ricchissima la galleria dei personaggi tratti dalla storia, come il cardinale Federico Borromeo, la monaca di Monza (figlia del conte Martino de Leyva), l’Innominato (Francesco Bernardino Visconti), il suo amico Egidio (Gian Paolo Osio), il gran cancelliere Antonio Ferrer, lo stesso fra Cristoforo (secondo un convincimento diffuso tra gli studiosi anche se le numerose ricerche effettuate non hanno portato ad alcuna precisa identificazione) o creati dalla fantasia dello scrittore - ma non per questo meno “storici” dei primi in quanto sapientemente costruiti sulle notizie attinte dalle cronache del tempo e ritratti con estrema perizia psicologica -, come Renzo, Lucia, Agnese, Perpetua, don Abbondio, don Rodrigo e tutta una serie di minori anch’essi magistralmente ben definiti e compiuti (Azzeccagarbugli, fra Galdino, il conte Attilio, il Conte Zio, il Padre provinciale, Tonio, Gervaso, Bortolo, don Ferrante, donna Prassede, il sarto), e ancora osti, barcaioli, barrocciai, comari, serve, “bravi” e bambini (Menico, Bettina, i figli di Tonio, quelli del sarto).

Il paesaggio

 
Più avara la fantasia del Poeta nei confronti della natura: le descrizioni paesaggistiche certamente non mancano ma sono di una sobrietà eccezionale che trattiene e quasi impedisce ogni effusione lirica. In questo il Manzoni si distacca molto dagli altri romantici che si sono serviti del paesaggio come espressione di particolari stati d'animo. Il paesaggio manzoniano, invece, è concreto, il palcoscenico di tante vicende storiche accadute sotto il cielo di Lombardia, in cui prevale l’ “autunno”, la stagione che meglio si addice all’intuizione manzoniana della vita.

Il motivo patriottico e l'ispirazione etico-religiosa


Un problema - per la verità marginale dal punto di vista estetico - è quello relativo alla presenza o meno del motivo “patriottico” nel romanzo. Sotto la spinta degli ideali e - perché no? - degli interessi risorgimentali, non pochi critici risposero nell’Ottocento positivamente a questo interrogativo. Lo stesso De Sanctis non lo negava e negli ambienti intellettuali correva voce che il Metternich avesse affermato che i “Promessi Sposi” erano una grande lettera «la cui soprascritta era indirizzata alla Spagna, ma il contenuto era per l'Austria». Ma già il Carducci era decisamente di parere opposto in quanto l’umiltà evangelica che dominava su tutto il romanzo non era, a suo parere, conciliabile con gli interessi politici e civili della Nazione.

Noi siamo del parere che l’analogia fra la situazione della Lombardia seicentesca dominata dalla Spagna e la Lombardia ottocentesca dominata dall’Austria fu certamente ricercata dal Manzoni perché l’opera risultasse “interessante” per il lettore moderno, ma siamo anche convinti che il Poeta sentisse il problema della secolare servitù italiana in chiave morale, inquadrato cioè nella visione del rapporto fra oppressori ed oppressi, più che in chiave patriottica secondo il senso comune di questa espressione. Insomma per noi il motivo patriottico è assorbito dall'ispirazione etico-religiosa: nel romanzo non c’é l’Apostolo della Libertà della Patria nel senso mazziniano e tanto meno nel senso garibaldino, e non c’è neppure l’accorto politico che con le sue arti sottili vuol preparare il terreno della rivoluzione nazionale: c’è invece l’Apostolo di una superiore Giustizia che impone il rispetto della libertà dei popoli e dei singoli individui come legge universale di vita, come inoppugnabile volontà divina.

Lo stile


I caratteri essenziali dello stile del romanzo sono da individuare nella “naturalezza” del discorso narrativo e nella disinvoltura con cui l’artista registra, soprattutto nei dialoghi, il tono della parlata popolare.

Abbiamo detto: il “tono”, perché in effetti la lingua è rigorosamente selezionata nel lessico (certamente senza l’ottuso perfezionismo dei puristi) e controllata nella costruzione sintattica, come se il Manzoni prestasse la sua sapienza linguistica a quei poveri popolani senza punto condizionarne la schiettezza, l’istintiva aderenza al linguaggio delle cose, la semplicità ed infine quel non so che di pittoresco, di rustico che sempre affiora dalla bocca dei “paesani”. A noi sembra che il Manzoni avesse aderito alle tesi romantiche del “realismo” e della “popolarità” dell’arte con estremo equilibrio, senza cioè il velleitarismo delle crociate anticlassiciste che lo avreb­bero costretto a mortificare un aspetto, un elemento non secondario del proprio “gusto”: un vero artista teoricamente può anche smentire se stesso, ma praticamente non si tradisce mai.

 

© 2009 - Luigi De Bellis