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ALESSANDRO MANZONI
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LE TRAGEDIE
Caratteri generali
Il Manzoni compose due tragedie,
entrambe d’argomento storico, in
cinque atti, in endecasillabi
sciolti. La prima, “Il
Conte di Carmagnola”,
fu scritta tra il 1816 ed il
1820 e rappresentata una sola
volta a Firenze nel 1828; la
seconda, “Adelchi”,
fu scritta tra il 1820 ed il
1822 e rappresentata senza
successo a Torino nel 1843, a
Napoli nel 1873, a Milano nel
1874, e, con un certo successo,
in tempi a noi più vicini e
precisamente a Milano nel 1938
ed a Roma nel 1960. La realtà è
che queste tragedie sono state
scritte più per essere lette che
per essere rappresentate, dal
momento che il Manzoni difettava
di una vera ispirazione tragica,
di temperamento tragico, e non
aveva esperienza di teatro.
Certamente l’ “Adelchi” è opera
di grande rilievo poetico, ma va
intesa piuttosto come un “poema
storico”.
A dispetto tuttavia di questa
sua scarsa attitudine verso il
teatro e la tragedia, il Manzoni
volle cimentarsi in queste due
opere anzitutto per dichiarare
la sua convinzione circa
l’utilità della tragedia (da non
pochi autorevoli letterati e
filosofi messa in dubbio) e poi
per dare l'esempio di una
tragedia romantica e moderna del
tutto affrancata dalla
tradizione classica, e
principalmente dalle regole
pseudo-aristoteliche. Ci sembra
utile riportare due stralci
della “Prefazione” al “Conte di
Carmagnola” per avere dalla viva
voce dell’Autore le sue opinioni
circa le unità di tempo e di
luogo e circa l’utilità della
tragedia:
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«Tra i vari espedienti
che gli uomini hanno
trovati per imbrogliarsi
reciprocamente, uno de'
più ingegnosi è quello
d'avere quasi per ogni
argomento, due massime
opposte, tenute
ugualmente come
infallibili. Applicando
quest'uso anche ai
piccoli interessi della
poesia, essi dicono a
chi la esercita: siate
originali, e non fate
nulla di cui i grandi
poeti non vi abbiano
lasciato l'esempio.
Questi comandi che
rendono difficile l'arte
più di quello che è già,
levano anche a uno
scrittore la speranza di
poter rendere ragione
d'un lavoro poetico;
quand'anche non ne lo
ritenesse il ridicolo a
cui s'espone sempre
l'apologista de' suoi
propri versi... |
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L'unità di luogo, e la
così detta unità di
tempo, non sono regole
fondate nella ragione
dell'arte, né
connaturali all'indole
del poema drammatico: ma
sono venute da una
autorità non bene
intesa, e da princìpi
arbitrari; ciò risulta
evidente a chi osservi
la genesi di esse. |
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L'unità di luogo è nata
dal fatto che la più
parte delle tragedie
greche imitano un'azione
la quale si compie in un
sol luogo, e dalla idea
che il teatro greco sia
un esemplare perpetuo ed
esclusivo di perfezione
drammatica. L'unità di
tempo ebbe origine da un
passo di Aristotele, il
quale, come benissimo
osserva il signor
Schlegel, non contiene
un precetto, ma la
semplice notizia di un
fatto; cioè della
pratica più generale del
teatro greco. Che se
Aristotele avesse
realmente inteso di
stabilire un canone
dell’arte, questa sua
frase avrebbe il doppio
inconveniente di non
esprimere un'idea
precisa, e di non essere
accompagnata da alcun
ragionamento. |
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Quando poi vennero
quelli che, non badando
all'autorità domandarono
la ragione di queste
regole, i fautori di
esse non seppero
trovarne che una, ed è:
che, assistendo lo
spettatore realmente
alla rappresentazione di
un'azione, diventa per
lui inverosimile che le
diverse parti di questa
avvengano in diversi
luoghi, e che essa duri
per un lungo tempo,
mentre lui sa di non
essersi mosso di luogo,
e d'avere impiegate solo
poche ore ad osservarla.
Questa ragione è
evidentemente fondata su
un falso supposto, cioè
che lo spettatore sia lì
come parte dell'azione
quando è, per così dire,
una mente estrinseca che
la contempla. La
verosimiglianza non deve
nascere in lui dalle
relazioni dell'azione
col suo modo attuale di
essere, ma da quella che
le varie parti
dell'azione hanno tra di
loro. Quando si
considera che lo
spettatore è fuori dell'
azione, l'argomento in
favore delle unità
svanisce...» |
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«...una questione più
volte discussa, ora
quasi dimenticata, ma
che io credo tutt'altro
che sciolta... è: se la
poesia drammatica sia
utile o dannosa. So che
ai nostri giorni sembra
pedanteria il conservare
alcun dubbio sopra di
ciò, dacché il pubblico
di tutte le nazioni
colte ha sentenziato col
fatto in favore del
teatro. Mi sembra però
che ci voglia molto
coraggio per
sottoscriversi senza
esame a una sentenza
contro la quale
sussistono le proteste
di Nicole, di Bossuet e
di G. G. Rousseau, il di
cui nome unito a questi
viene qui ad avere una
autorità singolare. Essi
hanno unanimemente
inteso di stabilire due
punti: uno che i drammi
da loro conosciuti ed
esaminati sono immorali;
l'altro che ogni dramma
deva esserlo, sotto pena
di riuscire freddo, e
quindi vizioso secondo
l'arte; e che in
conseguenza la poesia
drammatica sia una di
quelle cose che si
devono abbandonare,
quantunque producano dei
piaceri, perché
essenzialmente dannose.
Convenendo interamente
sui vizi del sistema
drammatico giudicato
dagli scrittori nominati
qui sopra, oso credere
illegittima la
conseguenza che ne hanno
dedotta contro la poesia
drammatica in genere. Mi
pare che siano stati in
errore dal non aver
supposto possibile altro
sistema che quello
seguito in Francia. Se
ne può dare, e se ne dà
un altro suscettibile
del più alto grado
d'interesse e immune
dagl'inconvenienti di
quello: un sistema
conducente allo scopo
morale, ben lungi
dall'essergli
contrario.» |
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Una novità singolare nelle
tragedie manzoniane è data dalla
presenza dei Cori, uno al
termine del secondo atto del
“Carmagnola” (“S'ode a destra
uno squillo di tromba”) e due
nell’ “Adelchi”, precisamente al
termine del III atto (“Dagli
atrii muscosi, dai fori
cadenti”) e dopo la prima scena
del IV atto (“Sparsa le trecce
morbide”). Questi cori non sono
la riproposizione dei cori
dell’antica tragedia greca, dai
quali si differenziano
nettamente, ma rappresentano
come una pausa di raccoglimento
durante lo svolgimento del
dramma, un momento di
riflessione sugli avvenimenti
rappresentati, uno sforzo per
penetrare nel significato più
riposto delle vicende e trarne
un insegnamento morale: è un
mezzo per semplificare al
lettore od allo spettatore la
strada che conduce allo scopo
che si ripropone l’Autore,
quello “scopo morale” capace di
contraddire l’opinione negativa
del Rousseau circa l’utilità
della tragedia.
Ma diamo ancora una volta la
parola al Manzoni stesso (sempre
dalla Prefazione al
“Carmagnola”):
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«Mi rimane a render
conto del Coro
introdotto una volta in
questa tragedia, il
quale per non essere
nominati personaggi che
lo compongano, può
parere un capriccio, o
un enigma. Non posso
meglio spiegarne
l'intenzione, che
riportando in parte ciò
che il signor Schlegel
ha detto dei Cori greci:
“Il Coro è da
riguardarsi come la
personificazione de'
pensieri morali che la
azione ispira, come
l'organo de' sentimenti
del poeta che parla in
nome dell'intera
umanità”. E poco sotto:
“Vollero i Greci che in
ogni dramma il Coro...
fosse prima di tutto il
rappresentante del genio
nazionale, e poi il
difensore della causa
dell'umanità: il Coro
era insomma lo
spettatore ideale: esso
temperava l'impressioni
violente e dolorose
d'un'azione qualche
volta troppo vicina al
vero; e, riverberando,
per così dire, allo
spettatore reale le sue
proprie emozioni, gliele
rimandava raddolcite
dalla vaghezza di
un'espressione lirica e
armonica, e le conduceva
così nel campo più
tranquillo della
contemplazione”. Ora m'è
parso che, se i Cori dei
Greci non sono
combinabili col sistema
tragico moderno, si
possa però ottenere in
parte il loro fine, e
rinnovarne lo spirito
inserendo degli squarci
lirici composti
sull'idea di que' Cori.
Se l' essere questi
indipendenti dall'azione
e non applicati ai
personaggi li priva
d'una gran parte
dell'effetto che
producevano quelli, può
però, a mio credere,
renderli suscettibili
d'uno slancio più
lirico, più variato e
più fantastico. Hanno
inoltre sugli antichi il
vantaggio d'essere senza
inconvenienti: non
essendo legati con
l'orditura dell'azione,
non saranno mai cagione
che questa si alteri e
si scomponga per farceli
stare. Hanno finalmente
un altro vantaggio per
l’arte, in quanto,
riserbando al poeta un
cantuccio dov'egli possa
parlare in persona
propria, gli
diminuiranno la
tentazione d'introdursi
nell'azione, e di
prestare ai personaggi i
suoi propri sentimenti:
difetto dei più notati
negli scrittori
drammatici. Senza
indagare se questi Cori
potessero mai essere in
qualche modo adattati
alla recita, io propongo
soltanto che essi siano
destinati alla lettura:
e prego il lettore di
esaminare questo
progetto
indipendentemente dal
saggio che qui se ne
presenta; perché il
progetto mi sembra poter
esser atto a dare
all'arte più importanza
e perfezionamento,
somministrandole un
mezzo più diretto, più
certo e più determinato
d'influenza morale.» |
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“ll Conte di Carmagnola”
“Il
Conte di Carmagnola”,
oltre che dalla “Prefazione” di
cui abbiamo riportato dei brani,
è preceduta da “Notizie
storiche” sul protagonista e
sugli avvenimenti che fanno da
soggetto della tragedia.
Francesco Bussone nacque intorno
al 1390 da un contadino e da
bambino fu avviato a pascolare
le pecore. Un soldato di ventura
si imbatté in lui per puro caso
e, rimasto colpito "dall'aria
fiera del suo volto", gli
propose di seguirlo al servizio
del celebre condottiero
mercenario Facino Cane. Il
giovinetto acconsentì e ben
presto si mise in luce per
coraggio e determinazione, tanto
da fare una rapida carriera
militare. Si segnalò soprattutto
al servizio di Filippo Maria
Visconti, della cui potenza fu
il principale artefice, sicché
il duca lo nominò condottiero
del suo esercito, gli conferì il
titolo di Conte di Castelnuovo,
gli consentì le nozze con
Antonietta Visconti e gli
permise di costruirsi un palazzo
in Milano. La crescente potenza
anche politica del Bussone venne
però in sospetto del duca che
tentò -a ciò spinto anche da non
pochi cortigiani gelosi
dell'ascesa del Carmagnola- di
liberarsi di lui mandandolo
governatore disarmato a Genova.
Il Conte accettò l'incarico ma
si rifiutò di rinunziare al
comando delle milizie, ben
prevedendo che quello sarebbe
stato l'inizio d'una sua totale
emarginazione dalla vita del
ducato. Tentò di far desistere
Filippo, ma visto inutile ogni
tentativo, decise di
abbandonarlo e di offrire il suo
servizio prima al Duca Amedeo di
Savoia e poi alla Repubblica di
Venezia, tradizionali nemici dei
Visconti. Fu Venezia ad
accettarlo anche perché era
allora in discussione
un'alleanza coi Fiorentini per
far guerra ai Visconti. Forse la
guerra fu decisa proprio perché
i Veneziani nutrivano grosse
speranze di successo
sull'abilità di condottiero del
Carmagnola e sull'odio che
questi aveva accumulato contro
il suo vecchio signore. Ma nella
battaglia di Maclodio,
vittoriosa per il Carmagnola,
questi mandò liberi, com'era
usanza dei capitani di ventura,
tutti i prigionieri, facendo
sorgere il sospetto di essere
ancora sentimentalmente legato
ai vecchi compagni d'arme.
Alcuni successivi insuccessi di
lieve entità alimentarono i
sospetti circa un qualche suo
disegno di riconciliazione col
Visconti a tutto danno della
Repubblica e perciò i Veneziani
decisero di intervenire senza
mezzi termini e stroncare sul
nascere l'eventuale tentativo di
diserzione: invitato il Conte a
lasciare temporaneamente
l'esercito e venire a Venezia
per discutere circa una
eventuale pace da proporre al
Visconti, lo catturarono di
sorpresa, lo accusarono di
tradimento e lo condannarono
alla decapitazione. Gli storici
non dispongono di documenti
certi per giudicare le reali
intenzioni del Carmagnola e
dovendo procedere, per così
dire, ad un'istruttoria
indiziaria, si sono naturalmente
divisi in colpevolisti ed
innocentisti. Il Manzoni si è
schierato dalla parte di questi
ultimi ed ha tratteggiato il suo
personaggio come la vittima di
una infamante calunnia.
Il primo atto della tragedia ci
porta nella sala delle riunioni
del Senato di Venezia, ove il
doge Francesco Foscari mette in
discussione se accettare
l’alleanza proposta dai
Fiorentini, se è conveniente
dichiarare la guerra ai Milanesi
e se è opportuno affidarne il
comando al Carmagnola.
Uno dei capi del Consiglio dei
Dieci, Marino, diffida
apertamente della lealtà del
Conte e scongiura di non
affidare a lui la difesa della
Repubblica, ma il doge è di
avviso contrario anche in
considerazione dell’attentato
alla vita del Conte ordito dal
Visconti e fortunosamente
sventato, ed ottiene il voto
favorevole dei senatori su tutti
e tre i quesiti proposti. La
scena si sposta poi in casa del
Carmagnola ove un senatore si
reca per informare il Conte
delle decisioni adottate e per
avvertirlo della presenza di
nemici occulti.
Nel secondo atto, la prima parte
si svolge nel campo dei
Milanesi, ove i capi militari
sono divisi sulla opportunità di
attaccare il nemico o attendere
una migliore occasione: vince il
partito dei più giovani che
vogliono lo scontro immediato.
Nella seconda parte si passa nel
campo dei Veneziani, ove il
Carmagnola, con estrema calma e
convinta certezza di vittoria,
mette a punto il piano di
battaglia e dà le ultime
istruzioni ai suoi ufficiali.
A questo punto si inserisce il
Coro che consente al Poeta di
esprimere il suo giudizio morale
su quella vicenda. La battaglia
è iniziata e si fa presto assai
violenta. Qual nemico straniero
è venuto ad insanguinare le
nostre belle contrade? - si
domanda il Poeta -. Ma non sono
stranieri! Gli uni e gli altri
parlano lo stesso linguaggio e
sono figli della stessa Terra.
Ma se sono fratelli, chi per
primo osò trarre il sacrilego
brando? “Del conflitto esecrando
/ la cagione esecranda qual è?”.
Il colmo della sventura è che
quei contendenti non hanno
motivo di odiarsi e la cagione
di quella guerra neppure la
sanno: “a dar morte, a morire /
qui senz'ira ognun d'essi è
venuto; / E venduto ad un duce
venduto, / con lui pugna, e non
chiede il perché”. E quando la
battaglia volge al termine e si
profila con chiarezza la
vittoria d’uno dei due eserciti,
un corriere monta a cavallo per
recare la lieta notizia. Ma come
può mai esser lieta codesta
notizia se deve pur dire: “i
fratelli hanno ucciso i
fratelli”? E intanto lo
straniero si affaccia dai monti
e con sguardo sinistro di gioia
conta compiaciuto le migliaia di
morti e calcola quand’è che può
scendere senza rischi a
conquistare l’Italia. Il
commento morale del Manzoni alle
vicende della tragedia è troppo
evidente per dover essere
spiegato, ma ci preme ugualmente
di sottolineare come, anche in
questo Coro, il cuore e la mente
del Manzoni superino la vicenda
nazionale e considerino invece
il problema della guerra e della
sopraffazione in rapporto
all’intera umanità:
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Tutti fatti a sembianza
d'un solo,
figli tutti d'un solo
Riscatto,
in qual ora, in qual
parte del suolo,
trascorriamo quest'aura
vital,
siam fratelli; siam
stretti ad un patto:
maledetto colui che
l'infrange,
che s'innalza sul fiacco
che piange,
che contrista uno spirto
immortal! |
|
Il terzo atto si svolge tutto
nella tenda del Carmagnola, ma è
anch’esso da dividere in due
parti: nella prima ci si
compiace della vittoria ottenuta
sui Milanesi, mentre nella
seconda si assiste ad uno
scontro verbale fra il
Carmagnola ed i Commissari
preposti alla vigilanza
dell’esercito per conto del
governo veneziano: questi ultimi
manifestano il loro disappunto
per il rilascio dei prigionieri
e pretendono che il condottiero
dia l’ordine di inseguire il
nemico fino a Milano; il
Carmagnola risponde che il
rilascio dei prigionieri rientra
nelle consuetudini di guerra e
che non è prudente inseguire il
nemico senza essersi prima
garantita la sicurezza alle
spalle; e poi taglia corto,
dicendo che gli lascino fare il
suo mestiere di soldato in pace
e che gli revochino pure
l’incarico se nutrono sospetti
sulla sua lealtà o sulle sue
capacità.
Nel quarto atto il Gran
Consiglio, dopo aver deciso di
attirare con un tranello il
Conte a Venezia per processarlo
di tradimento, mette sotto
accusa il senatore Marco per
aver parlato in difesa del
Carmagnola, suo amico. Marco è
costretto a sottoscrivere un
giuramento che gli impone di non
svelare al Conte i piani del
Consiglio e riceve l’ordine di
allontanarsi da Venezia e di
recarsi a Tessalonica in
missione. Prima di partire,
medita dolorosamente su quella
che ritiene una viltà nei
confronti dell’amico, ma anche
sui suoi doveri di senatore che
gli impongono di custodire i
segreti di stato senza cedere ai
sentimenti personali. Il
soliloquio di Marco è forse la
pagina più bella di tutta la
tragedia. La scena si sposta poi
nella tenda del Conte che,
ricevuto l’invito a recarsi a
Venezia, l’accetta di buon grado
nonostante le diffidenze e i
timori manifestatigli dal fedele
Gonzaga.
Anche il quinto ed ultimo atto
si divide in tre parti: nella
prima il Conte è ricevuto dal
Gran Consiglio che, dopo aver
discusso la pace per saggiare
l’animo del condottiero, lo
accusa di tradimento e lo
dichiara in arresto; nella
seconda il Gonzaga si reca in
casa del Carmagnola per dare la
triste notizia alla moglie ed
alla figlia dello sventurato
condottiero; nella terza il
Conte riceve nella sua cella
l’ultima visita delle due donne,
che cerca di confortare, dando
prova di estrema fierezza
nell’accettare un supplizio che
non lo scalfisce minimamente
nell’intimo, avendo egli
conservata intatta e pura la
propria coscienza.
«Il nucleo vitale della tragedia
- afferma il Flora - è lo
svolgimento della vicenda che
conduce il Carmagnola ad una
accettazione religiosa della
morte, già tante volte sfidata
sui campi di battaglia per una
sfida mondana: il trapasso da un
sentimento guerriero a un
sentimento di suprema pace. Su
questo dramma si leva il Coro in
cui il poeta esprime la tragedia
italiana dei popoli fratricidi,
riconducendo anche quella alla
contemplazione ultima della
morte, al giudizio di Dio... La
più intima verità poetica di
questa tragedia s'è veduta nello
svolgimento del protagonista e
nel coro che sovrasta a tutte le
scene come un cielo in presagio
di tempesta. Non la gelida parte
del Doge o magari l'eloquenza di
Marino, primo a diffidare del
conte: non l'insidia per la
quale la Repubblica trae il
Carmagnola a morte hanno vera
virtù di contrasto drammatico:
sono soltanto i modi accennati
attraverso i quali il Carmagnola
svolgerà la sua dura esperienza
e risentirà il richiamo di Dio.
E qui il poeta trova il suo
limpido tono».
L' “Adelchi”
Anche la tragedia “Adelchi” è
preceduta da “Notizie storiche”
suddivise in “Fatti anteriori
all'azione compresa nella
tragedia”, “Fatti compresi
nell'azione della tragedia” e
“Usanze caratteristiche, alle
quali si allude nella tragedia”.
E ancora da una commossa dedica
ad Enrichetta: «Alla diletta e
venerata sua Moglie - Enrichetta
Luigia Blondel - la quale
insieme con le affezioni
coniugali e con la sapienza
materna poté serbare un animo
verginale consacra questo
Adelchi - l'Autore - dolente di
non potere a più splendido e a
più durevole monumento
raccomandare il caro nome e la
memoria di tante virtù».
Nelle notizie storiche l'Autore
risale all'anno 568, quando il
popolo dei Longobardi, guidato
dal re Alboino, abbandona la
Pannonia e si stanzia in Italia
su terre sottratte alla
giurisdizione dell'Impero Romano
d'Oriente, cioè dei Bizantini.
Da quell'anno il dominio
dell’Italia è grosso modo
ripartito fra il re dei
Longobardi, l'imperatore
d'Oriente ed il Pontefice, che
hanno per loro sede ufficiale
rispettivamente Pavia, Ravenna
(ove risiede l'Esarca che
governa in nome dell'
Imperatore) e Roma. Da allora
fra i Longobardi ed il Pontefice
i rapporti sono stati difficili,
i primi invadendo spesso i
territori del secondo, questi
invocando ogni volta l'aiuto dei
Franchi.
La situazione non mutò quando,
alla morte del re Astolfo, fu
eletto re dei Longobardi, nel
756, il duca di Brescia
Desiderio, benché questi avesse
avuto l'appoggio del papa
Stefano II in cambio della
promessa di restituzione delle
terre sottratte al papa da
Astolfo. Intanto in Francia,
morto Pipino, il regno fu diviso
fra i suoi figli Carlo e
Carlomanno e, alla morte di
quest’ultimo, riunificato da
Carlo sotto il suo scettro a
scapito dei due figli del
fratello (che, insieme con la
madre Gerberga, si rifugiarono
presso la corte di Desiderio). I
rapporti tra Carlo (il futuro
Carlo Magno) e Desiderio, che
sembravano aver trovato un
qualche equilibrio dopo le nozze
del re di Francia con Desiderata
o Ermengarda, figlia di
Desiderio, si rifecero
drammatici allorché Carlo
ripudiò la moglie per sposare
Ildegarde, di nazionalità sveva.
Di ciò approfittarono Paolo I e
Stefano III, successori del papa
Stefano II, per invocare
nuovamente l'aiuto dei Franchi
contro Desiderio, il quale non
solo non aveva restituito i
territori promessi, ma ne aveva
sottratti ancora altri al
papato. Ma è il papa Adriano I
ad ottenere l’ultimo decisivo
intervento da parte dei Franchi.
Carlo decide la guerra e nel 772
scende in Italia. Dopo due anni,
anche con l'aiuto di traditori
longobardi, riesce vincitore:
Desiderio, fatto prigioniero, è
relegato in un monastero
francese ove trascorre
santamente gli ultimi anni di
vita; suo figlio Adelchi, che
resisteva in Verona, si rifugia
a Costantinopoli, ove è accolto
con grandi onori, e pochi anni
dopo torna al comando di un
esercito greco per combattere i
Franchi e trovare la morte sul
campo; Ermengarda si ritira in
convento e morirà di crepacuore.
Sono questi i fatti inclusi
nella tragedia, con qualche
libertà di cui lo stesso Manzoni
ci avverte in un passo delle
"Notizie storiche", che è forse
opportuno riportare testualmente
per una nota che riguarda "la
parte morale". Ecco il brano:
«Nella tragedia, la fine di
Adelchi si è trasportata al
tempo che uscì da Verona. Questo
anacronismo, e l'altro d'aver
supposta Ansa [moglie di
Desiderio] già morta prima del
momento in cui comincia l'azione
(mentre in realtà quella regina
fu condotta col marito
prigioniera in Francia, dove
morì), sono le due sole
alterazioni essenziali fatte
agli avvenimenti materiali e
certi della storia.
Per ciò che riguarda la parte
morale, s'è cercato d'accomodare
i discorsi dei personaggi
all'azioni loro conosciute, e
alle circostanze in cui si sono
trovati. Il carattere però d'un
personaggio, quale è presentato
in questa tragedia, manca
affatto di fondamenti storici: i
disegni di Adelchi, i suoi
giudizi sugli avvenimenti, le
sue inclinazioni, tutto il
carattere in somma è inventato
di pianta, e intruso tra i
caratteri storici, con una
infelicità, che dal più
difficile e dal più malevolo
lettore non sarà, certo, così
vivamente sentita come lo è
dall' autore.»
Il primo atto si svolge quasi
interamente nel palazzo reale di
Pavia ove lo scudiero Vermondo
annunzia ai due re (Desiderio ha
associato al governo regale il
figlio Adelchi) l’imminente
arrivo della ripudiata
Ermengarda. Nelle prime battute
già si delineano le due diverse
fisionomie di Desiderio e di
Adelchi: fiero, risoluto,
vendicativo e intransigente il
primo; non meno fiero e
risoluto, ma prudente e d’animo
equo il secondo. Desiderio è
impaziente di scontrarsi con
Carlo per fargli pagare
l’oltraggio del ripudio, ma
Adelchi calcola realisticamente
i rischi di una guerra che li
trova circondati da sudditi
pronti al tradimento e che egli
ritiene oltretutto ingiusta per
il suo popolo che si è reso
colpevole di aver invaso i
territori del papa. Quando però
Desiderio mette in dubbio il suo
onore di soldato e la sua lealtà
di figlio, allora non esita a
dichiararsi pronto a misurarsi
nelle armi con Carlo per
vendicare l’oltraggio sofferto
dalla cara sorella, e fa dono al
padre di tutta intera la sua
volontà: «O padre! / Un nemico
si mostra, e tu mi chiedi / ciò
ch'io farò? Più non son io che
un brando / nella tua mano».
Poche battute bastano al Manzoni
per tratteggiare il carattere
dell’infelice Ermengarda: delusa
nelle sue più affettuose
speranze, non riesce tuttavia a
sopire l’ardente amore che la
legò a Carlo, su cui teme la
vendetta paterna; sa che non
potrà più amare nessun altro
uomo e chiede licenza di poter
dedicare il resto della vita “a
quello Sposo che non mai
rifiuta”, raggiungendo la
sorella Ansberga nel monastero
di S. Salvatore in Brescia (che
fu fondato dalla madre, la
regina Ansa). Nel frattempo
giunge un legato di Carlo che
impone a Desiderio di
abbandonare le terre del papa.
E' un ultimatum. Al rifiuto del
re, il legato ha l’ordine di
dichiarargli guerra a nome di
Carlo. L’atto si conclude in
casa di Svarto, un oscuro
soldato ma ambizioso e pronto a
tutto pur d’emergere, ove si
riuniscono segretamente alcuni
duchi longobardi che già
meditano di accordarsi con Carlo
(come aveva ben previsto il
prudente Adelchi).
Il secondo atto ci porta in
un’epoca molto più avanzata, nel
campo dei Franchi in Val di Susa.
Il re Carlo è sfiduciato e
dispera di poter mai superare le
barriere delle Chiuse, che
presentano ostacoli naturali e
difese artificiali pressoché
insormontabili. Annuncia quindi
la sua decisione di rinunziare
all’impresa nonostante le
esortazioni del legato
pontificio, quand’ecco che gli
si presenta il diacono Martino,
messo del Vescovo di Ravenna,
che gli dice d’esser giunto al
suo campo per un varco
sconosciuto ai Longobardi e
praticabile da un esercito. Dice
anche che i Longobardi sono
sprovvisti di difesa alle loro
spalle. L’arrivo di Martino
sembra a Carlo un soccorso e un
invito della Divina Provvidenza
per proseguire nella guerra e,
rincuoratosi, dà immediatamente
le necessarie disposizioni per
muovere il campo ed assalire il
nemico alle spalle.
Nel terzo atto è di scena il
campo dei Longobardi, ove si
immagina che la smobilitazione
del campo nemico sia dovuta a
disegni di ritirata. Si pregusta
la vittoria e Desiderio loda con
commosse parole l’eroismo di
Adelchi, salvatore della patria.
All’improvviso la catastrofe: un
soldato trafelato annunzia che i
Franchi hanno assalito
l’accampamento in gran forza
alle spalle ed hanno preso i
Longobardi alla sprovvista: i
soldati fuggono in cerca di
scampo e non c'è modo di
trattenerli per organizzare una
difesa, per altro certamente
inutile. Adelchi non si rassegna
e corre fra i suoi, ma ogni
tentativo di ripresa è vano. In
un bosco solitario incontrerà il
vecchio padre fuggente e si
porrà al suo fianco per
proteggerne la vita. Intanto
Carlo, nel campo longobardo
ormai conquistato, riceve
l’omaggio dei duchi traditori,
ai quali suggerisce di
persuadere tutto il popolo dei
Longobardi ad accettare il nuovo
re, che è venuto solo per
scalzare dal trono una famiglia
indegna del Cielo: chi gli
consegnerà Desiderio ed Adelchi
avrà una lauta ricompensa:
nomina intanto Svarto Conte di
Susa! Quindi congeda i suoi
nuovi “prodi fedeli”, ma, appena
i traditori vanno via, rivolto
ad un suo Conte, dice
amaramente: «Rutlando, ho io
chiamati prodi costor? errato ha
il labbro del re. Questa parola
ai Franchi miei in guiderdon la
serbo. Oh! possa ognuno
dimenticar ch'io proferita or
l'abbia». E invece rende sincero
onore al morente Anfrido,
scudiero di Adelchi, che ha
cercato la morte in battaglia e,
prima di spirare, trova la forza
di esprimere al vincitore un
ultimo pensiero d’amore per il
suo signore:
|
Al ciel diletto
è Adelchi, o re. Da
questo giorno infame
trarrallo il ciel, lo
spero, e ad un migliore
vorrà serbarlo: ma, se
mai... rammenta
che, regnante o caduto,
è tale Adelchi,
che chi l'offende, il
Dio del ciel offende
nella più pura immagin
sua. Lo vinci
tu di fortuna e di
poter, ma d'alma
nessun mortale: un che
si muor tel dice. |
|
Al termine del terzo atto il
Manzoni collocò il primo Coro.
Sono undici strofe di sei versi
dodecasillabi ciascuna. Il poeta
immagina di vedere il “volgo
disperso” degli Italiani aprirsi
alla speranza di liberarsi dei
padroni longobardi con l’aiuto
dei Franchi, ma li ammonisce
severamente:
|
Udite! Quei forti che
tengono il campo,
che ai vostri tiranni
precludon lo scampo,
son giunti da lunge, per
aspri sentier:
.....................................................
Si vider le lance calate
sui petti,
a canto agli scudi,
rasente agli elmetti
udiron le frecce
fischiando volar.
E il premio sperato,
promesso a quei forti,
sarebbe, o delusi,
rivolger le sorti,
d'un volgo straniero por
fine al dolor?
Tornate alle vostre
superbe ruine,
all'opere imbelli
dell'arse officine,
ai solchi bagnati di
servo sudor.
Il forte si mesce col
vinto nemico,
col novo signore rimane
l'antico;
l'un popolo e l'altro
sul collo vi sta.
Dividono i servi,
dividon gli armenti;
si posano insieme sui
campi cruenti
d'un volgo disperso che
nome non ha.
|
|
Osserva acutamente Giulio Dolci
che il metro usato (tronchi e
rimati tra loro i versi terzo e
sesto, piani e rimati a coppie
gli altri quattro) «...dà alla
poesia una solenne cadenza e
un'austera tristezza di ritmo».
E aggiunge, a commento del Coro:
«Appare finalmente nella
tragedia il popolo italiano, che
finora era stato rappresentato
soltanto da due ecclesiastici,
Pietro e Martino; e vi appare
con la sua fatale vicenda di
miseria e di servitù, dopo
splendori di ricchezza e orgogli
di grandezza, coi i suoi errori
e le sue debolezze, dopo tanta
saggezza ed energia, vi appare
con le sue non morte speranze
alimentate dalla grandezza delle
memorie. L'elemento politico
vince ogni altra considerazione:
è evidente che il Manzoni trae
dalla recente esperienza e
dall'attuale situazione d'Italia
la materia della sua meditazione
poetica; la quale gli si foggia
con plastica evidenza che direi
alfieriana o foscoliana, tanta è
vibrante la carità della patria,
il desiderio della sua
grandezza, tanto è fremente,
anche se volutamente velato, il
fremito di ribellione
all'ingiustizia della sorte e
degli uomini».
Il quarto atto è in gran parte
dominato dalla figura di
Ermengarda, che trascina ormai
la sua pena in un corpo cadente
nel monastero di cui la sorella
è badessa. Le suore l’hanno
condotta in giardino per farle
ancora una volta mirare il cielo
della sua patria. L’infelice
affida ad Ansberga i suoi ultimi
messaggi d’amore che son per il
padre e per il fratello, ma
anche per... Carlo. Ella perdona
allo sposo tutto il male che le
ha fatto e dall’alto del cielo
pregherà anche per lui. Ansberga
vuole rincuorarla e cerca di
allontanare dalla sua mente
l’idea della morte imminente:
l’invita a farsi suora, a
dimenticare, a ritrovare la pace
nella calma del chiostro. Ma
come potrebbe Ermengarda, che
ancora ama il suo Carlo e
ancora... spera, tradire il
Signore con una falsa promessa?
Ansberga insiste: a che sperare,
se il malvagio “di nuove inique
nozze si fe' reo?”. A questa
notizia, così incautamente
rivelatale, Ermengarda sviene ed
inizia il delirio della morte.
In un barlume di lucidità,
chiede alle suore di riportarla
a letto e qui dolcemente si
spegne, “col tremolo sguardo
cercando il ciel”.
A questo punto si colloca il
secondo Coro della tragedia, che
consente al Poeta di
approfondire ulteriormente il
dramma della segreta pena
d'amore che non ha mai
abbandonato la “pia” Ermengarda,
ma anche di meditare sull’antica
legge del destino che vuole che
le colpe dei padri ricadano sui
figli. Sì, ma la sventura
toccata agli innocenti è come
mandata dal Cielo per sottrarli
appunto ad un più severo
giudizio che rimbomberà in
eterno. E perciò il Manzoni può
dire ad Ermengarda con tutta
certezza:
|
Te della rea progenie
degli oppressor discesa,
................................
te collocò la provida
sventura in fra gli
oppressi:
muori compianta e
placida;
scendi a dormir con
essi:
alle incolpate ceneri
nessuno insulterà. |
|
«Ora la trasfigurazione di
Ermengarda - osserva il Busetto
- è giustificata: nella santità
del suo dolore, straniatasi
dalla sua schiatta perversa,
accolta come una sorella dalle
vittime degli avi e de' padri
suoi, scende nel sepolcro
circonfusa di serenità
verginale, tra l'universale
compianto delle folle misere e
oppresse».
L’ultima parte dell’atto ci
porta invece a Pavia ove il
Conte Gundigi, preposto alla
difesa della città ed alla
protezione del re Desiderio, si
accorda con Svarto per
arrendersi al re Carlo.
Nel quinto atto si conclude il
dramma dei re longobardi: nel
palazzo reale di Verona i duchi
annunziano ad Adelchi che Carlo,
nelle cui mani son caduti Pavia
e Desiderio, chiede la resa
dell’ultimo baluardo longobardo.
La scena si sposta poi nel campo
dei Franchi ove Desiderio prega
inutilmente il re Carlo di
lasciare libero Adelchi che non
ha colpa di quella guerra. Ma
giunge la notizia della resa di
Verona che è stata difesa da
pochi prodi guidati da Adelchi:
questi è mortalmente ferito e
chiede di venire al cospetto del
padre e di re Carlo. Segue un
commosso dialogo fra padre e
figlio. Quest’ultimo implora
Carlo, ottenendone solenne
promessa, che la prigionia del
padre non sia grave e che il
vecchio non debba soffrire gli
insulti dei traditori. Lasciati
soli nella tenda di Carlo, padre
e figlio consumano il proprio
destino:
ADELCHI |
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DESIDERIO |
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O Re de' re tradito
da un tuo Fedel, dagli
altri abbandonato!...
Vengo alla pace tua:
l'anima stanca
accogli. |
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Ei t'ode: oh ciel! tu
manchi! ed io...
in servitude a piangerti
rimango.
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«La felicità, impossibile per
Adelchi - scrive il Momigliano -
e strappata ad Ermengarda, li
aspetta dopo la tempesta della
vita. Le due anime grandi della
gente longobarda salgono,
morendo, dov'è il termine d'ogni
martirio: rimangono in terra, a
soffrir la servitù che hanno
meritato opprimendo gli
Italiani, tutti gli altri,
impersonati in Desiderio
spodestato».
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