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 Autore Luigi De Bellis   
     

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ALESSANDRO MANZONI

LE TRAGEDIE


Caratteri generali

Il Manzoni compose due tragedie, entrambe d’argomento storico, in cinque atti, in endecasillabi sciolti. La prima, “
Il Conte di Carmagnola”, fu scritta tra il 1816 ed il 1820 e rappresentata una sola volta a Firenze nel 1828; la seconda, “Adelchi”, fu scritta tra il 1820 ed il 1822 e rappresentata senza successo a Torino nel 1843, a Napoli nel 1873, a Milano nel 1874, e, con un certo successo, in tempi a noi più vicini e precisamente a Milano nel 1938 ed a Roma nel 1960. La realtà è che queste tragedie sono state scritte più per essere lette che per essere rappresentate, dal momento che il Manzoni difettava di una vera ispirazione tragica, di temperamento tragico, e non aveva esperienza di teatro. Certamente l’ “Adelchi” è opera di grande rilievo poetico, ma va intesa piuttosto come un “poema storico”.

A dispetto tuttavia di questa sua scarsa attitudine verso il teatro e la tragedia, il Manzoni volle cimentarsi in queste due opere anzitutto per dichiarare la sua convinzione circa l’utilità della tragedia (da non pochi autorevoli letterati e filosofi messa in dubbio) e poi per dare l'esempio di una tragedia romantica e moderna del tutto affrancata dalla tradizione classica, e principalmente dalle regole pseudo-aristoteliche. Ci sembra utile riportare due stralci della “Prefazione” al “Conte di Carmagnola” per avere dalla viva voce dell’Autore le sue opinioni circa le unità di tempo e di luogo e circa l’utilità della tragedia:
 

 

«Tra i vari espedienti che gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de' più ingegnosi è quello d'avere quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute ugualmente come infallibili. Applicando quest'uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi dicono a chi la esercita: siate originali, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato l'esempio. Questi comandi che rendono difficile l'arte più di quello che è già, levano anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione d'un lavoro poetico; quand'anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui s'espone sempre l'apologista de' suoi propri versi...

 
     
  L'unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole fondate nella ragione dell'arte, né connaturali all'indole del poema drammatico: ma sono venute da una autorità non bene intesa, e da princìpi arbitrari; ciò risulta evidente a chi osservi la genesi di esse.  
     
  L'unità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un'azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. L'unità di tempo ebbe origine da un passo di Aristotele, il quale, come benissimo osserva il signor Schlegel, non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele avesse realmente inteso di stabilire un canone dell’arte, questa sua frase avrebbe il doppio inconve­niente di non esprimere un'idea precisa, e di non essere accompagnata da alcun ragionamento.  
     
  Quando poi vennero quelli che, non badando all'autorità domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero trovarne che una, ed è: che, assistendo lo spettatore realmente alla rappresentazione di un'azione, diventa per lui inverosimile che le diverse parti di questa avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre lui sa di non essersi mosso di luogo, e d'avere impiegate solo poche ore ad osservarla. Questa ragione è evidentemente fondata su un falso supposto, cioè che lo spettatore sia lì come parte dell'azione quando è, per così dire, una mente estrinseca che la contempla. La verosimiglianza non deve nascere in lui dalle relazioni dell'azione col suo modo attuale di essere, ma da quella che le varie parti dell'azione hanno tra di loro. Quando si considera che lo spettatore è fuori dell' azione, l'argomento in favore delle unità svanisce...»  
     
  «...una questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt'altro che sciolta... è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché il pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la quale sussistono le proteste di Nicole, di Bossuet e di G. G. Rousseau, il di cui nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire due punti: uno che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali; l'altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l'arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perché essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in genere. Mi pare che siano stati in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che quello seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado d'interesse e immune dagl'inconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall'essergli contrario.»  


Una novità singolare nelle tragedie manzoniane è data dalla presenza dei Cori, uno al termine del secondo atto del “Carmagnola” (“S'ode a destra uno squillo di tromba”) e due nell’ “Adelchi”, precisamente al termine del III atto (“Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti”) e dopo la prima scena del IV atto (“Sparsa le trecce morbide”). Questi cori non sono la riproposizione dei cori dell’antica tragedia greca, dai quali si differenziano nettamente, ma rappresentano come una pausa di raccoglimento durante lo svolgimento del dramma, un momento di riflessione sugli avvenimenti rappresentati, uno sforzo per penetrare nel significato più riposto delle vicende e trarne un insegnamento morale: è un mezzo per semplificare al lettore od allo spettatore la strada che conduce allo scopo che si ripropone l’Autore, quello “scopo morale” capace di contraddire l’opinione negativa del Rousseau circa l’utilità della tragedia.

Ma diamo ancora una volta la parola al Manzoni stesso (sempre dalla Prefazione al “Carmagnola”):
 

 

«Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio, o un enigma. Non posso meglio spiegarne l'intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: “Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de' pensieri morali che la azione ispira, come l'organo de' sentimenti del poeta che parla in nome dell'intera umanità”. E poco sotto: “Vollero i Greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa dell'umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale: esso temperava l'impressioni violente e dolorose d'un'azione qualche volta troppo vicina al vero; e, riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza di un'espressione lirica e armonica, e le conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione”. Ora m'è parso che, se i Cori dei Greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito inserendo degli squarci lirici composti sull'idea di que' Cori. Se l' essere questi indipendenti dall'azione e non applicati ai personaggi li priva d'una gran parte dell'effetto che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d'uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d'essere senza inconvenienti: non essendo legati con l'orditura dell'azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che essi siano destinati alla lettura: e prego il lettore di esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perché il progetto mi sembra poter esser atto a dare all'arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d'influenza morale.»

 


 
“ll Conte di Carmagnola”


Il Conte di Carmagnola”, oltre che dalla “Prefazione” di cui abbiamo riportato dei brani, è preceduta da “Notizie storiche” sul protagonista e sugli avvenimenti che fanno da soggetto della tragedia.

Francesco Bussone nacque intorno al 1390 da un contadino e da bambino fu avviato a pascolare le pecore. Un soldato di ventura si imbatté in lui per puro caso e, rimasto colpito "dall'aria fiera del suo volto", gli propose di seguirlo al servizio del celebre condottiero mercenario Facino Cane. Il giovinetto acconsentì e ben presto si mise in luce per coraggio e determinazione, tanto da fare una rapida carriera militare. Si segnalò soprattutto al servizio di Filippo Maria Visconti, della cui potenza fu il principale artefice, sicché il duca lo nominò condottiero del suo esercito, gli conferì il titolo di Conte di Castelnuovo, gli consentì le nozze con Antonietta Visconti e gli permise di costruirsi un palazzo in Milano. La crescente potenza anche politica del Bussone venne però in sospetto del duca che tentò -a ciò spinto anche da non pochi cortigiani gelosi dell'ascesa del Carmagnola- di liberarsi di lui mandandolo governatore disarmato a Genova. Il Conte accettò l'incarico ma si rifiutò di rinunziare al comando delle milizie, ben prevedendo che quello sarebbe stato l'inizio d'una sua totale emarginazione dalla vita del ducato. Tentò di far desistere Filippo, ma visto inutile ogni tentativo, decise di abbandonarlo e di offrire il suo servizio prima al Duca Amedeo di Savoia e poi alla Repubblica di Venezia, tradizionali nemici dei Visconti. Fu Venezia ad accettarlo anche perché era allora in discussione un'alleanza coi Fiorentini per far guerra ai Visconti. Forse la guerra fu decisa proprio perché i Veneziani nutrivano grosse speranze di successo sull'abilità di condottiero del Carmagnola e sull'odio che questi aveva accumulato contro il suo vecchio signore. Ma nella battaglia di Maclodio, vittoriosa per il Carmagnola, questi mandò liberi, com'era usanza dei capitani di ventura, tutti i prigionieri, facendo sorgere il sospetto di essere ancora sentimentalmente legato ai vecchi compagni d'arme. Alcuni successivi insuccessi di lieve entità alimentarono i sospetti circa un qualche suo disegno di riconciliazione col Visconti a tutto danno della Repubblica e perciò i Veneziani decisero di intervenire senza mezzi termini e stroncare sul nascere l'eventuale tentativo di diserzione: invitato il Conte a lasciare temporaneamente l'esercito e venire a Venezia per discutere circa una eventuale pace da proporre al Visconti, lo catturarono di sorpresa, lo accusarono di tradimento e lo condannarono alla decapitazione. Gli storici non dispongono di documenti certi per giudicare le reali intenzioni del Carmagnola e dovendo procedere, per così dire, ad un'istruttoria indiziaria, si sono naturalmente divisi in colpevolisti ed innocentisti. Il Manzoni si è schierato dalla parte di questi ultimi ed ha tratteggiato il suo personaggio come la vittima di una infamante calunnia.

Il primo atto della tragedia ci porta nella sala delle riunioni del Senato di Venezia, ove il doge Francesco Foscari mette in discussione se accettare l’alleanza proposta dai Fiorentini, se è conveniente dichiarare la guerra ai Milanesi e se è opportuno affidarne il comando al Carmagnola.

Uno dei capi del Consiglio dei Dieci, Marino, diffida apertamente della lealtà del Conte e scongiura di non affidare a lui la difesa della Repubblica, ma il doge è di avviso contrario anche in considerazione dell’attentato alla vita del Conte ordito dal Visconti e fortunosamente sventato, ed ottiene il voto favorevole dei senatori su tutti e tre i quesiti proposti. La scena si sposta poi in casa del Carmagnola ove un senatore si reca per informare il Conte delle decisioni adottate e per avvertirlo della presenza di nemici occulti.

Nel secondo atto, la prima parte si svolge nel campo dei Milanesi, ove i capi militari sono divisi sulla opportunità di attaccare il nemico o attendere una migliore occasione: vince il partito dei più giovani che vogliono lo scontro immediato. Nella seconda parte si passa nel campo dei Veneziani, ove il Carmagnola, con estrema calma e convinta certezza di vittoria, mette a punto il piano di battaglia e dà le ultime istruzioni ai suoi ufficiali.

A questo punto si inserisce il Coro che consente al Poeta di esprimere il suo giudizio morale su quella vicenda. La battaglia è iniziata e si fa presto assai violenta. Qual nemico straniero è venuto ad insanguinare le nostre belle contrade? - si domanda il Poeta -. Ma non sono stranieri! Gli uni e gli altri parlano lo stesso linguaggio e sono figli della stessa Terra. Ma se sono fratelli, chi per primo osò trarre il sacrilego brando? “Del conflitto esecrando / la cagione esecranda qual è?”. Il colmo della sventura è che quei contendenti non hanno motivo di odiarsi e la cagione di quella guerra neppure la sanno: “a dar morte, a morire / qui senz'ira ognun d'essi è venuto; / E venduto ad un duce venduto, / con lui pugna, e non chiede il perché”. E quando la battaglia volge al termine e si profila con chiarezza la vittoria d’uno dei due eserciti, un corriere monta a cavallo per recare la lieta notizia. Ma come può mai esser lieta codesta notizia se deve pur dire: “i fratelli hanno ucciso i fratelli”? E intanto lo straniero si affaccia dai monti e con sguardo sinistro di gioia conta compiaciuto le migliaia di morti e calcola quand’è che può scendere senza rischi a conquistare l’Italia. Il commento morale del Manzoni alle vicende della tragedia è troppo evidente per dover essere spiegato, ma ci preme ugualmente di sottolineare come, anche in questo Coro, il cuore e la mente del Manzoni superino la vicenda nazionale e considerino invece il problema della guerra e della sopraffazione in rapporto all’intera umanità:
 

  Tutti fatti a sembianza d'un solo,
figli tutti d'un solo Riscatto,
in qual ora, in qual parte del suolo,
trascorriamo quest'aura vital,
siam fratelli; siam stretti ad un patto:
maledetto colui che l'infrange,
che s'innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal!
 


Il terzo atto si svolge tutto nella tenda del Carmagnola, ma è anch’esso da dividere in due parti: nella prima ci si compiace della vittoria ottenuta sui Milanesi, mentre nella seconda si assiste ad uno scontro verbale fra il Carmagnola ed i Commissari preposti alla vigilanza dell’esercito per conto del governo veneziano: questi ultimi manifestano il loro disappunto per il rilascio dei prigionieri e pretendono che il condottiero dia l’ordine di inseguire il nemico fino a Milano; il Carmagnola risponde che il rilascio dei prigionieri rientra nelle consuetudini di guerra e che non è prudente inseguire il nemico senza essersi prima garantita la sicurezza alle spalle; e poi taglia corto, dicendo che gli lascino fare il suo mestiere di soldato in pace e che gli revochino pure l’incarico se nutrono sospetti sulla sua lealtà o sulle sue capacità.

Nel quarto atto il Gran Consiglio, dopo aver deciso di attirare con un tranello il Conte a Venezia per processarlo di tradimento, mette sotto accusa il senatore Marco per aver parlato in difesa del Carmagnola, suo amico. Marco è costretto a sottoscrivere un giuramento che gli impone di non svelare al Conte i piani del Consiglio e riceve l’ordine di allontanarsi da Venezia e di recarsi a Tessalonica in missione. Prima di partire, medita dolorosamente su quella che ritiene una viltà nei confronti dell’amico, ma anche sui suoi doveri di senatore che gli impongono di custodire i segreti di stato senza cedere ai sentimenti personali. Il soliloquio di Marco è forse la pagina più bella di tutta la tragedia. La scena si sposta poi nella tenda del Conte che, ricevuto l’invito a recarsi a Venezia, l’accetta di buon grado nonostante le diffidenze e i timori manifestatigli dal fedele Gonzaga.

Anche il quinto ed ultimo atto si divide in tre parti: nella prima il Conte è ricevuto dal Gran Consiglio che, dopo aver discusso la pace per saggiare l’animo del condottiero, lo accusa di tradimento e lo dichiara in arresto; nella seconda il Gonzaga si reca in casa del Carmagnola per dare la triste notizia alla moglie ed alla figlia dello sventurato condottiero; nella terza il Conte riceve nella sua cella l’ultima visita delle due donne, che cerca di confortare, dando prova di estrema fierezza nell’accettare un supplizio che non lo scalfisce minimamente nell’intimo, avendo egli conservata intatta e pura la propria coscienza.

«Il nucleo vitale della tragedia - afferma il Flora - è lo svolgimento della vicenda che conduce il Carmagnola ad una accettazione religiosa della morte, già tante volte sfidata sui campi di battaglia per una sfida mondana: il trapasso da un sentimento guerriero a un sentimento di suprema pace. Su questo dramma si leva il Coro in cui il poeta esprime la tragedia italiana dei popoli fratricidi, riconducendo anche quella alla contemplazione ultima della morte, al giudizio di Dio... La più intima verità poetica di questa tragedia s'è veduta nello svolgimento del protagonista e nel coro che sovrasta a tutte le scene come un cielo in presagio di tempesta. Non la gelida parte del Doge o magari l'eloquenza di Marino, primo a diffidare del conte: non l'insidia per la quale la Repubblica trae il Carmagnola a morte hanno vera virtù di contrasto drammatico: sono soltanto i modi accennati attraverso i quali il Carmagnola svolgerà la sua dura esperienza e risentirà il richiamo di Dio. E qui il poeta trova il suo limpido tono».

L' “Adelchi”
Anche la tragedia “Adelchi” è preceduta da “Notizie storiche” suddivise in “Fatti anteriori all'azione compresa nella tragedia”, “Fatti compresi nell'azione della tragedia” e “Usanze caratteristiche, alle quali si allude nella tragedia”. E ancora da una commossa dedica ad Enrichetta: «Alla diletta e venerata sua Moglie - Enrichetta Luigia Blondel - la quale insieme con le affezioni coniugali e con la sapienza materna poté serbare un animo verginale consacra questo Adelchi - l'Autore - dolente di non potere a più splendido e a più durevole monumento raccomandare il caro nome e la memoria di tante virtù».

Nelle notizie storiche l'Autore risale all'anno 568, quando il popolo dei Longobardi, guidato dal re Alboino, abbandona la Pannonia e si stanzia in Italia su terre sottratte alla giurisdizione dell'Impero Romano d'Oriente, cioè dei Bizantini. Da quell'anno il dominio dell’Italia è grosso modo ripartito fra il re dei Longobardi, l'imperatore d'Oriente ed il Pontefice, che hanno per loro sede ufficiale rispetti­vamente Pavia, Ravenna (ove risiede l'Esarca che governa in nome dell' Imperatore) e Roma. Da allora fra i Longobardi ed il Pontefice i rapporti sono stati difficili, i primi invadendo spesso i territori del secondo, questi invocando ogni volta l'aiuto dei Franchi.

La situazione non mutò quando, alla morte del re Astolfo, fu eletto re dei Longobardi, nel 756, il duca di Brescia Desiderio, benché questi avesse avuto l'appoggio del papa Stefano II in cambio della promessa di restituzione delle terre sottratte al papa da Astolfo. Intanto in Francia, morto Pipino, il regno fu diviso fra i suoi figli Carlo e Carlomanno e, alla morte di quest’ultimo, riunificato da Carlo sotto il suo scettro a scapito dei due figli del fratello (che, insieme con la madre Gerberga, si rifugiarono presso la corte di Desiderio). I rapporti tra Carlo (il futuro Carlo Magno) e Desiderio, che sembravano aver trovato un qualche equilibrio dopo le nozze del re di Francia con Desiderata o Ermengarda, figlia di Desiderio, si rifecero drammatici allorché Carlo ripudiò la moglie per sposare Ildegarde, di nazionalità sveva. Di ciò approfittarono Paolo I e Stefano III, successori del papa Stefano II, per invocare nuovamente l'aiuto dei Franchi contro Desiderio, il quale non solo non aveva restituito i territori promessi, ma ne aveva sottratti ancora altri al papato. Ma è il papa Adriano I ad ottenere l’ultimo decisivo intervento da parte dei Franchi.

Carlo decide la guerra e nel 772 scende in Italia. Dopo due anni, anche con l'aiuto di traditori longobardi, riesce vincitore: Desiderio, fatto prigioniero, è relegato in un monastero francese ove trascorre santamente gli ultimi anni di vita; suo figlio Adelchi, che resisteva in Verona, si rifugia a Costantinopoli, ove è accolto con grandi onori, e pochi anni dopo torna al comando di un esercito greco per combattere i Franchi e trovare la morte sul campo; Ermengarda si ritira in convento e morirà di crepacuore. Sono questi i fatti inclusi nella tragedia, con qualche libertà di cui lo stesso Manzoni ci avverte in un passo delle "Notizie storiche", che è forse opportuno riportare testualmente per una nota che riguarda "la parte morale". Ecco il brano:

«Nella tragedia, la fine di Adelchi si è trasportata al tempo che uscì da Verona. Questo anacronismo, e l'altro d'aver suppos­ta Ansa [moglie di Desiderio] già morta prima del momento in cui comincia l'azione (mentre in realtà quella regina fu condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì), sono le due sole alterazioni essenziali fatte agli avvenimenti materiali e certi della storia.

Per ciò che riguarda la parte morale, s'è cercato d'accomodare i discorsi dei personaggi all'azioni loro conosciute, e alle circostanze in cui si sono trovati. Il carattere però d'un personaggio, quale è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti storici: i disegni di Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue inclinazioni, tutto il carattere in somma è inventato di pianta, e intruso tra i caratteri storici, con una infelicità, che dal più difficile e dal più malevolo lettore non sarà, certo, così vivamente sentita come lo è dall' autore.»

Il primo atto si svolge quasi interamente nel palazzo reale di Pavia ove lo scudiero Vermondo annunzia ai due re (Desiderio ha associato al governo regale il figlio Adelchi) l’imminente arrivo della ripudiata Ermengarda. Nelle prime battute già si delineano le due diverse fisionomie di Desiderio e di Adelchi: fiero, risoluto, vendicativo e intransigente il primo; non meno fiero e risoluto, ma prudente e d’animo equo il secondo. Desiderio è impaziente di scontrarsi con Carlo per fargli pagare l’oltraggio del ripudio, ma Adelchi calcola realisticamente i rischi di una guerra che li trova circondati da sudditi pronti al tradimento e che egli ritiene oltretutto ingiusta per il suo popolo che si è reso colpevole di aver invaso i territori del papa. Quando però Desiderio mette in dubbio il suo onore di soldato e la sua lealtà di figlio, allora non esita a dichiararsi pronto a misurarsi nelle armi con Carlo per vendicare l’oltraggio sofferto dalla cara sorella, e fa dono al padre di tutta intera la sua volontà: «O padre! / Un nemico si mostra, e tu mi chiedi / ciò ch'io farò? Più non son io che un brando / nella tua mano». Poche battute bastano al Manzoni per tratteggiare il carattere dell’infelice Ermengarda: delusa nelle sue più affettuose speranze, non riesce tuttavia a sopire l’ardente amore che la legò a Carlo, su cui teme la vendetta paterna; sa che non potrà più amare nessun altro uomo e chiede licenza di poter dedicare il resto della vita “a quello Sposo che non mai rifiuta”, raggiungendo la sorella Ansberga nel monastero di S. Salvatore in Brescia (che fu fondato dalla madre, la regina Ansa). Nel frattempo giunge un legato di Carlo che impone a Desiderio di abbandonare le terre del papa. E' un ultimatum. Al rifiuto del re, il legato ha l’ordine di dichiarargli guerra a nome di Carlo. L’atto si conclude in casa di Svarto, un oscuro soldato ma ambizioso e pronto a tutto pur d’emergere, ove si riuniscono segretamente alcuni duchi longobardi che già meditano di accordarsi con Carlo (come aveva ben previsto il prudente Adelchi).

Il secondo atto ci porta in un’epoca molto più avanzata, nel campo dei Franchi in Val di Susa. Il re Carlo è sfiduciato e dispera di poter mai superare le barriere delle Chiuse, che presentano ostacoli naturali e difese artificiali pressoché insormontabili. Annuncia quindi la sua decisione di rinunziare all’impresa nonostante le esortazioni del legato pontificio, quand’ecco che gli si presenta il diacono Martino, messo del Vescovo di Ravenna, che gli dice d’esser giunto al suo campo per un varco sconosciuto ai Longobardi e praticabile da un esercito. Dice anche che i Longobardi sono sprovvisti di difesa alle loro spalle. L’arrivo di Martino sembra a Carlo un soccorso e un invito della Divina Provvidenza per proseguire nella guerra e, rincuoratosi, dà immediatamente le necessarie disposizioni per muovere il campo ed assalire il nemico alle spalle.

Nel terzo atto è di scena il campo dei Longobardi, ove si immagina che la smobilitazione del campo nemico sia dovuta a disegni di ritirata. Si pregusta la vittoria e Desiderio loda con commosse parole l’eroismo di Adelchi, salvatore della patria. All’improvviso la catastrofe: un soldato trafelato annunzia che i Franchi hanno assalito l’accampamento in gran forza alle spalle ed hanno preso i Longobardi alla sprovvista: i soldati fuggono in cerca di scampo e non c'è modo di trattenerli per organizzare una difesa, per altro certamente inutile. Adelchi non si rassegna e corre fra i suoi, ma ogni tentativo di ripresa è vano. In un bosco solitario incontrerà il vecchio padre fuggente e si porrà al suo fianco per proteggerne la vita. Intanto Carlo, nel campo longobardo ormai conquistato, riceve l’omaggio dei duchi traditori, ai quali suggerisce di persuadere tutto il popolo dei Longobardi ad accettare il nuovo re, che è venuto solo per scalzare dal trono una famiglia indegna del Cielo: chi gli consegnerà Desiderio ed Adelchi avrà una lauta ricompensa: nomina intanto Svarto Conte di Susa! Quindi congeda i suoi nuovi “prodi fedeli”, ma, appena i traditori vanno via, rivolto ad un suo Conte, dice amaramente: «Rutlando, ho io chiamati prodi costor? errato ha il labbro del re. Questa parola ai Franchi miei in guiderdon la serbo. Oh! possa ognuno dimenticar ch'io proferita or l'abbia». E invece rende sincero onore al morente Anfrido, scudiero di Adelchi, che ha cercato la morte in battaglia e, prima di spirare, trova la forza di esprimere al vincitore un ultimo pensiero d’amore per il suo signore:
 

  Al ciel diletto
è Adelchi, o re. Da questo giorno infame
trarrallo il ciel, lo spero, e ad un migliore
vorrà serbarlo: ma, se mai... rammenta
che, regnante o caduto, è tale Adelchi,
che chi l'offende, il Dio del ciel offende
nella più pura immagin sua. Lo vinci
tu di fortuna e di poter, ma d'alma
nessun mortale: un che si muor tel dice.
 


Al termine del terzo atto il Manzoni collocò il primo Coro. Sono undici strofe di sei versi dodecasillabi ciascuna. Il poeta immagina di vedere il “volgo disperso” degli Italiani aprirsi alla speranza di liberarsi dei padroni longobardi con l’aiuto dei Franchi, ma li ammonisce severamente:
 

  Udite! Quei forti che tengono il campo,
che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
son giunti da lunge, per aspri sentier:
.....................................................
Si vider le lance calate sui petti,
a canto agli scudi, rasente agli elmetti
udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
d'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
all'opere imbelli dell'arse officine,
ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
col novo signore rimane l'antico;
l'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
si posano insieme sui campi cruenti
d'un volgo disperso che nome non ha.
 


Osserva acutamente Giulio Dolci che il metro usato (tronchi e rimati tra loro i versi terzo e sesto, piani e rimati a coppie gli altri quattro) «...dà alla poesia una solenne cadenza e un'austera tristezza di ritmo». E aggiunge, a commento del Coro: «Appare finalmente nella tragedia il popolo italiano, che finora era stato rappresentato soltanto da due ecclesiastici, Pietro e Martino; e vi appare con la sua fatale vicenda di miseria e di servitù, dopo splendori di ricchezza e orgogli di grandezza, coi i suoi errori e le sue debolezze, dopo tanta saggezza ed energia, vi appare con le sue non morte speranze alimentate dalla grandezza delle memorie. L'elemento politico vince ogni altra considerazione: è evidente che il Manzoni trae dalla recente esperien­za e dall'attuale situazione d'Italia la materia della sua meditazione poetica; la quale gli si foggia con plastica evidenza che direi alfieriana o foscoliana, tanta è vibrante la carità della patria, il desiderio della sua grandezza, tanto è fremente, anche se volutamente velato, il fremito di ribellione all'ingiustizia della sorte e degli uomini».

Il quarto atto è in gran parte dominato dalla figura di Ermengarda, che trascina ormai la sua pena in un corpo cadente nel monastero di cui la sorella è badessa. Le suore l’hanno condotta in giardino per farle ancora una volta mirare il cielo della sua patria. L’infelice affida ad Ansberga i suoi ultimi messaggi d’amore che son per il padre e per il fratello, ma anche per... Carlo. Ella perdona allo sposo tutto il male che le ha fatto e dall’alto del cielo pregherà anche per lui. Ansberga vuole rincuorarla e cerca di allontanare dalla sua mente l’idea della morte imminente: l’invita a farsi suora, a dimenticare, a ritrovare la pace nella calma del chiostro. Ma come potrebbe Ermengarda, che ancora ama il suo Carlo e ancora... spera, tradire il Signore con una falsa promessa? Ansberga insiste: a che sperare, se il malvagio “di nuove inique nozze si fe' reo?”. A questa notizia, così incautamente rivelatale, Ermengarda sviene ed inizia il delirio della morte. In un barlume di lucidità, chiede alle suore di riportarla a letto e qui dolcemente si spegne, “col tremolo sguardo cercando il ciel”.

A questo punto si colloca il secondo Coro della tragedia, che consente al Poeta di approfondire ulteriormente il dramma della segreta pena d'amore che non ha mai abbandonato la “pia” Ermengarda, ma anche di meditare sull’antica legge del destino che vuole che le colpe dei padri ricadano sui figli. Sì, ma la sventura toccata agli innocenti è come mandata dal Cielo per sottrarli appunto ad un più severo giudizio che rimbomberà in eterno. E perciò il Manzoni può dire ad Ermengarda con tutta certezza:
 

  Te della rea progenie
degli oppressor discesa,
................................
te collocò la provida
sventura in fra gli oppressi:
muori compianta e placida;
scendi a dormir con essi:
alle incolpate ceneri
nessuno insulterà.
 


«Ora la trasfigurazione di Ermengarda - osserva il Busetto - è giustificata: nella santità del suo dolore, straniatasi dalla sua schiatta perversa, accolta come una sorella dalle vittime degli avi e de' padri suoi, scende nel sepolcro circonfusa di serenità verginale, tra l'universale compianto delle folle misere e oppresse».

L’ultima parte dell’atto ci porta invece a Pavia ove il Conte Gundigi, preposto alla difesa della città ed alla protezione del re Desiderio, si accorda con Svarto per arrendersi al re Carlo.

Nel quinto atto si conclude il dramma dei re longobardi: nel palazzo reale di Verona i duchi annunziano ad Adelchi che Carlo, nelle cui mani son caduti Pavia e Desiderio, chiede la resa dell’ultimo baluardo longobardo. La scena si sposta poi nel campo dei Franchi ove Desiderio prega inutilmente il re Carlo di lasciare libero Adelchi che non ha colpa di quella guerra. Ma giunge la notizia della resa di Verona che è stata difesa da pochi prodi guidati da Adelchi: questi è mortalmente ferito e chiede di venire al cospetto del padre e di re Carlo. Segue un commosso dialogo fra padre e figlio. Quest’ultimo implora Carlo, ottenendone solenne promessa, che la prigionia del padre non sia grave e che il vecchio non debba soffrire gli insulti dei traditori. Lasciati soli nella tenda di Carlo, padre e figlio consumano il proprio destino:
 

ADELCHI   DESIDERIO
     
O Re de' re tradito
da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!...
Vengo alla pace tua: l'anima stanca
accogli.
  Ei t'ode: oh ciel! tu manchi! ed io...
in servitude a piangerti rimango.


«La felicità, impossibile per Adelchi - scrive il Momigliano - e strappata ad Ermengarda, li aspetta dopo la tempesta della vita. Le due anime grandi della gente longobarda salgono, morendo, dov'è il termine d'ogni martirio: rimangono in terra, a soffrir la servitù che hanno meritato opprimendo gli Italiani, tutti gli altri, impersonati in Desiderio spodestato».

 

© 2009 - Luigi De Bellis