Un giovane
trovatore arde segretamente
d'amore per la signora del
castello in cui vive e
incautamente affida al canto la
sua passione. Il signore del
castello lo sente e solo le
suppliche della moglie riescono
a placare la sua gelosia. Ma il
trovatore viene cacciato e da
allora vaga solo e malinconico,
precocemente invecchiato, per la
foresta.
Il componimento è un tipico
prodotto di quella "scuola
romantica" di cui Berchet fu tra
i massimi esponenti. Costruito
su uno sfondo medievale, ma di
quel Medioevo riveduto e
corretto dal primo Ottocento e
tutto contesto di elementi
languidi e sentimentali, esso
piacque non poco quando fu
pubblicato, perché andava
incontro al gusto dell'epoca e
perché sviluppava il tema
dell'esilio, molto sentito in
quegli anni. Non mancò chi,
anzi, interpretò il componimento
in chiave allegorica, trovandovi
implicazioni politiche: la
castellana sarebbe l'Italia, il
signore cinico e geloso sarebbe
l'Austria e il trovatore sarebbe
il patriota che paga con
l'esilio il suo amore per la
patria. Ma una simile
interpretazione, che per altro
spiega bene le tendenze
dell'epoca, è piuttosto forzata
e sovraccarica la lirica di
inutili significati, togliendole
gran parte del suo fascino, che
è, al di là delle problematiche
politiche, legato a un generico,
ma non per questo meno vero,
senso di malinconia per la
lontananza dai luoghi cari al
proprio cuore.
Dal punto di vista espressivo,
tutto concorre a creare
un'atmosfera di abbandono
sentimentale che è in linea con
questa stagione del Romanticismo
italiano: l'ambientazione
medievale, la «selva bruna», lo
struggimento per un amore
impossibile e, soprattutto,
l'utilizzo di termini ed
espressioni anche popolari della
tradizione amorosa e la grande
musicalità dei versi,
apertamente cantabili con le
loro pause, le loro riprese e le
loro facili rime.
Metro: romanza costituita da
dodici strofette di quattro
versi, di cui i primi tre sono
settenari e il quarto un
quinario: il primo e l'ultimo
verso di ogni strofa rimano tra
loro; il secondo e il terzo
rimano anch'essi tra loro sulla
rima tronca -or che si ripete
per tutte le strofe.
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Va per la selva bruna
solingo il trovator
domato dal rigor
della fortuna. |
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la prima quartina mette subito a
fuoco la forte componente
romantica che caratterizza la
lirica: le varie immagini e i
singoli termini, infatti, hanno
la funzione di creare una
atmosfera patetica, carica di
suggestioni sentimentali: così
la «selva bruna», che è un luogo
tipico della letteratura
romantica, suggerisce l'idea di
un paesaggio cupo e triste, in
cui si aggira «solingo»
solitario come tutti gli eroi
romantici - il personaggio del
trovatore (altra figura cara ai
poeti romantici per i suoi
tratti popolari e
pseudomedievali), che,
ovviamente, è vittima del «rigor
/ della fortuna», cioè, sempre
come gli eroi romantici, della
crudeltà di un destino avverso.
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La faccia sua sì bella
la disfiorò il dolor;
la voce del cantor
non è più quella. |
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Il dolore che ha patito ha fatto
avvizzire la sua giovinezza,
facendo sfiorire la sua
bellezza. (La precisazione, in
sé piuttosto banale, ha una
musicalità molto intensa che la
riscatta sul piano espressivo).
La sventura patita ha reso
diverso anche il canto del
trovatore, che ora,
evidentemente, non è più gaio e
spensierato, ma accorato e
malinconico.
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Ardea nel suo segreto;
e i voti, i lai, l'ardor
alla canzon d'amor
fidò indiscreto. |
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Dopo il preludio, costituito
dalle due quartine iniziali, che
pone davanti agli occhi del
lettore la triste condizione del
trovatore, il poeta, nelle
quartine centrali del
componimento, rievoca la vicenda
che ha determinato l'infelicità
e la tristezza del personaggio:
e, naturalmente, quella vicenda
altro non è che un amore
impossibile, l'amore, «segreto»,
del trovatore per la padrona del
castello in cui viveva. La
descrizione del sentimento
provato dal giovane e
dell'imprudenza che ha commesso
cantando il suo stato d'animo
nei suoi versi, si avvale dei
termini tipici del linguaggio
amoroso medievale: «Ardea»,
«voti», «lai».
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Dal tàlamo inaccesso
udillo il suo signor: |
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dal letto nuziale, dalle stanze
nuziali in cui nessun estraneo
era mai entrato, il signore del
castello in cui il trovatore
viveva sentì il canto del
trovatore.
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l'impròvvido cantor
tradì se stesso. |
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L'imprudenza del «cantor»
consiste nel fatto di avere
cantato il proprio amore nei
suoi versi e di essersi così
tradito: infatti, il signore del
castello, marito della donna
segretamente amata dal
trovatore, sente la canzone e
capisce il sentimento che l'uomo
prova.
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Pei dì del giovinetto
tremò alla donna il cor
ignara fino allor
di tanto affetto. |
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La donna, dunque, non sapeva
dell'amore che l'uomo, «nel suo
segreto», nutriva per lei, e ora
che ne è venuta a conoscenza,
essa prova nei suoi riguardi
solo un senso di pietà; tutta la
situazione è perfettamente in
linea con le teorie del' "amor
cortese" del periodo medioevale.
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E sùpplice al geloso,
ne contenea il furor:
bella del proprio onor
piacque allo sposo. |
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La scena che descrive la donna
mentre intercede presso il
marito per salvare il trovatore
ha una sua casta intimità che,
però, è pesantemente soffocata
dal tono sentenzioso dei due
versi che concludono la strofa:
«bella del proprio onor /
piacque allo sposo».
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Rise l'ingenua. Blando
l'accarezzò il signor;
ma il giovin trovator
cacciato è in bando. |
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In questa strofa sono
eccezionalmente presenti tutti e
tre i personaggi e tutti e tre
con stati d'animo diversi; alla
ingenua serenità della donna che
è convinta di aver ottenuto ciò
che voleva si contrappone la
tenerezza soltanto formale del
marito che accontenta la moglie
ma nel contempo provvede a
punire il trovatore, e il
trovatore, ultimo a apparire in
scena, è appunto la vittima
infelice di questo
patteggiamento coniugale. La
strofa, comunque, è piuttosto
macchinosa.
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De' cari occhi fatali
i più non vedrà il
fulgor,
non berrà più da or
l'oblio de' mali. |
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La strofa riprende motivi e
espressioni del sentimentalismo
romantico («il fulgor» dei «cari
occhi fatali» che il trovatore
non vedrà più e da cui non
«berrà» più «l'oblio de' mali»),
ma la musicalità languida dei
versi solleva leggermente il
tono dell'insieme dalla
sostanziale banalità della
situazione.
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Varcò quegli atri muto
ch'ei rallegrava ognor
con gl'inni del valor,
col suo liuto. |
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Il momento dell'addio, descritto
con pochi tratti, ha una sua
suggestione, anche perché è
carico di tensione emotiva.
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Scese, varcò le porte,
stette, guardolle ancor: |
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scese le scale del castello e si
fermò un momento.
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e gli scoppiava il cor
come per morte. |
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L'espressione popolareggiante,
con la sua ingenua immediatezza,
accentuata drammaticità della
situazione suggerendo l'idea di
una pena senza conforto.
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Venne alla selva bruna:
quivi erra il trovator,
fuggendo ogni chiaror
fuor che la luna. |
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Torna il motivo del vagare
solitario e malinconico che
aveva aperto il componimento e
che ne costituisce il tema
centrale.
Il pallido «chiaror» della
«luna» è un luogo comune della
poesia romantica e aggiunge un
tocco di languore in più al
personaggio.
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La guancia sua sì bella
più non somiglia a un
fior;
la voce del cantor
non è più quella. |
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La ripresa, con variazioni
minime, della seconda quartina,
sigilla, su un ritmo lento e
pacato, il componimento che si
chiude così come in un sospiro
sommesso