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IL NEOCLASSICISMO
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VINCENZO MONTI
In Italia
il maggior esponente della
letteratura neoclassica fu
Vincenzo Monti.
Nato ad Alfonsine, in Romagna,
nel 1754, condusse a Fusignano i
primi studi, che proseguì poi
nel seminario di Faenza.
All’Università di Ferrara si
iscrisse alle facoltà di
medicina e giurisprudenza con
scarsi risultati, dato che la
sua vera passione era già la
poesia. E proprio nel campo
della poesia gli arrise subito e
abbondantemente la fortuna.
Infatti a soli 22 anni era già
abbastanza famoso per il
poemetto "Visione di
Ezechiello", il quale gli
procurò l’invito alla corte
romana di Pio VI. Qui visse per
circa venti anni fra onori e
agiatezza, finché non decise di
fuggire dalla città eterna
(1797) per seguire le vicende
fortunose di Napoleone. Fu a
Bologna e a Milano, sempre
onorato e ben remunerato dai
suoi nuovi padroni, ma quando,
nel 1799, nella città lombarda
tornarono gli Austriaci, fu
costretto a rifugiarsi a Parigi.
Dopo Marengo, ritornò con i
Francesi in Lombardia e fece
valere la sua posizione di
"fedele", riuscendo ad ottenere
prima la cattedra di eloquenza
all’Università di Pavia, poi la
carica di "poeta del governo
italiano" ed infine quella di
"storiografo del Regno" (1806).
Ma l’astro di Napoleone era
destinato al tramonto ed a
trascinare nella rovina i suoi
estimatori. A nulla valse il
repentino voltafaccia del Monti
che indirizzò ai nuovi vincitori
pagine di commosso e fervido
ossequio: gli Austriaci lo
punirono con l’oltraggio più
calzante alla sua presunzione,
ignorandolo completamente ed
emarginandolo da ogni carica
pubblica. Il Monti condusse
così, nella miseria e
nell’abbandono, l’ultimo
squarcio di esistenza,
confortato soltanto dall’amore
familiare della moglie, Teresa
Pikler, e della figlia,
Costanza, vedova del conte
Giulio Perticari, alle quali
dedicò quella che è forse
l’unica sua poesia sgorgatagli
sinceramente dal cuore: "Per il
giorno onomastico della mia
donna" (1826).
Morì a Milano il 13 ottobre
1828.
In quattro fasi si può dunque
dividere la sua esistenza e a
ognuna di esse fa riscontro un
particolare atteggiamento della
sua posizione politica e della
sua attività letteraria.
Nel periodo romano (1778-1797:
dell’Abate Monti) compose opere
esaltanti la personalità e la
politica di Pio VI ed ovviamente
denigratorie dei motivi, degli
avvenimenti e dei protagonisti
della Rivoluzione Francese,
anche se non mancarono opere per
così dire "neutre" dal punto di
vista politico (come d’altronde
nelle fasi successive):
- "Prosopopea
di Pericle"
(1779): ode ispiratagli dal
ritrovamento a Tivoli di un
busto di Pericle, nella quale si
immagina che il grande ateniese,
redivivo, visiti la Roma di Pio
VI e riconosca che l’età di
questo papa sia più felice di
quella antica che prende il nome
da lui;
- "Al
Signor di Montgolfier"
(1784): la più celebrata delle
odi del Monti scritta in
occasione dei primi voli con
l’aerostato;
- "Bassvilliana"
(1793): poema in terza rima,
incompiuto, contro gli orrori
della Rivoluzione Francese: si
immagina che Ugo Bassville,
diplomatico francese venuto a
Roma per diffondere le idee
rivoluzionarie ed ucciso dalla
plebaglia, pentitosi dei propri
errori, abbia ottenuto il
perdono da Dio, ma anche la
condanna di contemplare gli
eccessi dei rivoluzionari
francesi;
- "Musogonìa"
(1793-1799): poemetto in ottave,
incompiuto, nel quale si canta
l’opera civilizzatrice delle
Muse;
- "Feroniade"
(1784-1828): poemetto in
endecasillabi sciolti,
incompiuto, che fu forse l’opera
prediletta del Monti dato che vi
lavorò fino alla morte: fu
composto per esaltare il
progetto di prosciugamento delle
paludi pontine voluto da Pio VI,
ma si risolse in una splendida
favola mitologica.
La seconda fase (del cittadino
Monti) comprende gli anni
1797-1801, va cioè dalla fuga da
Roma, avvenuta nottetempo nella
carrozza del generale francese
Marmont, al forzato esilio
parigino, e comprende opere
antipapali, filo-francesi e
filo-rivoluzionarie (dopo,
ovviamente, il pubblico ripudio
della "Bassvilliana"):
- "Promèteo"
(1797): poema in quattro canti
per esaltare Napoleone,
comandante delle truppe francesi
in Italia, quale liberatore;
- "Inno per l’anniversario del
supplizio di Luigi XVI" (1799):
squallida rievocazione della
morte del re francese, ucciso
dalla ghigliottina dei
rivoluzionari e dal Monti
definito il "vile Capeto",
mentre nella "Bassvilliana",
l’uccisione del re era stata
vista come il martirio di un
innocente;
- Traduzione della "Pucelle d’Orléans"
del Voltaire (1800);
- "Mascheroniana"
o "In
morte di Lorenzo Mascheroni"
(1800): poemetto in terzine in
cui si immagina che l’anima del
grande poeta e scienziato,
salita in Paradiso, benché
attesa da Dante, Petrarca e
numerosi altri poeti e
scienziati, preferisca
appartarsi col Parini, al quale
racconta le gesta di Napoleone,
liberatore della Patria: durante
il suo racconto, per volontà
celeste, Napoleone viene
proclamato arbitro dei destini
del mondo.
La terza fase (del cavaliere
Monti) va dal rientro in Patria
dopo Marengo (1801) alla
sconfitta di Napoleone e
conseguente ritorno a Milano
degli Austriaci (1814). Durante
questi anni il Monti si
sbizzarrì negli elogi al
Bonaparte:
- "Beneficio"
(1804): poemetto in terzine
scritto in occasione della
incoronazione di Napoleone ad
Imperatore;
- "Bardo
della Selva Nera"
(1806): poema in sette canti in
cui un ufficiale francese ferito
ad Ulma e raccolto e curato da
un bardo (= poeta) tedesco,
racconta a costui le grandi
imprese di Napoleone dalla
campagna d’Italia al colpo di
stato del 18 brumaio 1799 (in
cui si passò dalla repubblica
direttoriale alla repubblica
consolare retta da tre consoli,
fra cui Napoleone, ma
praticamente governata dal solo
Bonaparte) e alla vittoria di
Austerlitz (1805);
- "Spada
di Federico II"
(1806): poema che esalta le
vittorie francesi sui Prussiani;
-
Traduzione dell’ "Iliade" di
Omero
(1810): che è il suo più
autentico capolavoro.
La quarta ed ultima fase è
quella che accompagna il declino
dell’uomo, che inutilmente
inneggia ai nuovi signori ed
impreca contro il vecchio, ormai
rinchiuso in Sant’Elena senza
speranza:
- "Mistico omaggio" (1815):
cantica composta in onore
dell’Arciduca Giovanni
d’Austria;
- "Su la mitologia" (1825):
sermone in versi per difendere
la mitologia dagli attacchi dei
primi romantici;
- "Per
il giorno onomastico della mia
donna Teresa Pikler"
(1826): canzone con cui il
Poeta, ormai prossimo a morire,
si accomiata dalla moglie e
dalla figlia, ringraziandole per
la loro devota fedeltà nel bene
e nel male.
Non vanno però dimenticati i
contributi che il Monti diede
più direttamente ai problemi
dottrinali del tempo, come le
sue lezioni al corso di
eloquenza tenuto all’Università
di Pavia, gli articoli comparsi
sulla "Biblioteca Italiana", il
ricco ed interessante
"Epistolario", la "Proposta di
alcune correzioni e aggiunte al
vocabolario della Crusca"
formulata in collaborazione col
genero Giulio Perticari. Ed
infine il melodramma "I
Pitagorici" non foss’altro
perché fu musicato dal grande
Paisiello.
Da quanto si è detto appare
chiaro che l’uomo Monti non ebbe
un carattere fermo né una
intelligenza coerente della vita
e del mondo. Se a questo si
aggiunge che i suoi frequenti e
repentini mutamenti di opinioni
furono sempre a favore del
vincitore di turno, è evidente
che la sua immagine venga
avvolta in un sinistro alone di
spregiudicatezza e di tornaconto
che il comune criterio di
valutazione morale non riesce a
tollerare e giustificare. Eppure
il Manzoni, buon conoscitore di
uomini e cose e geloso custode
della moralità civile e
politica, non espresse alcuna
riserva sul Monti ed anzi, in un
giudizio rivolto all’artista ma
che coinvolge anche l’uomo, gli
riconobbe "il cor di Dante e del
suo Duca il canto", volle cioè
paragonarlo nel sentimento al
"fiero" Dante e nello stile al
"soave e georgico" Virgilio. E
si badi che proprio il Manzoni,
nell’ode "5 maggio", mentre si
esime dall’esprimere un giudizio
su Napoleone ormai morto - e
quindi incapace di favori e di
vendette - e lascia ai posteri
"l’ardua sentenza", ci tiene a
distinguere la sua poesia dalle
altre "mille voci" che si erano
macchiate "di servo encomio e di
codardo oltraggio" (fra le
quali, ovviamente, non include
quella del Monti).
Fu quindi una tendenza assai
comune e diffusa esaltare i
vincitori e denigrare i
perdenti, tendenza che in parte
si spiega - se non si giustifica
- con la difficoltà psicologica
di accettare l’eccessiva
celerità e aggressività dei
fatti dell’epoca: si pensi che
nell’arco di un quarto di secolo
si passò dal regime monarchico
assolutistico tradizionale (cioè
inveterato e fatalisticamente
accettato dalle masse popolari)
al regime monarchico
assolutistico del Congresso di
Vienna e della Santa Alleanza
(sentito come un’ingiustizia
troppo palese e troppo gravosa
da sopportare), attraverso la
Rivoluzione Francese (che aveva
proclamato i "Diritti dell’Uomo
e del Cittadino", ma aveva anche
promulgato diversi esemplari di
Costituzioni liberali, ognuno
dei quali rifletteva le esigenze
del ceto sociale che si trovava
al momento a gestire la
rivoluzione) e attraverso
l’avventura di Napoleone (che da
rivoluzionario e liberatore
s’era fatto tiranno). Naturale
quindi che un temperamento un
po’ fragile - come certamente fu
quello del Monti - si
disorientasse facilmente in
tanta confusione
politico-sociale e si lasciasse
trasportare dalle onde delle
circostanze.
Ma l’atteggiamento politico del
Monti si spiega forse in modo
più radicale se si riflette sul
ruolo che egli intese svolgere
nella vita per naturale
vocazione. A noi sembra che il
Monti fosse sostanzialmente
distante mille miglia dalle
reali problematiche politiche e
fosse invece esclusivamente
intento a "realizzarsi" come
artista. Al di là delle
apparenze, forse a nessun poeta
neoclassico riuscì, come a lui,
di eludere psicologicamente i
fatti della realtà e librarsi,
fuori del tempo e dello spazio,
su di un magico "Olimpo", ove
fosse possibile rievocare i
fantasmi senza età della
Bellezza classica e farli
rivivere per il puro godimento
dello spirito. Tutto quello che
realmente accadeva intorno a lui
non lo interessava seriamente. A
ciò si aggiunga che la fortuna e
il favore, che accompagnarono la
sua attività artistica, lo
esaltarono a tal punto che egli
finì col considerarsi la "voce"
più alta del tempo e, quindi,
l’unica cui spettasse di
tramandare ai posteri le vicende
della sua epoca. Egli si
considerò per davvero il cantore
ufficiale del suo tempo ed
assunse l’onere di cantare
quelli che egli considerava i
"fasti" di quegli anni (e
naturalmente sceglieva i fatti
più risonanti e spettacolari,
senza minimamente penetrarli
nella loro essenza e nella loro
validità storica ed umana).
Per esempio, la "Feroniade"
sorse con l’intento di esaltare
la iniziativa di Pio VI di voler
bonificare le paludi pontine, ma
in effetti svolge la favola
mitologica della ninfa Feronia
che, per la gelosia di Giunone,
vede il suo regno nel Lazio
ridotto ad una palude: Giove le
appare e la conforta
promettendole un nuovo regno. E,
come tutte le opere del Monti, è
intessuta di tante immagini
classicheggianti che nulla hanno
più da spartire con l’intento
celebrativo assunto: ecco
l’elogio della mammoletta:
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Mai più cara alle Grazie
e alla casta
man di Feronia, con più
riguardo
educata tu cresci, o
mammoletta;
tu, che negli orti
cirenei dal fiato
generata d’Amore e dallo
stesso
Amor sul colle pallanteo
tradutta,
di Zefiro la sposa
innamorasti,
e del suo seno e de’
pensier suoi primi
conseguisti l’onor. |
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Nella sua lirica più famosa (ma
forse meno bella), "Al Signor di
Montgolfier", l’intenzione fu di
esaltare l’impresa dei francesi
Charles e Robert, che tentarono
il primo volo col pallone
aerostato dei fratelli
Montgolfier, e il progresso
della Scienza (soprattutto
quella chimica), avviata al
dominio assoluto sulla Natura.
Ebbene, proprio l’aderenza più
costante al tema determinò nel
Poeta un certo distacco della
fantasia dalla materia, sicché,
se si eccettua la rievocazione
iniziale dell’impresa di
Giasone, che per primo sfidò il
regno delle acque, fendendo "co’
remi il seno a Teti" e lasciando
stupefatto Nettuno che,
incredulo, "ai verdi alipedi /
lasciò cader le briglie", se
cioè si eccettuano le prime
cinque strofe, nelle quali è
evidente una sentita
partecipazione del Poeta, tutto
il resto dell’ode procede con
proposizioni ed immagini
enfatiche e noiose e a volte
anche goffe, come quelle che
descrivono la folla degli
spettatori del primo volo ("stan
mille volti pallidi / e mille
bocche aperte."... "e i piè mal
fermi agognano / ir dietro al
guardo attento") o quelle che
elogiano l’Uomo e la Scienza per
l’invenzione del parafulmine
("Rapisti al Ciel le folgori, /
che debellate innante / con
tronche ali ti caddero / e ti
lambir le piante").
Resta tuttavia che il Monti fu
il più squisito verseggiatore
del suo tempo e nessuno, tranne
forse il
Pindemonte, in vita ne
eguagliò la fama. Neppure il
Foscolo, che ebbe molti più
contestatori fra i critici
letterari e gli intellettuali in
genere e solo dopo la morte
ottenne i riconoscimenti che gli
eran dovuti.
Per definire la sua arte, nessun
giudizio è più calzante di
quello che espresse il Leopardi,
che affermò essere il Monti
"poeta dell’orecchio e della
immaginazione, ma del cuore in
nessun modo", riconoscendogli
una grande e geniale abilità
nell’impressionare la fantasia
del lettore con immagini di
prim’ordine e nell’appagare
l’orecchio più esigente con la
musicalità dei suoi versi, ma
negandogli una reale sostanza
sentimentale che potesse
giungere, suadente, al cuore del
lettore.
Analogamente si espresse il De
Sanctis, che definì il Monti
"artista" ma non "poeta",
volendo distinguere l’esperto
artigiano del verso, che fa
dello stile la sostanza della
propria arte, dal vero poeta che
si serve dello stile solo perché
ha urgenza di comunicare una
sostanza di affetti, una propria
"moralità".
Il Croce ha tentato di
rivalutare il Monti come poeta,
definendolo "poeta della poesia,
della letteratura", con ciò
volendo dire che il Monti amò la
poesia degli altri fino a
considerarla un suo mondo di
affetti, e a questo mondo si
ispirò come altri si ispirano
agli affetti dettati dall’amor
di Patria, della Libertà, ecc.
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