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Tragedia in due atti in prosa di D'Annunzio rappresentata
nel 1906 da Ermete Zacconi e pubblicata l'anno seguente.
Come sempre - nella Città morta, nella Gioconda, nel
Fuoco, nella Laus Vitae - il tema superumano, per sé,
fallisce alla poesia del D'Annunzio, attuandosi solo nelle
pause che ci s'intromettono; così questa tragedia è
poverissima, proprio per la chiarezza a cui riduce quell'ideologia
nella figura di Corrado Brando, l'eroe che vorrebbe fare
l'esploratore, e, non avendo i soldi necessari, si fa
assassino per procurarseli. Persuaso della grandezza più
che morale del gesto ch'egli magnifica nel personaggio, il
D'Annunzio si sforza di raggiungere in quest'opera una
lapidarietà di stile che è poi un nuovo modo di enfasi, ed
è l'illusione per cui, nel discorso premesso al volume,
invoca nientemeno che l'esempio di Eschilo. In verità ciò
che predomina nel suo spirito, scrivendo, è la smania
polemica di scandalizzare con la superumana ideologia
quelli stessi che alla rappresentazione restarono in
effetti scandalizzati; perciò nemmeno i motivi soavi, che
come sempre affiancano il tema eroico (la donna che l'eroe
abbandona nubile e incinta, il fratello di lei che
anch'egli affoga l'indignazione nell'ammirante dolcezza),
riescono a disegnarsi abbastanza nella fantasia del poeta
così da vivificarla, se non altro, episodicamente. Unico
interesse dell'opera, poiché la passione dell'eroe è la
passione d'Africa, i segni di quella passione africana che
non morì in Italia nella sconfitta di Adua, e che
suggerisce parole in cui il D'Annunzio ricercherà trent'anni
dopo, quasi additandovi un presagio, il titolo di un suo
libro d'incitamento patriottico, Teneo te Africa; "Ho il
mio pensiero, anzi ho il mio impero, una parola romana da
rendere italica: "Teneo te Africa".
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