|
Opera pubblicata nel 1952. Contiene circa duecento
"favole", nell'accezione del termine indicata dall'autore:
"picciole fave o vero minimissime favuzze o faville d'un
foco sopr'a duo rocchietti stento e d'una manata di
stipa"; "nugae ove non è Francia né Spagna, né coturno
tragico né penziere eccelso di filosafo". Si tratta di
apologhi o scherzi, riduzioni o rielaborazioni di elementi
del repertorio favolistico cui segue un'ironica o caustica
morale. Talvolta, ancora, è un gioco di parole, che cela,
attraverso sottili allusioni, gli umori bizzarri e
paradossali dello scrittore. La polemica riguarda illustri
personaggi della tradizione e aspetti del costume comune,
coinvolgendone i miti in un processo di smascheramento
parodico e beffardo. Si vedano i riferimenti al Carducci,
esponente, con il Foscolo, di una categoria - quella del
poeta vate - insopportabile all'autore; o l'ironia che
colpisce la storia, nelle figure dei suoi grandi eroi e
conquistatori: "Gli ufficiali del generale Bonaparte
incontrarono le posate d'argento di casa Melzi, Serbelloni,
e Belgioioso. Se le dimenticarono in tasca". Riaffiorano,
altrove, i ricordi della guerra, con le immagini di una
struggente pietà ("Il cavallo, mandato nel Carso, traeva
una carretta bene leggera al ritorno, tutto affidatosi al
giurare della Notte. Ma la spergiura Notte gli mancò la
parola: e la fascia del mattino che guarda era già sul
Veliki. Nati dal cielo del mattino fiori atroci, i latrati
delle folgori. / Agonizzava tra infinite budella,
chiedendo perché, perché"), o nei risvolti di un'acre e
risentita denuncia. Fino allo scoraggiamento, non privo di
sarcasmo: "Morire per la patria è cosa dolce e onorevole:
infatti alcuni sono morti per la patria immortale: e
altri, a guardarla dalle tignole, è bisognato vivessero.
Questa favoletta ne dice: il morto giace, il vivo si dà
pace". Dalla sfiducia nella possibilità di andare al di là
di una testimonianza di sdegno per mutare in concreto la
realtà nasce l'estrema distanza dalla favola classica, da
Esopo e La Fontaine, di cui l'autore riprende talora
spunti e situazioni per capovolgerne i significati,
rifiutando l'esemplarità dei luoghi comuni. Sul piano
strutturale G. giunge, dall'interno, a una distruzione del
genere letterario, deformandolo nei suoi connotati
istituzionali e piegandolo a una più ampia possibilità di
variazioni combinatorie e stilistiche: dalla satira
all'invettiva, dal gioco allo scherno. La forma prevalente
risulta così quella del frammento, spesso cifrato secondo
gli oscuri codici di una moralità analogica. In essa
trovano spazio gli umori e i risentimenti personali, i
ricordi d'infanzia e i dati della situazione
contemporanea, in cui l'invenzione linguistica - sulla
base di un fiorentino arcaico - rinnova, pur
richiamandolo, il moralismo ironico e satirico di una
tradizione prettamente lombarda: di un Porta, di un
Parini, di un Manzoni. La parola, allora, prevarica sulle
cose e le violenta, come nel lungo catalogo di termini
dialettali e plebei con cui Gadda "traduce" il linguaggio
degli usignoli, contro le versioni idillico-sentimentali
di un romanticismo arcadico e sdolcinato, contro le
interpretazioni edificanti e predicatorie. Nella "Nota
bibliografica" che segue la raccolta, Gadda ripercorre la
vicenda editoriale dei testi, già pubblicati a gruppi,
negli anni 1939 e 1940, su "Il Tesoretto", "Campo di
Marte", "Corrente". Tale vicenda è tuttavia ritrascritta
sulla falsariga di un "pastiche" inventivo che,
sovrapponendosi alla minuziosa ricostruzione (dal
concepimento dell'opera a "Panettopoli", ossia a Milano,
sino alla definitiva edizione in volume del Neri Pozza,
"ch'è stampatore in Vinegia", con i disegni di Mirko
Vucetich), finisce per presentarsi come un esempio
autonomo dello stile gaddiano. |