Letteratura italiana: Opere di Montale

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Parliamo di

  Letteratura italiana del Novecento
Autore della critica
Adriano Bon

 


Le occasioni
 

Raccolta poetica. Nel 1940 compare una seconda edizione accresciuta di quattro poesie: "Alla maniera di Filippo De Pisis", "Addii, fischi nel buio", "Ti libero la fronte" e "Il ritorno". Quasi tutti i componimenti della raccolta erano stati precedentemente pubblicati su giornali e riviste. Anticipazione in volume costituì la "plaquette" "La casa dei doganieri e altri versi", del 1932. Già nell'ultima parte di Ossi di seppia un mutamento s'insinua nella poesia di Montale: nell'ordito di un mondo insensato affiora il sospetto d'una improbabile, significativa eccezione. Lo "schermo d'immagini" dell'esistenza offre a Montale oggetti e situazioni, figure, che assurgono a vere e proprie "illuminazioni", momenti simbolici evocati a favorire l'apparizione del "fantasma che ti salva". Qui è il passo tra le epifanie di Ossi di seppia e la poesia delle Occasioni, dove quasi scompaiono descrittivismo e antefatti biografici che tanta parte avevano avuto nell'esordio poetico di Montale. Così egli stesso parla di questa nuova tecnica: "Bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta. Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore "in medias res" dove le occasioni del titolo non saranno soltanto occasioni di conoscenza ma anche occasioni nel senso più comune del termine". "Il balcone", "mottetto" posto "in limine" al volume, anticipa l'intero movimento della raccolta. Montale si rivolge alla donna assente, al "visiting angel" cui questo libro è consacrato. La distanza da lei, un tempo sopportata come "facile giuoco", si è fatta inaccettabile; e mentre l'ansia di continuare una simile vita "sull'arduo nulla si spunta", la quartina finale coagula in sé l'attesa di tutto il libro, con l'attitudine della donna a scorgere "la vita che dà barlumi", mentre l'ultimo verso sottolinea uno dei motivi fondamentali della raccolta: l'assenza dolorosa della "messaggera celeste". "Vecchi versi" introduce la prima delle quattro sezioni di questo "canzoniere d'amore" (Contini). La poesia, del 1926, nella carica memoriale che in veste di sé la minuziosa descrizione del paesaggio ligure, si propone come tramite fra Ossi di seppia e Le occasioni, alle quali già pertiene l'evocazione della funebre sfinge ("e fu per sempre/con le cose che chiudono in un giro/sicuro come il giorno, e la memoria/in sé le cresce, sole vive d'una/vita che disparì sotterra"), senza che ancora s'avvii l'esorcismo del colloquio con la donna assente. Quasi una illustrazione della nuova poetica è la successiva "Buffalo": l'agile descrizione del velodromo parigino precipita verso il suono-cardine della poesia: "Mi dissi:/Buffalo! - e il nome agì". Riuscita tecnica che prevarica nella contemporanea "Keepsake", giocata sull'ironia della serie di nomi e sulle fantasiose assonanze: "Fatinitza agonizza in una piega/di memoria". "Lindau" vede comporsi, nell'arco di due strofe, figure di contrastanti tensioni: la rondine che "non vuole che la vita passi", polo di fragile affermazione, e "l'acqua morta/che logora i sassi" si contrappongono nel giro dei primi quattro versi. Quasi in parallelo, la seconda quartina oppone "torce fumicose" e ombre solitarie che sbandano "sulle prode vuote" a una imprecisata "sarabanda" di persone, vaga positività sulla quale si chiude la serrata struttura delle rime. Motivi analoghi si decantano in "Bagni di Lucca", "Cave d'autunno" e "Altro effetto di luna", tre poesie assai vicine nel rilievo ritmico e nello stacco metaforico che in tutte si risolve in una perentoria immagine finale: "Passa l'ultima greggia nella nebbia/del suo fiato", "varcherà il cielo lontano/la ciurma luminosa che ci saccheggia" e, con immagine opposta ma sempre legata al tema dell'attesa: "e la feluca già ripiega il volo/con le vele dimesse come spoglie". In "Verso Vienna" lo "schermo d'immagini" della realtà - "Il convento barocco/di schiuma e di biscotto" - è inciso ancor più nettamente (e lo sottolinea il ritmo del verso settenario che si distende nell'endecasillabo in coincidenza con la soluzione emblematica costituita dalla comparsa del nuotatore) da simboli reali ma imperscrutabili: il "nuotatore", il cui gesto preannuncia quello di Dora Markus, e poi, "al suo posto,/battistrada balzò da una rimessa/un bassotto festoso che latrava,/fraterna unica voce dentro l'afa". Poesia, questa, che, considerando anche la data di composizione, ci porta già nel cuore delle Occasioni. Composta dieci anni prima, "Carnevale di Gerti" tocca, sin dal lungo periodo ipotetico iniziale, il tema del desiderio vano di arrestare il tempo ("hai ritrovato/forse la strada che tentò un istante/il piombo fuso a mezzanotte quando/finì l'anno tranquillo senza spari"); dove lo sconvolgimento del tempo reale è affidato solo a una mossa di Gerti stessa: "Penso/che se tu muovi la lancetta al piccolo/orologio che rechi al polso, tutto/arretrerà". Ma il momento visionario ("ora chiedi il paese dove gli onagri/mordono quadri di zucchero alle tue mani") si spegne, e la constatazione che "nulla torna se non forse in questi/disguidi del possibile" non permette all'alta e desolata ricchezza di questa meditazione, posteriore di pochi anni alla celeberrima "Arsenio", di liberarsi in uno scatto invece rintracciabile in poesie successive. Il ritmo degli endecasillabi si chiude sull'invito rivolto dal poeta alla donna: "torna alla via dove con te intristisco,/quella che additò un piombo raggelato/alle mie, alle tue sere:/torna alle primavere che non fioriscono". "A Liuba che parte" rappresenta forse la più coerente esemplificazione della nuova poetica montaliana: otto versi, nei quali si è voluta riconoscere la struttura della ballata. Così Montale: "A Liuba. Finale di una poesia non scritta. Antefatto "ad libitum". Servirà sapere che Liuba - come Dora Markus - era ebrea". Dora Markus presta il suo nome a un lavoro in due tempi, scritti a tredici anni di distanza l'uno dall'altro. Per ammissione di Montale, la seconda parte di questa poesia è occupata in realtà dalla figura di Gerti, ebrea austriaca amica del poeta. Invece Dora non fu mai conosciuta da Montale se non attraverso una fotografia inviatagli da Bobi Bazlen, occasione della poesia stessa. E infatti "resta pur sempre un jato tra la vita inesplosa di Dora e la vita già vissuta di Gerti. La fusione delle due figure non è perfetta, a metà strada qualcosa è avvenuto che non viene detto e che io non so". La sostituzione di Gerti a Dora spiega come la chiusa verticale lirico-esorcistica della prima parte si rovesci nella seconda - siamo ormai nel 1939 - in un sera dai toni cupi e smorzati dove "distilla/veleno una fede feroce./Che vuole da te? Non si cede/voce, leggenda o destino.../Ma è tardi, sempre più tardi". Ormai siamo al termine di questa prima sezione. "Nel parco di Caserta" si chiude su una figura - "le nocche delle Madri s'inaspriscono,/cercano il vuoto" - ridimensionata dallo stesso poeta in una nota al testo. Ma "Accelerato", che non a caso esaurisce questa prima parte, propone una struttura e un ritmo che Montale riprenderà, perfezionandoli, nella celebre "Anguilla" della Bufera. I versi, che contengono vocaboli e immagini legati al mondo degli Ossi di seppia, si strutturano in un'unica frase interrogativa rampicante sul ritmo dei settenari e scandita dai tre "fu così", sino a precipitare sull'accorato interrogativo finale: "fu così/rispondi?" La poesia, che non resterà una prova isolata nell'opera di Montale, prelude già, per il nervoso e incisivo ritmo degli "enjambements", alla seconda sezione del libro, quella dei "Mottetti". Sono, questi, brevi istantanee che con linguaggio scorciato e allusivo conducono subito il lettore al centro dell'invenzione poetica, grazie a una struttura essenziale. Queste poesie, alle quali appartiene anche "Il balcone", e che occupano il centro fisico delle Occasioni, sono un vero "canto della separazione e dell'assenza". Spesso, la poesia si libererà nella chiusa, come nel primo mottetto, dove sul colloquio con l'amata assente s'innesta il ricordo della città natale, "Paese di ferrame e alberature/a selva nella polvere del vespro"; la visione si restringe nella ricerca dell'epifania ("Cerco il segno/smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia/di te") per coagularsi nell'improvvisa condanna: "E l'inferno è certo". Più spesso i due momenti serpeggeranno nel breve e serrato giro dei versi - tutto giocato sui due fuochi: quello metafisico dell'assenza dell'Altra e quello del personaggio-io - risolvendosi poi in una fulminea immagine finale, come in "Brina sui vetri". Tanto più notevole, in una sezione dagli esiti così perentori, un risultato come quello di "Addii, fischi nel buio, cenni, tosse...", dove "fischi nel buio" è felice variante ai "suoni di tromba" della primitiva versione. "È il quinto mottetto, e certo Montale non ne scrisse uno più bello, più, pensatamente, perfetto. Le due parti sono come attratte, e la pausa, la sospensione le separano e insieme le avvicinano" (De Robertis). Dove, pur perdurando nell'attesa salvifica, il poeta osserva che "Forse/gli automi hanno ragione"; gli uomini che "non sanno", cioè, sono la conferma di come il privilegio del "sapere" ("e l'altre ombre che scantonano/nel vicolo non sanno che sei qui") venga avvertito da Montale come condizione di estrema solitudine. Solitudine che nei mottetti "s'innerva" sul fitto tessuto dei simboli metafisici, estremamente folti: gli sciacalli al guinzaglio, il fiordaliso, lo scoiattolo, la frase musicale "do re la sol sol" dell'"anima che dispensa/furlana e rigodone". Codice che talvolta resta indecifrabile (lo "smorto groviglio" della "gondola che scivola") o al di qua ("luce di lampo/invano può mutarsi in alcunché/di ricco e strano. Altro era il tuo stampo"), talaltra squarcia il velo che confonde il reale e separa dal passato, sino al premio di una vera e propria visitazione dell'oltrecielo: "Ti libero la fronte dai ghiaccioli/che raccogliesti traversando l'alte/nebulose". La sezione si chiude, sì, con un ripiegarsi del poeta su se stesso e con la morte del ricordo ("Non recidere, forbice, quel volto...") ma anche con l'esaltazione della mai conclusa opera di decifrazione della memoria, in un vero e proprio livellamento dei contrari: "La vita che sembrava/vasta è più breve del tuo fazzoletto". L'intensa serie dei "Mottetti" prelude ormai agli esiti maggiori del libro, dove la turbata ricerca del trascendente non rifiuterà un tessuto "discorsivo" più ampio e articolato. Dopo la pausa di "Tempi di Bellosguardo", una densa serie di poesie costituisce l'ultima sezione del volume, riproponendone dall'interno parabola e conclusioni, in un lungo colloquio-evocazione puntellato da oggetti e immagini decantati da un'estrema coesione descrittiva. Quest'ultima sezione si apre con una poesia giustamente nota: "La casa dei doganieri". Nelle quattro strofe è sviluppato con toni di alta elegia il tema del passato, perduto nella non-memoria della donna a cui si dice "tu" ("Tu non ricordi la casa", "Tu non ricordi", "Ne tengo un capo; ma tu resti sola") e incerto per il poeta privato dell'interlocutrice ("Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana"); il passato è ormai indecifrabile: "la bussola va impazzita all'avventura/e il calcolo dei dadi più non torna". La poesia, giocata su un'elegante scansione d'endecasillabi rimati, si chiude con movimento discendente accentuato dall'"enjambement": "Tu non ricordi la casa di questa/mia sera. Ed io non so chi va e chi resta". Il tema delle impressioni che suggeriscono la possibile continuità dell'esperienza memoriale, già accennata nel ripullulare del frangente nella "Casa dei doganieri", viene ripreso in modo più scoperto in "Bassa marea": "Sere di gridi, quando l'altalena / oscilla nella pergola d'allora...//Non più quel tempo. Varcano ora il muro/rapidi voli obliqui". Ma qui il deciso esorcismo sul passato riesce a strappare, felice immagine, un segno decisivo "solo il tuo ricordo/s'attorce e si difende": "Una mandria lunare sopraggiunge/poi sui colli, invisibile, e li bruca". Immagine che rimanda a "l'ultima greggia nella nebbia" e alla "ciurma luminosa" di poesie scritte in quegli stessi anni. Anche in "Stanze" l'attenta ricerca della memoria simbolica del passato dà luogo a un movimento discendente, ma la costrizione iniziale ha termine con l'immagine del "volo strepitoso di colombi" che libera un movimento ascensionale: "In te converge, ignara, una raggéra.../In te m'appare un'ultima corolla.../Tocchi il segno, travalichi". Ma l'affermazione finale si collega al pessimistico "incipit" "La dannazione/è forse questa vaneggiante amara/oscurità che scende su chi resta". Saranno le due poesie seguenti, "Sotto la pioggia" e "Punta del Mesco", entrambe del 1933, a regalarci due strutture verticali estremamente compatte nella tensione simbolica. Nella prima, ogni antefatto viene escluso sin dallo stacco iniziale, e l'accumulata tensione si risolve infine in una delle immagini più liberatorie e intense di Montale: "Per te intendo/ciò che osa la cicogna quando alzato/il volo dalla cuspide nebbiosa/rémiga verso la Città del Capo". Così in "Punta del Mesco" i ricordi dell'infanzia sollecitano insistentemente nelle prime due ottave l'epifania che cresce su sé nel movimento finale, lungo tutta la terza ottava, chiusa sulla secca rima "rari" - "spari". In "Costa San Giorgio", sempre del 1933, il pessimismo montaliano risulta sin dalla prima immagine: "Un fuoco fatuo impolvera la strada./Il gasista si cala giù e pedala", dove quel "calarsi giù" dà il via a un movimento discendente irto di negazioni in cui ritornano il mondo spagnolo di "Sotto la pioggia" e la sconsolata affermazione: "tutto è uguale", di "Punta del Mesco". Qui però nessuno squarcio sull'ignoto, il fumo non permetterà di scorgere se non "in fondo il torchio del nemico muto/che preme". Così anche "L'estate", aperta su una nota di vaga minaccia, allinea elementi annullati dall'apoftegma finale: "Occorrono troppe vite per farne una". In "Eastbourne" la magia del nome: ""Bank Holiday"... Riporta l'onda lunga/della mia vita" fa affiorare per un attimo la speranza del miracolo ("riconosco il tuo respiro,/anch'io mi levo e il giorno è troppo folto") ma "Tutto apparirà vano.../Vince il male... La ruota non s'arresta". E nell'aria ormai deserta della presenza di lei, "solo/rimane l'acre tizzo che già fu "Bank Holiday"". Anche in "Corrispondenze", il messaggio folto d'ossimori della "pastora senza greggi" resterà un codice chiuso alla comprensione del poeta: "Ti riconosco; ma non so che leggi/oltre i voli che svariano sul passo". La rete delle metafore si distende quasi ai limiti dell'elegia in "Barche sulla Marna", sin dalla prima immagine di "Felicità del sughero abbandonato/alla corrente". L'ellissi poetica assume una liquida mobilità nella successione figurativa, e la corrente lirica prevale, infine, anche sull'oscura minaccia del presente, sul "colore/… del topo che ha saltato". Nell'imprecisa rete di nomi che avvolge l'inutilità d'esistere, si trova almeno la parola, l'"occasione" esatta: "La sera è questa. Ora possiamo/scendere fino a che s'accenda l'Orsa.// (Barche sulla Marna domenicali, in corsa/nel dì della tua festa)". Anche l'"Elegìa di Pico Farnese", del 1939, si apre su un luogo di larve mostruose, cani lionati, molli soriani, occhi porcini e pellegrine velate. "Nell'alba triste", si leva l'oscura salmodia superstiziosa e antica, per "Strade e scale che salgono a piramide.../si svolge a stento il canto dalle ombrelle dei pini". "Perché attardarsi qui/a questo amore di donne barbute, a un vano farnetico...?/Ben altro/è l'Amore e fra gli alberi balena col tuo cruccio/e la tua frangia d'ali, messaggera accigliata!" Invocatela, ecco, i segni infraumani che popolavano l'alba, "le nere cantafavole" e le "orde d'uomini capre" son messi in fuga: al poeta è indicata una via per la quale "un segno ci conduce/alla radura brulla dove per noi qualcuno/tenta una festa di spari". E il tiro a segno sarà di per se stesso invito a vivere, quando la messaggera angelica taccia: "il giorno non chiede più di una chiave". In questo mondo astorico si è avuta così la comparsa della donna assente, in vesti di vero e proprio "visiting angel", quale si fisserà ancora più chiaramente nel successivo libro di Montale, La bufera e altro. La transizione verso questi esiti futuri si fa più chiara in "Nuove stanze", dove la donna genera - col solo spegnere "gli ultimi fili di tabacco/... nel piatto di cristallo" - una spirale di fumo, di "incenso", che né le pedine d'avorio né la "tragedia d'uomini" che fuori s'agita, "nella scacchiera di cui puoi tu sola/comporre il senso", possono sperare di decifrare. Anche il poeta, un tempo, dubitò che forse la "follia di morte" risultasse estranea alla messaggera celeste. Ma ora che "la morgana che in cielo liberava/torri e ponti è sparita", e la funesta follia è veramente nembo alle porte, ora "resiste/e vince il premio della solitaria/veglia chi può con te allo specchio ustorio/che accieca le pedine opporre i tuoi/occhi d'acciaio". Tema ripreso in torma minore nel "Ritorno", unico lungo periodo scandito sei volte dall'avverbio "ecco", dove tra un "funghire velenoso d'ovuli", "in un gelo policromo d'ogive", "quando Erinni fredde ventano angui/d'inferno e sulle rive una bufera / di strida s'allontana", il poeta si dice pronto a ricevere il necessario, purgatoriale "tuo morso/oscuro di tarantola". Che è anche un ammettere la grande distanza che intercorre ormai tra i cieli percorsi dal volo rapinoso dell'amata e il mondo dei viventi. Ma ecco, in "Palio", accendersi fin dal primo verso la miccia: "la tua fuga non s'è dunque perduta/in giro di trottola/.../il lancio dei vessilli non ti muta/nel volto.../... sorte/che sfugge anche al destino". Anche qui, dalla torre cade un suono di bronzo, ma "tu ritieni/tra le dita il sigillo imperioso/ch'io credevo smarrito". Allora si può pensare a un tempo - il soliloquio misterioso, "l'esile/trama di filigrana" - che cresce su sé, rianimato insieme al presente: "È un volo! E tu dimentica!/Dimentica la morte/"toto coelo" raggiunta e l'ergotante/balbuzie dei dannati! C'era "il" giorno/dei viventi.../il presente s'allontana/e il traguardo è là.../oltre lo sguardo/dell'uomo - e tu lo fissi. Così, alzati,/finché spunti la trottola il suo perno/ma il solco resti inciso. Poi nient'altro". Immagine in cui si può riconoscere l'idea guida delle Occasioni, che si chiudono sulla sua dimensione a un tempo riduttiva e cosmica del trittico "Notizie dall'Amiata". Nella prima parte, il "tavolo remoto" aperto su uno scenario autunnale che ricorda quello di Pico Farnese ("valle/d'elfi e di funghi"), diviene "cellula di miele/di una sfera lanciata nello spazio". Il mito cosmico sancisce la rottura d'ogni barriera tra io e non-io ("La vita/che t'affàbula è ancora troppo breve/se ti contiene!"), in un mondo magico fatto di "povere creature e grandi simboli" (De Robertis), dove "Le stelle hanno trapunti troppo sottili". E l'indicazione ipotetica di una possibile salvezza si compie nell'appello al "vento del nord" che "suggelli le spore del possibile!" Così il secondo tempo si chiude sul potente ossimoro della "morte che vive". "E nel terzo e ultimo la poesia si autodefinisce "rissa cristiana che non ha/se non parole d'ombra e di lamento". Rinasce il mito; e l'accento cade sulla connotazione religiosa di cui è rivestita la situazione di crisi" (Contini). L'epifania così a lungo sollecitata non si realizza: oltre i "confini ultimi al mondo", la messaggera accigliata è immersa in un "profondo sonno"; e sull'immagine dei porcospini che "s'abbeverano a un filo di pietà", si chiude questo lungo colloquio con il fantasma liberatore i cui simboli di salute restano segni, null'altro che segni sulla trama ormai non più mimetica del reale.

 

Luigi De Bellis