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Letteratura italiana del Novecento |
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È questo il
componimento d'apertura della sezione Ossi di seppia che
dà titolo all'intera raccolta. E' un testo importantissimo
per la definizione di quella "teologia negativa" che
caratterizza la prima fase della poesia montaliana e in
gran parte tutta la sua produzione. Ed è un testo che è
diventato, anche al di là delle intenzioni, un emblema del
rifiuto degli pseudo-valori ufficiali della società e
della cultura italiana fra le due guerre.
Di fronte alla constatazione della negatività del reale e
della condizione umana il poeta non ha certezze da
comunicare. La sua verità è solo una verità dolorosa e
consiste tutta nell'affermazione di questa negatività e
dell'assenza di ogni certezza. Ma questa stessa
dichiarazione costituisce, implicitamente ma nettamente,
un atto polemico nei confronti di quanti credevano,
soprattutto in quegli anni, di poter trasmettere
attraverso un canto disteso, sonoro ed eloquente, delle
dubbie verità "positive". È il rifiuto del poeta-vate, del
poeta che si fa depositario delle verità ufficiali
politiche o religiose che siano.
La dimensione in cui Montale si muove è in primo luogo
conoscitiva: la realtà sfugge, e ogni tentativo di
rivelarne la segreta essenza, di trovarne il senso ultimo
è vano. Ma è anche poetica: Montale, come nei Limoni,
contrappone un ideale di poesia scabra e antieloquente ai
modelli vigenti. Ed è anche etico-politica: l'oggi è anche
il dopoguerra in cui si va affermando il fascismo e più in
generale un sistema di pseudo-valori cui il poeta non può
aderire. A questo proposito «vale la pena ricordare che
Ossi di seppia fu pubblicato nelle edizioni di
"Rivoluzione liberale" di Piero Gobetti: la teologia
negativa di Montale va ben oltre i confini
dell'opposizione politica e tuttavia non è difficile
cogliere in questi e in altri suoi versi toni dì quella
lucida intransigenza etica che fu propria dell'ambiente
gobettiano. Da versi come questi a tutta una generazione
derivò una lezione etica - rifiuto di ogni facile
ottimismo consolatorio, di ogni mitologia, stoica
consapevolezza del male di vivere - che in molti si
tradusse in azione politica, in antifascismo militante».
Riportiamo, per chiarire il rapporto tra poesia e realtà
storica e politica in Montale, un passo da un'intervista
del 1951.
Vuol parlarci della sua esperienza umana in questi anni.
Come un poeta ha veduto e vissuto gli avvenimenti che fra
le due guerre mondiali hanno straziato l'umanità? Come
pensa di aver reso attraverso la sua poesia questa
acquisita esperienza?
L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile
poesia) è la condizione umana in sé considerata; non
questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa
estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo
coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col
transitorio. Non sono stato indifferente a quanto è
accaduto negli ultimi trent'anni; ma non posso dire che se
i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe
avuto un volto totalmente diverso. Un artista porta in sé
un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una
certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi
che gli sono propri. Gli avvenimenti esterni sono sempre
più o meno preveduti dall'artista; ma nel momento in cui
essi avvengono cessano, in qualche modo, di essere
interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni
c'è stato, e preminente per un italiano della mia
generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non
ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in
cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo,
sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al
regime d'allora; ma il fatto è che non mi sarei provato
neppure se il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo
sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la
realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione
non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il
fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile
più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia
esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto
al di là e al di fuori di questi fenomeni. Ritengo si
tratti di un inadattamento, di un maladjustement
psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a
sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche.
Coloro per i quali l'arte è un prodotto delle condizioni
ambientali e sociali dell'artista potranno obiettare: il
male è che vi siete estraniato dal vostro tempo; dovevate
optare per l'una o per l'altra delle parti in conflitto.
Mutando o migliorando la società si curano anche gli
individui; nella società ideale non esisteranno scompensi
o inadattamenti ma ognuno si sentirà perfettamente a suo
posto; e l'artista sarà un uomo come un altro che avrà in
più il dono del canto, l'attitudine a scoprire e a creare
la bellezza. Rispondo che io ho optato come uomo; ma come
poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su
un altro fronte, nel quale poco contavano i grossi
avvenimenti che si stavano svolgendo. L'ipotesi di una
società futura migliore della presente non è punto
disprezzabile, ma è un'ipotesi economica-politica che non
autorizza illazioni d'ordine estetico, se non in quanto
diventi mito. Tuttavia un mito non può essere
obbligatorio. Sono disposto a lavorare per un mondo
migliore; ho sempre lavorato in questo senso; credo
persino che lavorare in questo senso sia il dovere
primario di ogni uomo degno del nome di un uomo. Ma credo
altresì che non sono possibili previsioni sul posto che
occuperà l'arte in una società migliore della nostra.
Platone bandiva i poeti dalla Repubblica; in certi paesi
di nostra conoscenza sono banditi i poeti che si occupano
dei fatti loro (cioè della poesia) anziché dei fatti
collettivi della loro società. In un mondo unificato dalla
tecnica (e dal prevalere di una ideologia) io non credo
che i poeti «individualisti» potrebbero costituire un
pericolo per lo Stato o il Superstato che li ospiti (o li
tolleri). È possibile concepire un mondo in cui il
benessere e la normalità dei più lasci libero sfogo all'inadattamento
e allo scompenso di infime minoranze. In ogni modo questa
ottimistica prospettiva lascia aperto il dissidio fra
l'individuo e la società. È altrettanto possibile
l'ipotesi che il dissidio sia risolto manu militari,
sopprimendo l'individuo inadattabile. Quello che appare
invece improbabile e indimostrabile è l'automatico - o
rapido - avvento di una età dell'oro (nelle arti) non
appena sia mutata la struttura sociale. |
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