Parliamo di |
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Letteratura italiana del Novecento |
Autore
della critica |
Adriano
Bon |
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Sulla
poesia |
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Ultima, in ordine di
tempo, delle raccolte degli scritti pubblicata nel 1976.
Comprende articoli, prefazioni, autocommenti e discorsi
comparsi in differenti sedi dal 1920 al 1975, hanno in cui
il poeta pronunciò a Stoccolma il discorso "È ancora
possibile la poesia?" che apre la raccolta, chiusa da
un'intervista dello stesso anno. Se molti degli articoli
sono recensioni a poeti italiani, francesi e
anglo-americani, nei brani di più vasto respiro trovano
spazio aspetti delle convinzioni teoriche sottese alla
poetica montaliana. Così in "L'estetica e la critica",
parlando di Croce e del crocianesimo, Montale
offre al lettore le coordinate d'una propria "aesthetica
in nuce": "cauto iniziato", vicino a uomini "rinfrescati"
dal crocianesimo, Montale
confessa tutta la propria diffidenza verso quanti studiano
astrattamente le forme o i motivi "psicologici" che le
sottendono, fornendo loro quasi una vita autonoma, e
afferma invece di vedere nella tendenza a passar sotto
silenzio la "quidditas" artistica per concentrarsi
sull'"arte come "pezzo" formale, la storia come museo
immaginario, il quadro come radiografia di una psicosi",
il preludio alla morte dell'arte stessa, la cui forme e i
cui motivi esterni possono essere facilmente riprodotti
dall'industria culturale: "La tecnica è presente in ogni
opera d'arte ma non è l'arte e non fa l'arte, perché in se
stessa è perfettamente imitabile e si può studiarne il
progresso, mentre nessun essere ragionevole, almeno in
Italia, crede nel progresso dell'arte. E anche questo lo
dobbiamo a Croce". Riaffiora qui l'antipatia di Montale
verso una critica troppo legata alla tecnica, poiché di
"avversari della critica estetica ne esistono molti e non
si rendono conto che una proficua critica extra-estetica è
possibile solo quando non manchi, chiaro o sottinteso, un
accordo preliminare sul valore estetico di un'opera".
Ammettendo però che la diffidenza verso tecnica, mestiere
e gusto propria della speculazione idealistica ha poi
condotto questa scuola a riconoscersi "in grado supremo
solo nelle forme dell'oggettivismo più largo, fantastico o
realistico che sia", Montale
sottolinea l'impossibilità di decomporre il sistema
crociano, di "venire a patti con le esigenze
dell'esperienza vissuta per poi ricomporre la sua
impalcatura filosofica. La verità è che dai sistemi chiusi
vi si discende, non vi si risale". Già nel 1935, parlando
della critica italiana che, "giunta a un angolo morto",
"dovrà risorgere da una coraggiosa cura d'empiria", Montale
faceva i nomi di Valéry e Du Bos, di quel Du Bos che
altrove è affiancato a Curtius nell'elogio dei critici che
sappiano anche svelare l'"itinerario di un'anima". Non
meraviglia perciò che del Croce Montale
sottolinei con particolare inclinazione la "teoria della
simpatia immedesimata", giungendo a credere "che questo
sia il punto più forte, il vero punto di resistenza della
sua critica". Diffidente sin dagli anni Venti nei
confronti dei "generi" attento "di fronte al difficile
problema degli schemi personali che ogni poeta, e più che
mai dal Baudelaire a oggi, parrebbe doversi porre a
garanzia e a distintivo della propria poesia", Montale
è particolarmente conscio del "logorìo ch'è inerente alla
vita delle forme, le quali, in quanto tali, hanno pure
un'esistenza propria che può svilupparsi fino a un certo
punto, ma è poi destinata allo scadimento". Interessanti
in questo senso le annotazioni sulla poesia lirica, sul
suo "senso letterale" e "senso musicale". Pur convinto
della necessità dell'inserzione critica dell'arte nel
tempo. Montale,
ricordando come il pubblico della poesia è formato da
"addetti ai lavori", afferma che "la poesia, assai più
delle altre arti, sembra soggetta a invecchiare", e
invecchiando "sopravvive se si presta a essere ricostruita
e interpretata in modo diverso, a essere fonte di
altissimi equivoci". Se da un lato, con palese riferimento
ad alcune tesi di Eliot, del quale riprende pure la
nozione di "classico", la lirica è la conseguenza del
desiderio di "far sprizzare dall'incontro dell'ispirazione
col mestiere quel tanto di sé" che il poeta "normalmente
ignora", la sopravvivenza stessa della poesia è affidata a
una trasformabilità, nel tempo e nello spazio, che può
sfociare in "una creazione parallela le cui necessarie e
calcolate alterazioni rispetto all'originale sono
condizione della nascita del testo in un nuovo sistema
poetico" (Bulgheroni). Molto personale e illuminante è
anche l'accostarsi montaliano a poeti contemporanei e non.
Così il saggio su Gozzano si sviluppa secondo tre linee
portanti che vedono il canavese come l'autore della poesia
"più "sicura" di quegli anni", come il primo che "abbia
dato scintille facendo cozzare l'aulico col prosaico"
riuscendo anche a essere "il primo dei poeti del Novecento
che riuscisse ad attraversare D'Annunzio", approccio
critico in cui Montale,
prendendo le distanze dalla triade Carducci - D'Annunzio
Pascoli, carica di significati quegli oggetti del vivere
quotidiano che proprio i crepuscolari, sulle orme del
Pascoli, avevano celebrato. Approccio critico che si
presta a una doppia lettura, e per il valore intrinseco e
in relazione agli sviluppi del l'opera di Montale;
prospettiva che ricorre nelle pagine dedicate a poeti come
Eliot, Michaux, Frénaud, Auden. Ma soprattutto, in questa
raccolta, accennando al "discredito in cui è caduto il
moderno animale poetico", "in una stagione infelice, in
cui v'è un livello tecnico molto alto, ma al quale non
corrisponde poi nulla d'importante", Montale
svela l'"assurdo paradossale della presenza del poeta
moderno che ha nome e non ha conseguenze" (Luzzi). |
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