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Letteratura italiana del Novecento |
Autore
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Piccolo
testamento |
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Con Il sogno del
prigioniero questa celebre lirica (dei primi anni
Cinquanta) costituisce la sezione Conclusioni provvisorie
che chiude la raccolta della Bufera e altro. È un
testamento nel senso che al poeta, che «ormai ha lasciato
alle spalle la possibilità della decisione religiosa
simboleggiata nella figura di Clizia» ed «è passato
attraverso la stagione dell'innamoramento per la Volpe,
che in certo senso ha riportato a terra l'esaltazione
della donna-angelo, ma soprattutto ha lasciato alle spalle
l'epoca delle grandi distinzioni del bene e del male,
potendosi facilmente dividere i due campi quando
imperversavano i "messi infernali"» (Gianola), torna sui
temi che hanno caratterizzato tutta la sua precedente
riflessione per verificarne la tenuta.
Ha scritto Gianfranco Contini: «Nell'opera di Montale la
prima fase è negativa e distruttiva: egli non ritrova un
oggetto nella cui realtà possa avere fiducia. La seconda
fase è relativamente positiva o costruttiva: nel tessuto
insensato del mondo si schiude, sia pure improbabilmente,
il sospetto d'un'eccezione significativa. Semplifichiamo
leggermente il fatto, per necessità di razionalizzazione;
e di questi due momenti facciamo coincidere il primo con
Ossi di seppia, il secondo con Le occasioni. Se ne
ricaverà che il "terzo libro", ossia, per la medesima,
venialmente abusiva, identificazione dialettica, La
bufera, sarà la sede d'un discorso non solo non condannato
a catalogare l'aridità, ma neppure teso esclusivamente,
volta per volta, attorno al nucleo momentaneo
dell'occasione che riscatta». Il fatto è - ed è il fatto
significativo della raccolta che nella Bufera compie la
sua irruzione la realtà concreta, spesso la realtà nelle
sue manifestazioni pubbliche e "storiche": «guerra,
tirannia, emergenza, guerra fredda [...] catastrofi dunque
pubbliche». Già l'epigrafe di D'Aubigné nel componimento
La bufera, ad apertura di raccolta significa «l'irruzione,
sconvolgente e massiccia, di una realtà "esterna" entro un
mondo», quello della poesia montaliana, che si era fondato
sulla «sfiducia nel reale».
In questo Piccolo testamento, riflessione conclusiva prima
di un lungo silenzio, eventi pubblici e vita privata,
destino storico del mondo e ricerca etica ed esistenziale
del poeta si confrontano: da un lato la «notte» che
prosegue anche dopo la fine della guerra (un dopoguerra di
guerra fredda, di clericalismo e stalinismo: di «purghe»
si parlerà nel Sogno di un prigioniero), la profezia di
una «sardana» che « si farà infernale» e coinvolgerà
distruggendolo il mondo occidentale e le sue tradizioni
(una guerra atomica?), i chiesastici lumi accesi dai
chierici rossi e neri; dall'altro la «traccia
madreperlacea di lumaca», lo «smeriglio di vetro
calpestato», un'«iride» che si riduce alla «cipria»-
fragile ed effimero «portafortuna», amuleto - e cioè
minimi segnali luminosi, non paragonabili né ai lumi «di
chiesa o d'officina» (che però si spegneranno) né alla
luce infernale (che tutto travolgerà). Ma segni anche di
una ricerca tenace e consapevole, di una «fede...
combattuta», di un'orgogliosa coerenza («l'orgoglio / non
era fuga, l'umiltà non era / vile») che dureranno, fin
tanto che potrà durare ogni cosa transitoria: non potranno
reggere «all'urto dei monsoni», ma il loro bagliore non è
neppure tanto effimero quanto «quello d'un fiammifero».
Ora - va notato - è Montale, rivendicando la giustezza
della propria ricerca («giusto era il segno»), che per
quanto debole lancia un messaggio di «fede», un bagliore
di «speranza» a Clizia (o chi per lei). E, chiuso il
capitolo dell'esplicita tensione metafisica, torna ad
esprimersi in termini negativi paragonabili a quelli della
celebre professione negativa degli Ossi di seppia (Non
chiederci la parola): «non è lume di chiesa o
d'officina... non è un'eredità, un portafortuna...
l'orgoglio non era fuga, l'umiltà non era vile, il tenue
bagliore strofinato laggiù non era quello d'un
fiammifero». |
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