Parliamo di |
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Autori
del Novecento italiano Giovanni Pascoli |
Critica
di |
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Claude
Cènot |
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Carmi
latini |
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(Carmina). Sotto questo titolo
apparvero, prima nel 1914 e poi nel 1930 a cura della
sorella Maria, raccolte in due volumi le poesie latine di
Giovanni Pascoli, scritte tra il 1885 e il 1911, e in
parte inedite. Comprendono alcuni cieli ben distinti che
per l'argomento s'accompagnano pressappoco alla produzione
italiana. Le liriche sparse, una settantina, sono raccolte
tutte sotto il titolo "Poemata et Epigrammata"
(1885-1911), varie pel metro e l'argomento e per lo più
occasionali: tra esse la regina delle elegie: "Crepereia
Tryphaena" (1893), la saffica ispirata alla scoperta, in
Roma, di un sarcofago con il cadavere di una fanciulla
ornata di una lunga capigliatura. Gli altri gruppi si
susseguono in ordine pressoché cronologico e d'ispirazione
crescente. Primi i quattro poemetti georgici, didascalici,
compagni ai Primi Poemetti (v. Poemetti), intitolati "Ruralia"
(1895-1899), tra i quali notevole il "Myrmedon" (1893),
sulle formiche, il cui tema è ripreso nel "Ciocco";
seguono le "Res romanee" (1892-1906), il "Liber de Poetis"
(1891-1910), i "Poemata Christiana" (1901-1911) e infine
gli "Hymni in Romam", "in Taurinos", (1911). La parte più
notevole è ispirata alla storia di Roma antica, come a
compiere il ciclo storico di Odi e Inni con un ritorno
alle origini, e come a continuare il ciclo greco dei Poemi
Conviviali con una rappresentazione a essi parallela,
dalla preistoria all'annuncio di Cristo. Anche qui il
poeta rivive la storia per figure, ciò che lo interessa
sono i contrasti d'anime; ma a differenza dei Conviviati,
la ricostruzione storica dell'ambiente si prende una parte
molto maggiore e le figure degli eroi sono tolte a
preferenza dalla vita comune, o dei perseguitati o degli
oppressi e sullo sfondo della Roma imperiale, anziché di
quella repubblica cara alla nostra tradizione poetica. Il
capolavoro invero della "Res" è il "Laureolus", un
episodio di un brigante di Aricia scambiato per un Dio
locale, Virbio, e la poesia si risolve in una delicata
pittura dell'ambiente della pietà religiosa di sue umili
vecchi. Nel "Liber de Poetis", l'antichità romana è
rievocata attraverso i suoi maggiori poeti. Virgilio,
Orazio che appaiono ora sullo sfondo, ora in primo piano;
un verso, uno spunto dell'originale, una notizia
biografica bastano al Pascoli per ricostruire poeticamente
quel mondo storico, ove egli si muove da gran signore. In
"Senex Corycius" (1902), quel vecchio di Corico che da
pirata, fattosi ortolano, coltivava il suo orticello
presso Taranto e visitato da Virgilio glie ne indica le
bellezze: delle Georgiche lo spunto, ma ripreso e
svolto con animo e sentimenti pretti del Pascoli: Orazio a
sua volta è il protagonista del capolavoro di questo
gruppo: "Fanum Vacumae" (1910), in ben 20 parti
riproducenti venti metri diversi usati da Orazio; vi si
ritrae il giunger di Orazio nella villa Sabina, la prima
notte inquieta seguita da un sogno agitato, nella visione
tumultuosa della vita trascorsa, sull'alba; dopo il
risveglio il poeta visita la nuova dimora e percorrendola
s'abbandona all'incanto delle sue mille voci, dei suoi
colori. In "Phidyle" (1893) è immaginato un dialogo presso
la fonte Bandusia, tra Orazio e una giovinetta del
contado, sorella in poesia di Rosa. Ultimo il ciclo
cristiano con gli esempi più alti della poesia pascoliana
e moderna tutta, in latino. La cornice è sempre quella
della storia, ma ora del momento cruciale di esso (il più
atto in Pascoli a suscitar poesie), del passaggio dal
paganesimo al cristianesimo. Con giusta visione storica
egli sceglie i suoi protagonisti entro la folla; schiavi,
fanciulli, soldati, donne: nel "Centurio", il centurione
stesso che ha visto la morte di Gesù racconta il fatto a
uno sciame di fanciulli che escono dalla scuola; ed è
tutta pascoliana l'idea della testimonianza della nuova
fede nel crollo del vecchio mondo da parte degli
innocenti. Nel 1858 era stato scoperto in una cella del
Palazzo Imperiale un graffito riproducente un Cristo
crocifisso dalla testa d'asino e sotto la scritta
sgrammaticata: " jAlexavmenoH sevbete qeo;n" ("Alessameno
adora il suo Dio"): li era stata la sede di uno dei
collegi ove dei principino ostaggi di re stranieri
venivano educati nel verbo di Roma. Le nacque il "Paedagogium"
dove il poeta immagina che quel graffito sia d'uno di
quelli educanti, un Gallo violento e riottoso, chiuso in
quella cella per aver picchiato un compagno mite, dolce e
studioso, Alessameno (un ritratto del Pascoli collegiale
d'Urbino, e si ricordano tosto "I due fanciulli", "I due
cugini"); nella notte il Gallo si pente del fatto, chiede
perdono e impara a conoscere dal compagno chi sia quel Dio
crocifisso, e lo segue nel martirio. La tragedia del cuore
materno è espressa in "Thallusa" e "Pomponio Graecina": la
prima, una povera schiava cui fu strappato il bimbo, e
viene ora schiacciata dalla casa per aver troppo amato il
bimbo dei suoi padroni; la seconda, una ricca matrona per
non venir separata dalla propria creatura rinnega il
Cristo, ma poi si pente e, scesa nelle catacombe il giorno
dell'incendio neroniano, si vede portato un nipotino suo,
morto martire della fede. Questi i capolavori, e certo
nulla che per vivezza, "pathos", semplicità abbia l'uguale
nella sua poesia italiana sincrona. A sé stanno, infine,
l'"Inno a Roma" e l'"Inno a Torino", che rievocano in
vastità di affreschi i momenti principali della storia
delle due città. Migliore assai il primo, dove è il noto
passo della "lampada inestinguibile", secondo la leggenda
medievale della lampada trovata sul Palatino accanto al
sepolcro di Pallante (essa è narrata anche nella trilogia
del "Post occasum Urbis" che fa seguito all "Fanum
Apollinis"). I due inni vennero tradotti dal Pascoli
stesso e si leggono nei postumi Poemi del risorgimento.
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