Letteratura italiana: Giovanni Pascoli

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Parliamo di

  Autori del Novecento italiano Giovanni Pascoli
Critica di
  Claude Cènot

 


Canti di Castelvecchio
 

È il quarto volume delle opere e continua Myricae, ne riprende il motto virgiliano: "arbusta iuvant humilesque myricae". Ma perché apparso più tardi (1903), più che a esse è vicino per toni e per i modi ai Poemetti. San Mauro e il suo paesaggio sono ormai solo nel ricordo e si confondono con le impressioni della nuova terra d'elezione: Castelvecchio. Lo stato d'animo di questo momento potrebbe essere definito coi versi di "La mia sera": "O stanco dolore, riposa! - La nube del giorno più nera - fu quella che vedo più rosa - nell'ultima sera". Finito cioè il vagabondaggio di Myricae se ne inizia uno nuovo: ma ora è un viaggio attorno al suo giardino, entro i cancelli e i termini del suo orto. Al di fuori, la vita vive solo come ricordo, nascosta dietro un velo di lacrime e nebbia ("Nebbia"). Il dolore è fermo, uguale e riflettendosi in se stesso si fa meditazione, contemplazione e "racconto". Perciò il libro s'apre con quella figurazione della sua poesia nella "lampada ch'arda soave" consolatrice, lungo l'oscuro cammino della vita, di tutti i cuori, apportatrice di verità e d'amore, quale viene figurata pure nella bella e forte "Canzone dell'ulivo". È un guardare la vita dal di là della morte, dal cancello di un cimitero ecco "Giovannino", ove ritrae se stesso che partito da un cimitero, di S. Mauro, si ritrova da vecchio al punto di partenza; quel suo pellegrinaggio è stato come un continuo morire, e invidia altrui il rifugio della fede, come nell'invocazione di "Il viatico": "O vivo pan del ciel!" - "Portatelo anche a me quel pane, - sul vostro mezzodì" dice alla gente del villaggio; morire nella dolcezza del mezzogiorno, del sole, così presso ai ricordi cari, senza ribellioni. Tale la morte in "Il mendico", che si svolge al modo di un piccolo racconto alla Maeterlinck, quasi un colloquio tra un mendico e la Fortuna, che nulla gli donò e gli preparò la morte buona senza rimpianti. Uno squarcio della sua vita pur esso, quasi un piccolo dramma, la nota lirica "La voce", con quel colloquio tra lui giovane, meditante il suicidio, e la madre, colloquio che si continua tuttora, ma in un'aura di rassegnazione; e quindi i toni sordi, modulati piano, d'evocazione incantata di questa poesia: come l'altra, più drammatica: "La cavalla storna" o "Le ciaramelle", un incantesimo infantile che si fa ora nenia di morte e stempera il ricordo nel pianto senza perché. La morte ritorna in "La tessitrice", evocazione dell'amore lontano, più che a parole, a frasi spezzate, singhiozzate, allusive, quasi un colloquio tra due ombre. Il già luminoso paesaggio e la casa fiorita di "Romagna", ora in "Le rane" e "Casa mia" si tramuta in paesaggio funebre. Ogni voce è un richiamo, con un invito al di là: "Notte d'inverno", "Il brivido", "L'or di notte", "L'ora di Barga". Pure la vita nasce tra il mistero e il silenzio della notte, simile a un fiore che si richiuderà all'alba: "Il gelsomino notturno", splendido per la levità corale d'un incanto notturno. Al centro del libro il poemetto cosmico "Il ciocco" con quell'incantesimo di stelle, che volge il pensiero alla fine del tutto e alle illusioni dell'uomo, non diverse da quelle delle formiche laboriose, arse nel ciocco che brucia, o dalle illusioni dei passeri in "Passeri a sera", che credono amico l'uomo, come questi il cielo. Pur la vita non cessa del tutto: un palpito di sogno ("Il sogno della Vergine"), un sogno di bellezza ("L'ora di Barga"), di fanciullezza, ("Valentino vestito di nuovo") trattiene e richiama ancora il poeta, come lo Zi Meo del "Ciocco" a "la cara vita cui nutrisce il pane".

Il Pascoli è uno strano miscuglio di spontaneità e d'artifizio: un grande-piccolo poeta, o se vi piace meglio, un piccolo-grande poeta. (B. Croce)

 

Luigi De Bellis