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Raccolta di dialoghi mitologico-simbolici composti
nel 1946 e pubblicati a Torino nell'ottobre dell'anno
successivo. Giudicati dall'autore "forse la cosa meno
infelice ch'io abbia messo sulla carta", essi si
distinguono dalle altre sue opere creative per il fatto
che la dottrina del "mito", anziché sottesa a un normale
canovaccio narrativo come interna "poetica", vi appare
direttamente esposta e celebrata, sia pure in termini
fantastici, come "Weltanschauung", cioè come concezione
interpretativa della stessa esistenza umana. Risponde
appunto a questa ambizione di diretti significati
universali e di universale intelligenza (si pensi al
Leopardi delle Operette morali), l'utilizzazione dei miti
greci, desunti, come appare da diversi passi del Mestiere
di vivere, sia da Omero, da Erodoto e dai tragici, sia da
opere di etnografia ove alcuni di tali miti vengono
interpretati come spie della primitiva condizione umana,
la dottrina dell'autore si fonda appunto sulla
determinante persistenza, nella vita dell'uomo, del
primitivo inteso come stampo infantile, irrazionale,
subconscio. Così Issione, Bellerofonte, Edipo, Giacinto,
Endimione, Saffo, Achille e Patroclo, Prometeo, Odisseo e
Circe, Giasone, Dionisio, le Muse e tutti gli altri
personaggi che parlano o di cui si parla nei ventisei
dialoghi di cui l'opera è composta, al di là delle loro
particolari vicende e dei significati naturalistici o
etici che tradizionalmente vi sono collegati e che
garantiscono la necessaria varietà tematica e figurativa,
finiscono per ribadire ogni volta i termini
dell'angoscioso esistenzialismo pavesiano, secondo cui
l'uomo dal momento in cui esce dal caos dell'indistinto
(l'età dei Titani) per affacciarsi al mondo della
razionalità (l'età degli Dei), avverte che il suo destino
è già tutto segnato e che la sua libertà non è che libertà
per la morte. Sono di conseguenza frequenti, in questi
dialoghi, sia gli accenti di commiserazione per la sorte
degli eroi che a volta a volta impersonano l'uomo e la sua
condizione, sia la romantica nostalgia per il mondo
dell'irresponsabilità primigenia, sia, infine, una nota di
religiosa e umanistica esaltazione per l'insopprimibile
aspirazione dell'uomo al divino mondo della chiarezza e
della razionalità. Opera nel complesso non facile, di
ispirazione prevalentemente intellettualistica, intessuta
in una trama fitta di analogie e di simboli verbali non
sempre immediatamente comprensibili, i Dialoghi contengono
tuttavia alcuni dei risultati più alti raggiunti dallo
scrittore piemontese, specialmente là dove l'avvenimento
mitologico, anziché dato come semplice antecedente alla
problematica del dialogo, viene rievocato dagli stessi
interlocutori offrendo così al pensiero di Pavese il modo
di esprimersi anche figurativamente e narrativamente,
attraverso le forme e i colori stessi del mito (vedi per
es. "Il fiore", "La belva", "L'inconsolabile", "Gli
Argonauti"). Cadute le prevenzioni dell'esclusivismo
neorealistico, contro le quali Pavese stesso scese in
lizza a difendere l'opera prediletta, i Dialoghi con Leucò
ci appaiono oggi, negli stessi loro limiti, come una delle
opere più significative della spiritualità del nostro
tempo.
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Nella breve lettera che
Pavese scrisse all'amico Davide Lajolo due giorni prima
del suicidio, ad un certo punto si legge: «Se vuoi sapere
chi sono adesso, rileggiti La belva nei Dialoghi con Leucò:
come sempre, avevo previsto tutto cinque anni fa». Il
dialogo citato era stato composto infatti il 18-20
dicembre 1945. Riportiamo qui queste pagine non tanto per
gli elementi che esse possono fornire per aiutare a
comprendere l'uomo Pavese, quanto invece per testimoniare
l'impianto, le tematiche, le modalità espressive dei
Dialoghi con Leucò, l'opera di Pavese meno popolare e che
invece l'autore prediligeva.
Per una prima lettura (ma si tratta di pagine che di
letture ne esigono parecchie...) basterà tener presente:
che ognuno di questi dialoghi è preceduto da una breve
didascalia dell'autore; che Artemide fu dea venerata in
tutta la Grecia classica (ma con ogni probabilità di
origine preellenica) il cui nome «era probabilmente
un'assimilazione popolare ad artamos = macellaio,
uccisore» (Dizionario di antichità classiche di Oxford) e
che a lei erano sacre le foreste e le colline ricche di
animali selvatici; che delle numerose leggende mitologiche
su Endimione, giovane di straordinaria bellezza, la più
famosa è quella che lo presenta amato da Artemide; che lo
straniero, il dio viandante, è Ermete. Non sfugga nel
testo la ricerca di una prosa evocativa, ricca di echi e
di un alone poetico.
Noi siamo convinti che gli amori di Artemide con Endimione
non furono cosa carnale. Ciò beninteso non esclude - tutt'altro
- che il meno energico dei due anelasse a sparger sangue.
Il carattere non dolce della dea vergine - signora delle
belve, ed emersa nel mondo da una selva d'indescrivibili
madri divine del mostruoso Mediterraneo - è noto.
Altrettanto noto è che uno quando non dorme vorrebbe
dormire i e passa alla storia come l'eterno sognatore.
I Dialoghi con Leucò
Il titolo dei Dialoghi con Leucò è quasi sicuramente
collegato a una vicenda privata di Pavese: la sua passione
negli anni 1945-46 per Bianca Garuffi (Leucotea, e quindi
"Leucò" è la grecizzazione di "Bianca"), risoltasi
anch'essa in una tormentosa frustrazione (con lei, dopo
questa esperienza, avviò un romanzo a quattro mani rimasto
incompiuto, Fuoco grande, pubblicato nel 1956). Nei
Dialoghi con Leucò i temi di fondo che incontriamo nelle
altre opere dì Pavese l'amore, l'infanzia, il passare del
tempo, il destino ineludibile ecc. - sono tutti presenti,
ma filtrati e complicati attraverso un apporto culturale
di grande varietà derivante sia dall'assidua
frequentazione dei testi della grecità sia dagli studi di
etnologia, di analisi del mito, di storia delle religioni,
di psicanalisi ai quali Pavese si era dedicato all'incirca
agli inizi degli anni Quaranta (e che sul piano pratico
sfoceranno nell'istituzione, da lui voluta, della
einaudiana "Collana di studi religiosi, etnologici e
psicologici").
È difficile dare qui un'idea della varietà di motivi e di
"timbro" dei vari dialoghi; possiamo soltanto dire che un
tema di fondo della produzione di Pavese- il passaggio
dall'infanzia (coi suoi miti), alla maturità, che è
consapevolezza ma anche frattura - è qui trasferito e in
certo qual modo emblematizzato nel passaggio - a cui
questi interlocutori in vario modo si rifanno - dal mondo
dei Titani (indistinto caos) al mondo degli Dei
(razionalità e coscienza del limite). Questi due momenti,
questi due stadi - il titanico e l'olimpico - sono parsi
ad alcuni critici una ripresa della dialettica
dionisiaco/apollineo di Nietzsche: «L'apollineo e il
dionisiaco diventano in Pavese l'olimpico e il titanico, e
fra i due ordini c'è una sola possibile conciliazione,
l'opera d'arte che entrambi li presuppone. E se Pavese
attribuisce all'Olimpo una facoltà raziona lizzatrice
destinata ad annullare il titanico è perché paventa di
esserne posseduto» (Mondo). All'interno quindi di questa
complessa architettura culturale (qui fugacemente
indicata), gli interlocutori mitologici finiscono con
l'affrontare, sia pure attraverso una fitta trama di
allusioni e di simboli (che rende spesso ardua la
comprensione), i problemi e i conflitti della condizione
umana. Si tratta insomma di un tipo di dialogo che può
essere rapportato (fu lo stesso Pavese a suggerirlo) alle
Operette morali leopardiane. Ma dalle Operette i Dialoghi
si distinguono perché, più che alla dimostrazione di una
tesi con un serrato impianto argomentativo, essi mirano a
suggerire - con l'allusione dotta, con una fitta trama di
analogie e soprattutto con una scrittura retoricamente
calcolata -stupori, angosce, inquietante senso del
destino. Per raggiungere questi obiettivi Pavese si affida
soprattutto a una prosa per così dire melodica, nella
quale la parola è utilizzata in tutte le sue valenze
semantiche e foniche e il ritmo del periodo ha di volta in
volta qualcosa di stupefatto, o di solenne, o di arcano:
nei Dialoghi Pavese ha dato, della sua capacità di
prosatore, una delle prove più alte, anche se non priva di
un sospetto di (talvolta eccessiva) sofisticazione.
Nel dialogo riportato non è difficile individuare con una
lettura attenta le caratteristiche generali cui sopra
abbiamo accennato: da un lato un tema che in Pavese si
alimentava di esperienza autobiografica - l'amore e la
donna come sgomento, come rivelazione del limite e in
definitiva come annientamento, morte (illuminante quanto è
detto nella citata lettera a Lajolo) -, da un altro
l'impegno a tradurre questo lacerto di vita in forma
artistica, con una prosa calibrata di echi e riprese (rr.
15-16: «toccato... toccato», rr. 18-22: «dormire...
dormo... dormendo»,- r. 39: «Non diciamo il suo nome. Non
diciamolo. Non ha nome»; ecc.) che di frequente si risolve
in canto (rr. 11-13: «E tu vai per le strade a quest'ora
dell'alba», «quando escono appena dal buio», «e nessuno le
ha ancora toccate»; rr. 20-21 : «di ascoltar lo stormire
del vento»; r. 24: «io non trovo più pace nel sonno»).
Dopo aver sottolineato l'intensità lirica di questo
dialogo, Michele Tondo scrive: «La belva è incentrato sul
motivo della rivelazione della donna come rivelazione
della morte: a fermarsi alle sole componenti etnologiche
che sottendono il dialogo, si corre il rischio di non
cogliere tutto il dolente e umanissimo sentimento della
donna, nella quale Pavese finisce per assommare tutte le
sue aspirazioni, ma il cui sorriso è "incredibile,
mortale". Tutto il dialogo respira nel cerchio di una
drammatica rivelazione del proprio destino: di qui il tono
lento, pausato, come di sbigottita tristezza». (Guglielmino
- Grosser) |