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L'attività di Cesare Pavese non fu solo quella di
narratore e di poeta: valente traduttore di testi
significativi della letteratura americana dell'Ottocento
(celebre 1a sua traduzione del Moby Dick di Melville) e
soprattutto del Novecento (Dos Passos, Steinbeck, Faulkner,
Sarovan, ecc.), egli contribuii - anche con la sua opera
critica - a diffondere attorno agli anni Trenta la
conoscenza e l'interesse per la letteratura americana
nella cultura italiana e presso un certo pubblico.
Inoltre, lavorando stabilmente presso la casa editrice
Einaudi, ebbe il merito di proporre alla cultura italiana
testi e temi estranei sia agli orizzonti idealistici sia a
quelli marxisti (si pensi alla "Collezione di studi
religiosi, etnologici e psicologici", da lui ideata e
fondata con la consulenza di specialisti, che fece
conoscere le opere di Kerènvi, Malinowski, Propp, ecc.).
Pavese esordisce come poeta con la raccolta Lavorare
stanca (1936), nella quale con notevole consapevolezza
critica si oppone alle modalità ermetiche egemoni in
quegli anni e sceglie la soluzione della
"poesia-racconto", di una poesia cioè che si distenda in
ampi ritmi narrativi, adotti i temi del parlato, faccia
posto ad un mondo brulicante e vivo - le osterie, la
campagna, la città - e rompa definitivamente col rarefatto
solipsismo di tanta poesia contemporanea. Ma Pavese è
soprattutto un narratore, vale a dire un artista che
esprime il suo mondo interiore attraverso l'invenzione di
una vicenda, la varia tipologia dei personaggi, i rapporti
che fra di loro si instaurano. Nei primi due romanzi - Il
carcere e Paesi tuoi questo processo di espressione e di
oggettivazione del proprio mondo raggiunge subito
risultati di notevole interesse: ne il carcere (scritto
nell'estate del '39) è già espresso un motivo di fondo
della personalità di Pavese, che sarà presente in tutta la
sua posteriore produzione: la solitudine o meglio
l'ambiguo rapporto nei riguardi della solitudine, sentita
come "carcere" da cui è necessario uscire e nel contempo
accettata come interiore vocazione, come destino; in Paesi
tuoi la rappresentazione di una campagna primitiva e
barbarica, i temi delle violente passioni e del sangue
evidenziano già un'area di interessi - i1 primitivo, il
barbarico, la sacralità rituale della campagna - che
Pavese via via approfondirà. Paesi tuoi era quindi ben
altro che un romanzo realistico e tuttavia fu proprio
questo testo ad alimentare per parecchi anni specie dopo
il '45 - l'equivoco di un Pavese "realista" (o meglio:
"neorealista").
Approfondendo con studi di antropologia, etnologia,
psicoanalisi i temi già presenti in Paesi tuoi Pavese
elabora un'ideologia e una poetica nelle quali assumono
importanza fondamentale le esperienze infantili, i "miti"
che la campagna, la natura, il primigenio contatto con le
cose creano nel fondo della nostra coscienza, i legami -
una sorta di memoria del sangue - con la terra d'origine
(cioè dell'infanzia). L'esperienza dello "sradicamento"
frantuma questo rapporto uomo/ natura o uomo/campagna, ed
ecco allora l'opposizione campagna/città, la prima sentita
come premessa e sede di una totalità, di una pienezza
esistenziale, la seconda come depauperamento, lacerazione,
solitudine. C'era in questa complessa elaborazione
l'esperienza autobiografica di Pavese, ma c'erano anche
componenti non ignote alla cultura del decadentismo. Nel
decennio della sua maturità creativa, gli anni Quaranta,
Pavese dando prova di una notevole disponibilità
sperimentalistica lavora sui due ambiti tematici connessi
a quanto sopra si è detto: da un lato la messa a fuoco
dell'uomo depauperato e alienato nel contesto cittadino,
luogo deputato della chiacchiera senza comunicazione e
dell'eros senza amore (La bella estate, La spiaggia, Tra
donne sole), dall'altro la ricerca della totalità umana e
delle sue radici: ed ecco le prose e i racconti di Feria
d'agosto, nei quali con una scrittura di ascendenza
solariana (ben lontana dal neorealismo) egli avvia il
recupero dei miti dell'infanzia e delle strutture profonde
dell'io, ecco La casa in collina e soprattutto La lana e i
falò, che di tale recupero scandisce la drammatica
precarietà. |