Letteratura italiana: Cesare Pavese

   Home        

 

Parliamo di

  Autori del Novecento italiano: PAVESE
Analisi opere
Enzo Noé Girardi

 


La luna e i falò
 

Ultimo romanzo composto tra il settembre e il novembre del 1949 e pubblicato a Torino nel 1950. Può ritenersi, per sapienza costruttiva e stilistica, l'opera più perfetta dello scrittore piemontese che con esso vinse il premio Strega 1950. Ambientato in un paese delle Langhe, si compone di tre nuclei narrativi fondamentali. Il primo, che costituisce l'elemento generatore e, per così dire, "portante", si impernia sulle figure del narratore, cioè di Anguilla, il trovatello che ha fatto fortuna in America e, ritornato al paese, vi riscopre i luoghi e le impressioni dell'infanzia, e di Nuto, l'amico saggio che non ha mai lasciato il paese, che ha vissuto e sofferto le vicende della sua gente e che Anguilla ammira proprio per quella capacità di aderire e di credere alla vita che lo fa tanto diverso da lui. Dalle ricognizioni paesistiche dell'inquieto "americano", dal suo solitario monologare di memoria in memoria, nonché dal dialogo con l'amico e dalle rivelazioni cui quest'ultimo si lascia andare a poco a poco, il racconto si viene costruendo sia come quadro d'ambiente naturale e umano, geografico e storico, sia come studio di singole figure e sorti, sia, in definitiva, come giudizio fornito dall'autore su se stesso e sul mondo. Appunto nell'ambito di questa maturazione interna del racconto si determinano gli altri due principali nuclei narrativi, cioè le storie degli abitanti delle due terre, la Gaminella e la Mora, dove Anguilla ha vissuto rispettivamente l'infanzia e l'adolescenza. Contemporanea al dialogo Anguilla-Nuto, e pur di un singolare sapore arcaico e astorico, è la vicenda di quelli della Gaminella: il capoccia Valino, succeduto nella conduzione del fondo al padre adottivo di Anguilla, le sue donne, e il figliuolo sciancato Cinto, l'unico che si salva dalla furia folle del padre che s'appende alla vigna dopo aver fatto un "falò" della casa, delle donne e delle bestie in una notte di luna. Rievocate invece dal passato, ma tanto più ricche di determinazioni storiche e psicologiche, sono le tre vicende "borghesi" delle padroncine della Mora, segretamente amate, un tempo, dal garzone Anguilla: di un vago sapore crepuscolare quelle di Irene e di Silvia, travolte da un destino di fidanzamenti illusori e di compromessi; drammaticamente violenta quella della più giovane, Santina, che resa anzitempo esperta dalla sorte delle sorelle, ha voluto vivere la sua vita, e finisce giustiziata come spia dai partigiani e poi cosparsa di benzina e data alle fiamme di un secondo "falò", in cui bruciano anche gli ultimi residui dell'infanzia di Anguilla. A parte il duplice finale, ove l'elemento simbolico è forse troppo insistito, nel complesso del racconto realismo e simbolismo si equilibrano e si fondono in una sintesi che ne costituisce l'inconfondibile, originalissimo tono. E quanto al suo significato ultimo, esso andrà colto, al di là di talune screziature di polemica sociale e religiosa che servono per lo più solo alla definizione del personaggio di Nuto, nel sentimento, che vi domina, ora elegiaco, ora tragico, dell'irrimediabile fine delle cose e dell'inutilità di ogni sforzo contro il destino. Un giudizio che Pavese avrebbe confermato pochi mesi dopo, togliendosi la vita.
 


Inreccio e struttura

È piuttosto difficile esporre con un certo ordine l'intreccio di questo romanzo e ciò è dovuto alla sua particolare struttura, che poggia sulla contaminazione di tempi differenti, di presente e di passato, di accadimenti dei quali il protagonista è ora spettatore e di memorie e rievocazioni del passato. Protagonista è Anguilla, un trovatello che è cresciuto nelle Langhe lavorando in campagna presso varie famiglie ed è poi emigrato in America. Qui ha pur fatto fortuna e tuttavia ritorna alle sue Langhe per un oscuro bisogno di ritrovare la propria identità. Su questo impianto che ha alle spalle una millenaria tradizione - è il nostos, il ritorno utilizzato già dall'epica - si dipana la vicenda di Anguilla ed è forse possibile distinguere ma prendendo l'indicazione con elasticità - tre grandi blocchi nella narrazione. Nella prima parte emerge attraverso la rivisitazione dei luoghi - bricchi, colline, cascine - fatta o da solo o in compagnia di Nuto, l'amico d'infanzia ritrovato. il più lontano passato di Anguilla che egli ha trascorso nel casotto di Gaminella "a servizio" di una misera coppia di contadini; ora, ai suoi vecchi padroni è subentrato il Valino ma Anguilla ritrova gli stessi aspetti delle cose («la stessa corda col nodo pendeva dal foro dell'uscio... la stessa pianta di rosmarino sull'angolo della casa») e la stessa miseria di una volta e in un povero ragazzo denutrito, Cinto, figlio del Valino, Anguilla rivede se stesso. Ed intanto col recupero del passato si intreccia il presente: le beghe di paese, il clima di restaurazione politica del finire degli anni Quaranta. Il secondo blocco narrativo (capp. xv-xxv) è soprattutto centrato sul tempo - che riemerge attraverso dialoghi con Nuto o casuali sollecitazioni - trascorso da Anguilla presso un altro podere, La Mora, e nella memoria del protagonista ritornano i ricordi collegati alle tre figlie del sor Matteo - un benestante con «la palazzina... rosa in mezzo ai suoi platani secchi» -, le "signorine" idoleggiate da lontano, sentite come incarnazioni di una femminilità conturbante ma, per il trovatello "a servizio", inattingibile. Segue poi l'ultima parte, che per così dire oppone all'elegiaco recupero del passato un tragico presente: si apre col capitolo mi che dà notizia del gesto disperato del Valino che appicca fuoco alla cascina e si impicca, e continua con la rievocazione - in forma indiretta. attraverso il racconto che ne fa Nuto - dal fallimentare destino delle figlie del sor Matteo, una delle quali. Santa. diventata spia dei fascisti. è stata fucilata dai partigiani. Sul cadavere, racconta Nuto, «ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L'altr'anno c'era ancora il segno, come il letto di un falò». Sono le ultime righe del romanzo.

Motivi

Un primo motivo di fondo de La luna e i falò è da collegare alle meditazioni e agli studi sul mito che Pavese inizia all'incirca ai primi anni Quaranta e che lo portano alla valorizzazione delle primigenie esperienze, che per ogni essere umano si collocano nell'infanzia, la stagione quindi nella quale si costituiscono le "mitiche" componenti della propria individualità. La ricognizione e la consapevolezza delle valenze costitutive della propria personalità sono possibili solo attraverso questo ritorno alle "radici", cioè al mondo dell'infanzia (nella biografia e nella mitologia di Pavese, la campagna, la terra, il "paese" che saranno sempre contrapposti alla città). Da queste radici, nel caso specifico, Anguilla si è staccato e nella vicenda della sua fallimentare esperienza americana Pavese ha esemplificato le conseguenze di questo distacco, di questo taglio; il ritorno di Anguilla va visto alla luce di queste posizioni ideologiche (che però non pesano sulla rappresentazione, cioè non la appesantiscono con intrusioni teorizzanti, ma ne costituiscono la premessa). La "situazione" de La luna e i falò era stata già anticipata in un racconto («La Langa») di Feria d'agosto (1945), e questo rapporto - non solo sentimentale ma di sangue, quasi di osmosi fisica - con la propria terra torna ad essere ribadito nel romanzo: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante. nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

La particolare fisionomia - all'interno della produzione di Pavese - de La luna e i falò è costituita però dal fatto che ora viene rappresentata la non realizzabilità, il fallimento di questo processo di ricongiungimento e di reintegrazione della propria personalità nel clima "mitico" del passato infantile. Ora tutto è uguale e tutto è cambiato, e i falò non sono quelli che nella ritualità contadina servivano a «svegliare la terra» ma quelli che riducono Santina «tutta cenere». È un motivo, questo, che, a partire all'incirca dalla metà del romanzo, ricorre con insistenza e assurge a lamento - ora elegiaco ora disperato - della condizione umana: «male facce, le voci le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c'erano più. Da un pezzo non c'erano più. Quel che restava era come una piazza l'indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato».

Assieme a questo motivo (necessità di un ritorno alle "radici" e impossibilità di realizzarlo), ne appare sia pure tangenzialmente - un altro più circoscritto, più contingente: il fallimento della Resistenza, accennato attraverso la rappresentazione delle beghe paesane e del comportamento dei "notabili"; in parecchie pagine il clima dell'Italia della seconda metà degli anni Quaranta, cioè della restaurazione centrista, è colto con rapida efficacia.
Si tratta certamente di un motivo secondario nell'economia del romanzo, ma non per questo va ignorato o ritenuto, come è parso ad alcuni critici, estraneo e giustapposto.

Nuto

E d'altra parte il personaggio Nuto nella sua solidità di «vecchio compagno», nei suoi giudizi sui notabili o nella sua volontà di rinnovamento sociale non riuscirebbe interamente comprensibile prescindendo da questo (sia pure minoritario) motivo politico. fiuto nel sistema dei personaggi assolve rispetto ad Anguilla una funzione che è di opposizione e di completamento: egli è rimasto nei luoghi dove è nato e cresciuto, ne ha assimilato l'atavica esperienza, sa che nella luna «bisogna crederci per forza», che se provi «a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi». Come ha notato Lorenzo Mondo, Nuto ha molteplici ascendenze: «è il clarinettista de I fumatori di carta [in Lavorare stanca] e il Candido del racconto il mare, fors'anche il Pablo de Il compagno, liberato dalla chitarra e dalla soggezione a Hemingway, e inserito in una tradizione tutta italiana, quella dei Vittorini ("gli eroici furori") e dei Pratolini (il Metello sindacalista "Se ti stacchi ti perdi"). A lui che "di tutto vuol darsi ragione" e sostiene che "il mondo è mal fatto e bisogna rifarlo" Pavese affida il suo pungente moralismo, la sua ansia, più religiosa che politica, di redenzione umana».

Tecniche narrative e stile

La struttura del romanzo alla quale abbiamo accennato all'inizio comporta per il protagonista-narratore la tecnica della disarticolazione del tempo cronologicamente inteso, cioè la continua interferenza di due piani del tempo: il presente e il passato. Si potrebbe forse anche sostenere che ad ognuno di questi piani corrispondano modalità stilistiche specifiche: una precisione di notazioni e di dettagli, una vocazione "realistica" per la rappresentazione del presente; una vocazione "lirica", un abbandono a tonalità di «una straziata e straziante melanconia» (A. Guiducci) nella rievocazione del passato, ora che i1 protagonista-narratore sa che «crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com'era adesso». In questo secondo caso la prosa di Pavese si distingue per spiccate valenze ritmiche e melodiche; per un andamento poetico sui quali la critica - da Beccaria a Finzi - ha richiamato l'attenzione. È, a questo proposito, opportuno ricordare le suggestioni di «Solaria» alle quali la formazione letteraria di Pavese non fu estranea.

 

Luigi De Bellis