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Cercheremo ora di fissare alcune tappe fondamentali dell`"itinerario
creativo" di Pavese, di mettere in luce il progressivo
definirsi di certi principi di poetica e di certi motivi
ispiratori e temi di fondo che sono ricorrenti nella sua
produzione, nel suo "fare" artistico.
La novità di Lavorare stanca
Pavese esordisce come poeta e questo settore della sua
produzione merita a nostro avviso più attenzione di quanta
generalmente non gliene venga dedicata (alme no nella
comune prassi scolastica). Nel 1936 esce per le edizioni
di «Solaria» la raccolta Lavorare stanca (comprendente
quanto egli ha scritto a partire dal 1930), che sarà poi
ripubblicata - con l'aggiunta di 31 nuove poesie e con
l'eliminazione di 6 in edizione definitiva da Einaudi nel
1943. Questa cospicua differenza tra le due edizioni pone
ovviamente problemi complessi; sin da ora è comunque
possibile cercare di fissare le principali caratteristiche
della sua poesia. In un periodo di piena culto ermetico
Pavese imbocca una strada antitetica: quella della
poesia-racconto, di una poesia cioè che si distenda in
ampi ritmi narrativi, adotti i toni del parlato, faccia
posto ad un mondo brulicante e vivo - le osterie, la
campagna, le vie della città, la desolata periferia - e
rompa definitivamente col rarefatto solipsismo di tanta
poesia contemporanea.
Come egli stesso polemicamente dichiarava, «in tempi che
la prosa italiana era un colloquio estenuato con se stessa
e la poesia un sofferto silenzio, io discorrevo in prosa e
in versi con villani, operai, sabbiatoci, prostitute,
carcerati, operaie, ragazzetti». Sul piano formale
l'esigenza narrativa si concreta e si realizza in un verso
lungo dalle cadenze ampie ed ariose (generalmente un
decasillabo allungato di qualche piede, un verso di
tredici sillabe), nel quale è evidente la suggestione
delle soluzioni metriche di Whitman (che, come si
ricorderà, era stato oggetto della tesi di laurea di
Pavese) ma anche quella «dell'esperienza poetica torinese,
da Thovez a Gozzano, e delle lasse prosastiche inventate
da Jahier» (Luperini): «Camminiamo una sera sul fianco di
un colle», «Mio cugino è un gigante vestito di bianco». In
questa prospettiva - di cui Pavese ebbe piena
consapevolezza critica, come risulta dal saggio Il
mestiere di poeta, un suo scritto di poetica di questi
anni - «poesia-racconto è poesia epica, è voler
riconquistare la possibilità di nominare le cose per farle
così poeticamente reali; perciò è necessaria la massima
aderenza cose-parole, e che queste si susseguano nel ritmo
di un verso che nulla conceda alla musicalità fine a se
stessa» (De Michelis). Ma questi primi canoni di poetica
subiscono via via notevoli modifiche, la più importante
delle quali è costituita dal fatto che Pavese, avvertendo
che la poesia-racconto può anche andare a finire nel
vicolo cieco del bozzettismo naturalistico, teorizza una
poesia che si risolva in immagine, impegnandosi - come
egli stesso dichiara - nello < sforzo di rendere come un
tutto sufficiente un complesso di rapporti fantastici nei
quali consista la propria percezione della realtà». Non si
pensi comunque ad una svolta definitiva delle sue modalità
poetiche: le date di composizione delle poesie di Lavorare
stanca dimostrano che la poesia-racconto e la
poesia-immagine coesistono, magari alternandosi.
Lavorare stanca - così come la leggiamo ora - si presenta
quindi come una raccolta tutt'altro che compatta e
univoca, ma solo una puntuale auscultazione dei testi
potrebbe metterne in luce le differenti valenze tematiche
e stilistiche. A definirne lo spirito e il senso
complessivo, lo stesso Pavese nel 1940 (A proposito di
alcune poesie ...) scriveva che Lavorare stanca era
incentrata sull'«avventura dell'adolescente che,
orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la
città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e
la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo
lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine
che è la fine dell'adolescenza». Il che significa,
rendendo esplicita ed esemplificando questa indicazione,
che siamo di fronte già ad una serie di motivi, di veri e
proprio topoi pavesiani che ritroveremo in tutta la sua
produzione posteriore: la solitudine come condanna
esistenziale e incapacità di rapporto e di dialogo con gli
altri («Val la pena essere solo, per essere sempre più
solo?») e, come corrispettivo, il vagheggiamento della
donna, che si concreta in una molteplicità di soluzioni
tematiche e stilistiche; la campagna come luogo mitico,
come matrice prima in cui affondano le loro radici le
prime impressioni, la prima conoscenza del mondo, e della
quale vengono mitizzate certe situazioni e componenti:
sesso, sangue, violenza delle passioni, sacralità di certi
riti propiziatori (una tematica, questa, che dai versi de
Il dio-caprone passsa a Paesi tuoi e arriva sino a La luna
e i falò); la situazione, la "figura" dell'espatriato, di
colui che si è allontanato e sradicato dal proprio mondo,
è andato in giro, magari ha fatto fortuna, ma prima o poi,
col ritorno ai propri luoghi e col rimpatrio, tenta ancora
un aggancio col passato infantile, in un ritorno alle
radici che è ricerca e ricognizione della propria
identità. Un tema, questo, che ha due realizzazioni
esemplari che significativamente si collocano all'inizio
(il cugino di Mari del Sud) e a conclusione (l'Anguilla de
La luna e i falò) della produzione di Pavese.
ll carcere della solitudine: Il
carcere
Pavese è uno scrittore che alla vocazione creativa,
fabulatoria, unisce un'estrema consapevolezza critica,
un'abitudine costante alla distaccata analisi del proprio
lavoro, al perenne bilancio. Nella prima pagina del
Secretum professionale (che diventerà Il mestiere di
vivere) il 6 ottobre 1935 (già da due mesi si trova a
Brancaleone come confinato) esprime ed argomenta la sua
insoddisfazione per l'esperienza poetica, asserisce di
pensare a « nuove cose da dire e quindi nuove forme da
foggiare»: si dedica pertanto all'attività narrativa
(della quale c'era stato per la verità qualche fugace
esperimento nel passato). Trascurando qui di necessità le
prove iniziali, ricorderemo almeno IL carcere che, scritto
tra il novembre 1938 e l'aprile 1939 (ma pubblicato circa
dieci anni dopo, nel 1948, e vedremo poi il perché),
riprende in parte una tematica presente in un racconto del
1936 (Terra d'esilio) e costituisce la sua prima prova
narrativa di notevole validità. Più che l'autobiografia
esterna - il protagonista vive l'esperienza del confino
come qualche anno prima Pavese - conta l'autobiografia
interna: la vicenda di Stefano è quella di un
intellettuale che ha sufficiente consapevolezza etica per
sentire che è necessario rompere la solitudine, aprirsi al
mondo degli altri («L'isolamento bisognava spezzarlo
proprio fra quelle case basse, fra quella gente cauta
raccolta fra il mare e la montagna...»), ma nello stesso
tempo dalla solitudine si sente ambiguamente risucchiato,
più o meno incoscientemente avvertendo che nella fuga e
nella separatezza è il suo destino: «come un ragazzo che
trovata una grotta nel bosco, si raggomitola giocando alle
intemperie e alla vita selvaggia». Più che le implicazioni
politiche, peraltro non assenti, di questo romanzo va
sottolineata la lucida analisi della condizione
esistenziale, dell'interiorità del protagonista, e a
questa analisi sono funzionali sia l'adozione della terza
persona (che impedisce eventuali tentazioni di
autobiografismo e di compiaciuto lirismo) sia il
(relativamente) scarso impegno di definizione e
costruzione degli altri personaggi: in fondo essi non
hanno altra funzione che quella di mettere in moto la
dinamica psicologica del protagonista - e perciò il
frequente ricorso alla tecnica della focalizzazione
interna. |