Per
una prima lettura di questa che è una delle più
celebri liriche di Saba basterà chiarire che per
celebrare la moglie (una presenza frequente nel
Canzoniere) Saba sceglie una strada certamente
insolita nella tradizione lirica italiana (ma lo è
anche la celebrazione della moglie...): la paragona
ai vari animali - «i sereni animali / che avvicinano
a Dio» - di cui mette in luce, con francescana
disposizione, le qualità. La donna amata è quindi
come una «bianca pollastra» che incede impettita,
come una cagna ardente d'amore e di gelosia, come
una «gravida giovenca» ecc.
Per quanto riguarda l'aspetto stilistico ci
limitiamo a poche osservazioni schematiche ed
essenziali.
a) Come quasi sempre in Saba, il lessico è tutto
attinto alla lingua parlata e usuale, il tono è
colloquiale e dimesso («tu questo hai... questo
che...»); ma è anche vero che «è piuttosto la
sintassi che prende su di sé il compito di sollevare
il tono di quel tanto, rispetto alla prosa, da farne
un verso, sia pure di quei versi raso terra che per
Saba sono i più rari. La sintassi interviene così a
elevare i toni troppo dimessi e triti» (Devoto-Altieri).
b) Ogni strofe si conclude con l'esplicito rapporto
tra l'animale descritto e la donna e con l'accenno -
quasi ricorrente motivo musicale - alla sofferenza,
alla tristezza.
La struttura, semplicissima, può far pensare a una
litania, fondata com'è su strofe di alterna
lunghezza, ognuna delle quali provoca l'emergenza di
una femmina animale, la definisce e fissa, nello
stesso tempo, un'apparizione di Lina. L'esperienza
dei Versi Militari ha giovato a Saba: il linguaggio
si è fatto più asciutto ed economo, colpisce con
precisione e non inciampa in ostacoli predicativi.
Così si edifica, senza strappi, un piccolo sistema
al centro del quale troviamo Lina che acquista
spessore, si individua nei contrasti: diviene
lentamente se stessa attraverso successive
metamorfosi. Intorno le gravita un singolare
bestiario, dove gli animali (come sempre in Saba)
non sono controfigure umane né corpi di categorie
morali, ma portatori di un enigma che Saba interroga
nelle profondità di questi numi tutelari, di questi
pazienti testimoni sprovvisti - sempre - del dono (o
del vizio) di parlare e - sempre - legati
organicamente al mondo dell'infanzia. La pollastra,
la giovenca, la cagna, la coniglia, la rondine, la
formica e la pecchia, «tutte le femmine di tutti i
sereni animali» si sgranano davanti a noi,
realizzando il miracolo della mutevole identità di
Lina, che costituisce il perno della poesia: le
immagini alla fine non si presentano come una serie
discontinua di addendi, ma si aprono l'una dopo
l'altra, l'una sull'altra, senza fratture,
concentricamente; la prima è quella che rompe la
superficie, la più evidenziata e accanita; le altre
si dilatano intorno, con tempi variabili di
apparizione, pian piano più rapide, più tenui fino a
spegnersi nella totalità.
Va però precisato che il Lavagetto, con un'analisi
che utilizza una fitta trama di riferimenti ad altri
testi di Saba, mette in evidenza come l'immagine di
femminilità qui evocata sia riconducibile - sia pure
attraverso una complicata serie di mediazioni -
all'immagine materna. Lo stesso Saba d'altra parte
definì A mia moglie «una poesia infantile»,
aggiungendo che «se un bambino potesse sposare e
scrivere una poesia per sua moglie, scriverebbe
questa». Osservazione, questa, che «non lascia dubbi
[...]. Saba sapeva benissimo (probabilmente lo
sapeva da sempre e Freud glielo aveva riconfermato)
chi sposerebbe un bambino se fosse libero di farlo»
(Lavagetto). |