«Trieste
è la città, la donna Lina» dirà Saba in
Autobiografia, a sintetizzare i suoi due amori;
Trieste e una donna si intitola d'altra parte la
raccolta nella quale, come precisa il poeta, «la
città e la donna assumono per la prima volta i loro
inconfondibili aspetti; e sono amate appunto per
quello che hanno di proprio e di inconfondibile.
Trieste è la prima poesia di Saba che testimoni
della sua volontà precisa di cantare Trieste proprio
in quanto Trieste e non solo in quanto città
natale». Ma è una dichiarazione, questa, che - come
vedremo dopo la lettura - va presa con cautela.
Riesaminiamo, come si è detto nella presentazione,
la dichiarazione di Saba di voler «cantar Trieste
proprio in quanto Trieste e non solo in quanto città
natale». In realtà la descrizione della grazia
scontrosa, del fascino di questa città che in ogni
parte è viva non è fatta con l'animo del visitatore,
non è una pagina di giornale di viaggio, ma vibra
del commosso affetto di chi vive in questa città, e
la sente sua e trova in essa il cantuccio a lui
adatto, alla sua vita pensosa e schiva. Anzi,
Trieste diventa addirittura espressione e proiezione
dello stato d'animo del poeta: alla grazia scontrosa
della città fa riscontro la vita pensosa e schiva
del poeta. Nella lirica quindi «il soggettivo e
l'oggettivo si identificano con assoluta fusione
lirica» (C. Muscetta).
Scegliamo questa lirica (che ha versi di esemplare
linearità: 1; 8-9; 15-16; 19-22) per richiamare
l'attenzione sui dati fondamentali da cui dipende la
singolarità della poesia di Saba nel panorama del
Novecento: la dimensione di «poesia discorso»
(Beccaria), la chiarezza (e Chiarezza appunto era il
titolo che egli aveva pensato di dare al
Canzoniere), la sua decisa scelta non per una poesia
che suggerisce ma per una poesia che nomina (Debenedetti)
e che utilizza il significante anzitutto e
soprattutto per le sue valenze semantiche e non per
i compiacimenti fonici che finiscono col dissolvere
il significato. Scrive a questo proposito Gian Luigi
Beccaria:
In pochi libri del Novecento si entra con facilità
come nel Canzoniere. Una ingannevole innocenza,
certo, una facilità apparente. Comunque, il non aver
calcato la mano né sul culto né
sull'"inesprimibile", garantiva ai suoi versi
"popolarità" (anche scolastica), per quell'aver
cercato sempre di dare un nome preciso all'emozione,
al quadro, al sentimento e alla parola che li
rappresenta. La parola non si rendeva autonoma dalla
frase, e del fraseggio poetico non oscurava il
senso.
Lo riportava dunque all'«inattuale», fuori del clima
generale simbolistico-decadente, la linea tutta
psicologica ed esistenziale di un Canzoniere romanzo
personale del poeta, poema di una vita, gremito di
concretezza, di particolari quotidiani: incontri,
visi, angoli di città, il porto, i vapori che
partono, le osterie di campagna, le piazze
affollate, il frastuono di una fiera. Gioioso o
amaro il quotidiano intride il suo verso, e la
poesia del quotidiano è ritratta senza il distacco,
l'accidia crepuscolare vuoi nelle forme vuoi nella
sostanza.
Quanto alle forme, nonostante D'Annunzio, nonostante
Pascoli, esse perdurarono in Saba aliene da
autonomie di dizioni liberate, atte a comporre
dissolvenze del significante dissolventi il
significato. Il significante non era rivissuto con
la moderna sensibilità "musicale" per l'armonia
sottile e sofisticata dello stile verso cui la
grande poesia coeva era diventata sensibile, se
penso alla generale attenzione per la sostanza
fonica del verso cui il senso restava come
"subordinato", al gusto simbolistico-decadente che
cercava di derivare il messaggio effettivo del
componimento dalla sostanza quasi fisica e sensuale
del linguaggio. Saba restava il romantico
ottocentesco che nutre fiducia nel verso chiaro e
trasparente, quello che addita, fa apparire un mondo
e lo rischiara. Il suo costituzionale antiermetismo
si volgeva ad un discorso sempre articolato e
sintattico, al limite spesso della semplicità e
della prosa. |