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Autori
del Novecento italiano |
Analisi
opere |
1 |
Le opere di Bufalino sono
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Gesualdo Bufalino |
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Gesualdo Bufalino, nato a Comiso (in
provincia di Ragusa) nel 1920, è sempre vissuto nel paese
natale, insegnando in un istituto magistrale. A sessant'anni,
su sollecitazione di amici, pubblica Diceria dell'untore
(1981), che suscita adesioni ed entusiasmi della critica
più qualificata, e dopo pochi mesi vince il premio
Campiello. In seguito Bufalino "svuota i cassetti" dove
aveva accumulato í suoi lavori (le poesie de L'amaro
miele, 1982; una traduzione dei Fiori del male di
Baudelaire, 1983, e delle Controrime di P.-J. Toulet,
1981), e nel contempo scrive raffinati elzeviri (raccolti
in Cere perse, 1985; La luce e il lutto, 1988) e altri
romanzi: Argo il cieco (1985) e Le menzogne della notte
(1988), nei quali alla sontuosità della scrittura che gli
è propria unisce qualche "civetteria" - volta a superare
la narratività tradizionale da anti-romanzo o da
meta-romanzo (riflessioni e dialoghi col lettore sulla
convenzionalità della finzione narrativa, sull'identità
del narratore, ecc,). È morto nel 1996 in un incidente
stradale, poco dopo aver dato alle stampe Tommaso e il
fotografo cieco.
Ecco come del romanzo Diceria dell'untore l'autore
sintetizza l'argomento: «Si racconta la convivenza di
alcuni reduci di guerra moribondi in un sanatorio della
Conca d'Oro, nel '46. Fra il protagonista e una paziente
dagli ambigui trascorsi (Marta) nasce un amore, puerile e
condannato in partenza, più di parole che d'atti, il cui
sbocco è una fuga a due senza senso, e, subito dopo, la
morte di lei in un alberghetto sul mare. Egli, invece,
guarisce, inaspettatamente, e rientrando nella vita di
tutti, vi porta un'educazione alla catastrofe di cui
probabilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di
un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre».
In Diceria dell'untore - come appare anche dalla rapida
sintesi che l'autore ne dà - risulta evidente la presenza
di motivi che hanno illustri ascendenze letterarie: la
malattia, l'amore, la morte, l'estraneità alla vita
acquisita attraverso un apprendistato di morte (un facile
riferimento, fra i tanti: Thomas Mann).
Nelle pagine riportate tutto ciò è visibile nella
descrizione della festa paesana fatta dall'io narrante in
una prospettiva oscillante tra adesione e senso
dell'esclusione, nella rievocazione - in una mitica e
solare Sicilia - di un'infanzia a cui fanno da
contrappunto, ben presto, un'esperienza di malattia (c il
cuore mi diede un balzo di volpe sotto la mano») e una
consapevolezza di morte.
È appena il caso di richiamare l'attenzione sulle qualità
di scrittura di Bufalino: densa di trasposizioni
metaforiche, caratterizzata da una sapiente scelta
dell'aggettivazione, una prosa per così dire sontuosa. A
questo proposito, ancora una dichiarazione programmatica
dell'autore: «E dopotutto il registro alto, lo scialo
degli aggettivi, l'oltranza dei colori, mi pareva, e pare,
il modo che ci resta per contrastare l'ossificazione del
mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri
occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei
sentimenti».
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