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Canzonette - La morte |
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È la seconda, in ordine di tempo,
raccolta di liriche, ubblicata a Milano nel 1932. Ciò che
facilmente si poteva avvertire nel mondo poetico del Re
pensieroso, ossia l'eco d'una inquietudine, il balenio di
certe fosche notazioni, e poi quel sentimento cupo e
sgomento della vita che si annidava nelle pieghe della
stessa favola, qui si fa dominante motivo di canto.
D'altra parte i due elementi, cioè quello fiabesco inteso
come desiderio inappagato di ingenua gioia, e quello che
nasce da pensieri inquietanti, dalla consapevolezza di non
aver dentro di noi il richiamo di qualche conforto, sono,
come fu osservato da Bocelli, "due aspetti concordi d'una
medesima situazione o disposizione spirituale". Il volume
comprende trentacinque poesie che si articolano in quattro
gruppi: "La città dei re", "Canzonette", "Sereno", "La
Terra". Del primo gruppo fa parte "La vecchietta morta",
già compresa nel Re pensieroso; poesia in cui non mancano
echi di motivi rodenbachiani. Celebrata, inoltre, di
questo primo gruppo, è "La fanciulla mutata in rio" che si
riannoda ai temi noti della raccolta precedente. È un "remedium
doloris" un poco alla Palazzeschi; un obliare la realtà
amara per abbandonarsi in un mondo magico ove l'assurdo
trasformato in realtà è a portata di mano. Su questa linea
possiamo leggere ancora: "Canto di stellina sul prato",
"La bella addormentata", "Caterinella", "Il bagno della
fata". A volte nella fiaba s'insinua la nota malinconica,
che produce quasi uno sbriciolarsi della compattezza
magica. Tipico, a proposito, il finale di questa
"Canzonetta degli amanti addormentati": "Il mondo col suo
splendore / di marine e di città, / oggi è come un
languido fiore / che domani morirà". Labilità e sicuro
incedere verso la fine delle cose umane: la coscienza di
questa fatale necessità intorbida a poco a poco le
fantasticate visioni, e allora è come uno sgomento
sinistro che le attraversa ("Selvaggia"). Ogni barlume di
favola è scomparso, la consapevolezza del male e della
morte scava al di sotto di tutte le apparenze di cui la
realtà si riveste. L'amore stesso su cui si intessono le
illusorie immagini della nostra fantasia trasfigurante
("Dalla tua bocca che geme / vino d'amore sgorga. / O solo
guanciale pel capo dell'uomo"), è visto nel risvolto più
tragico: "Ma sotto queste parole, / quando la pietra fu
smossa, / v'era un doppio nodo d'ossa / che diventò
polvere al sole" ("Canto d'amore"). Su questa umanità
desolata, su questa terra dannata (e ci stiamo riferendo
soprattutto alle liriche dell'ultimo gruppo) è un Dio
verso il quale si scagliano le maledizioni delle creature
torturate. Eppure quest'altro aspetto della poesia
bettiana, quasi apocalittico, in cui gli astri ruinano,
gli abissi sprofondano, il silenzio domina gli spazi, la
terra è percorsa da fremiti misteriosi e un formicolare di
uomini e di belve geme nell'attesa d'essere ingoiato dalla
morte, si placa in qualche modo in una forma di tragica
serenità. Indicative, al riguardo, "Peccato originale" e
"Geroglifico", forse le più alte liriche della raccolta.
Il presentimento inquieto della bontà, intanto, diviene
più insistita invocazione religiosa nella necessità d'una
fede: "Signore, / Signore, dacci per nutrimento /
angoscia, coprici di lebbre e di terrore! / Ma tu, se odi
le voci delle creature, rispondi! / Accendi per noi la
stella senza tramonti!" ("Canto di operai"). Alla facilità
e alle cadenze popolaresche della precedente raccolta, in
queste poesie subentra un raggiunto illimpidimento
espressivo che è il segno d'una maturità letteraria e d'un
maggiore dominio del proprio mondo poetico
Alfredo Barbina
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