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Il volume, pubblicato a Milano nel 1942, e in nona
edizione nel 1962 accresciuto di venti poesie, contiene il
meglio della produzione in versi di Vincenzo Cardarelli.
Queste poesie, scritte in circostanze e in età diverse e
assai distanti tra loro, accompagnano l'abbondante
produzione in prosa dello scrittore, e in certo modo
appaiono legate alle successive fasi della battaglia
letteraria che quella prosa più direttamente documenta.
Un'ambizione di canto fermo e sostenuto, di stile
eloquente e solenne, nutre infatti anche il discorso
poetico di Cardarelli; una volontà di restituire ordine
alla parola e di riscoprirne l'illustre e tradizionale
purezza, la classica armonia. E anche per la poesia vale
quel mito di modernissima vetustà che fu il Leopardi
riscoperto dai rondisti, e l'affermazione di dominio e
d'intelligenza letteraria che già risuonava nelle prime
pagine di Prologhi Viaggi Favole: "La mia lirica (attenti
alle pause e alle distanze) non suppone che sintesi. Luce
senza colore, esistenze senza attributi, inni senza
interiezioni, impassibilità e lontananza, ordini e non
figure, ecco quel che vi posso dare". Pure, ancor più che
nelle prose è proprio nelle poesie che, al di là dei
programmi e delle ambiziose e difficili intenzioni, la
verità del temperamento di C. si esprime, in un arco di
esperienze e di risultati che scopre un sempre più
imperioso bisogno di confessione immediata e di
confidenziale malinconia. I primi tra questi versi, legati
a una iniziale stagione di "impassibilità" letteraria
("Ispirazione per me è indifferenza: / Poesia: salute e
impassibilità. / Arte di tacere. / Come la tragedia è
l'arte di mascherarsi"), nascono evidentemente dalla
stessa temperie spirituale e recano il medesimo sforzo di
consumazione razionale e stilistica dei sentimenti che i
Prologhi denunciavano: una luce senza colore isola gli
oggetti in una sorta di solenne freddezza cerebrale, donde
contemplare e rievocare è distaccarsi e riflettere. Una
"disperata consapevolezza elevata a discrezione ironica" è
la ragione dell'ampio e grave recitativo di alcune tra le
più famose di queste composizioni: "Adolescente"
(l'intensità della riflessione si ritma in immagini quasi
rituali, solenni, e raddensa in una distanza contemplativa
alcuni evidenti moduli dannunziani e leopardiani);
"Natura", "Incontro notturno" (la pronuncia freddissima di
un irato rimpianto), "Tristezza" (un iniziale movimento di
autocelebrazione si porge in immagini sentenziose, dettate
dall'alto d'una sapienza antica), "Ajace" (un
autobiografico inno all'eroe oltraggiato): è una
consapevolezza che si fa compassata e metaforica
eloquenza, ma che non esita ad accogliere, come
complementare atteggiamento, l'ironia e persino
l'impertinenza cerebrale. Lo schema ragionativo risolve in
poetica dell'indifferenza i modi diversi del primo lirismo
cardarelliano, sia che esso si generi da un moto
contemplativo-descrittivo ("Adolescente", "Natura"), sia
autobiografico-celebrativo ("Homo sum", "Ajace"), sia di
confessione o memoria ("Tristezza", "Fuga", "Stanchezza",
"Incontro notturno", "Tempi immacolati"). Una meno
vincolante concentrazione intellettuale e aperture
impreviste di visività sono invece le caratteristiche più
salienti di altri gruppi di versi, nei quali in certo
senso si compie quel più immediato incontro con gli
oggetti e i colori naturali che Viaggi nel tempo
rappresentavano, per quanto riguarda la prosa, rispetto ai
Prologhi. Anche qui le "idee" paiono bruciarsi al contatto
della realtà naturale, in un fresco descrittivismo qua e
là abbagliato in impressioni rapide ("Febbraio", "Aprile",
"Marzo", "Scherzo", "Sera di Liguria", "Ritratto"), o in
un'immersione sentimentale nel paesaggio e nelle stagioni
(più che "Estiva" in cui l'immagine si appesantisce di
sontuose reminiscenze dannunziane, "Saluto di stagione",
"Autunno", "Ottobre" "Settembre a Venezia"). Così
l'imitazione leopardiana, altrove mero fatto stilistico o
esteriormente musicale (come "Sera di Gavignana"), a un
certo momento, e in un gruppo piuttosto omogeneo e anche
cronologicamente isolabile, riesce a costituire un reale
movimento psicologico e sentimentale, in situazioni alla
fine libere dalla glaciale indifferenza: si ricordi
"Memento", e il rimpianto autentico di "Illusa gioventù",
o l'inquietudine scoperta e la sconsolata pena di
"Parabola" ("Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra /
gli anni van giù rovinosi in pendio. / Né il numerarli ha
ormai nessun valore / in sí veloce moto"). Proprio una di
queste liriche così intimamente avvivate da una
sensibilità di tono leopardiano, "Amore", inaugura anzi un
gruppo di versi amorosi nei quali vibra come un sentimento
nuovo, colto in immagini immediate e in scorci di intenso
abbandono, e in ogni caso assai lontano dalla marmorea
impassibilità della prima stagione. La pena autentica del
rimpianto riprospetta una esperienza di offerta e di
disillusione su cui è alla fine calato un deserto silenzio
("Sí che per me la terra / non è più che un asilo /
vietato, un cimitero di memorie"); e culmina,
leopardianamente, nell'asciutta e petrosa tristezza di
"Alba", in movenze di lucida e scarna liricità, che
giustamente ha fatto pensare al "Coro dei morti". Ma il
sottofondo biografico e la malinconica capacità di
proiettarsi, anima e stile, in un autoritratto
sentimentale ormai dominato dall'idea della morte, si
fanno meglio riconoscibili - e sempre più liberi dalla
sofisticazione di una programmatica iperespressività -
nelle ultime e più dense poesie: sia dove il ricordo di
un'infanzia lontana e del mondo familiare si figurano in
una confessione calma e pacata; sia dove la tristezza di
una vita destinata alla morte smuove modulazioni
sentimentali di commosso respiro, sino all'umiltà e alla
preghiera (si vedano rispettivamente: "Alla terra",
"Genitori", "Partenza mattutina"; e "Alla morte"). Si può
affermare in definitiva che l'ultima poesia di Cardarelli,
se non rinnega il controllo dell'intelligenza e il pudore
stilistico ch'erano le più consapevoli componenti della
sua iniziale poetica, riesce tuttavia ad arricchire la sua
tensione lirica di toni più immediati e umanamente
trepidi; e anche il linguaggio, pur qua e là richiamato al
fascino di eloquenti stilizzazioni, si distende in un
discorso più fluido e sofferto.
Arcangelo De
Castris Leoni |