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Luigi
Chiarelli, nato nel 1880 a Trani, non completa gli studi
universitari intrapresi, e si dedica già ai primi anni del
Novecento all'attività di critico teatrale e di
giornalista. Nel 1914 vengono rappresentati due suoi
drammi in un atto, Extra dry e Una notte d'amore; nel 1916
si mette in scena La maschera e il volto, composto nel
1913. Si dedica quindi interamente all'attività teatrale
come organizzatore di compagnie e come autore (Chimere,
1920; Fuochi d'artíficio, 1923; Un uomo da rifare, 1932).
Muore a Roma nel 1947.
Come è noto, Antonio Gramsci fece il critico teatrale
sull'«Avanti!» dal 1916 al 1920. Ci sembra interessante
riportare quanto scrisse (11 aprile 1917) a proposito
della pièce di Chiarelli:
«La maschera e il volto» di Chiarelli al Carignano. La
maschera: il complesso di atteggiamenti esteriori che gli
uomini assumono sotto lo stimolo della realtà sociale che
li circonda. La maschera è la patina superficiale del
costume, della moda, dello snob, il precipitato di tutte
le reazioni tra la vita individuale e la vita collettiva,
tra la vita di un individuo e la vita di quella
determinata categoria sociale in mezzo alla quale
l'individuo ha le radici della sua particolare esistenza.
Chi riesce a strappare dal proprio volto questa maschera,
chi riesce a vivere non secondo le inconsapute violenze
della convenzione sociale, ma solo secondo i dettami del
proprio io più profondo, della sincerità che pure esiste
in fondo alla coscienza di ogni individuo? I tre atti di
Luigi Chiarelli rappresentano appunto la storia di uno di
questi individui, le avventure tragicomiche, le esperienze
interiori ed esteriori di uno di questi individui. Le
rappresentano in modo curioso, deformandole,
esasperandole, esteriorizzandole, con molte parole, con
molti particolari, con molta convenzione, ma riuscendo
tuttavia a raggiungere degli effetti di rappresentazione,
riuscendo a fondere in un complesso piacevole e spiritoso
molte banalità, molti luoghi comuni, molte affermazioni
del senso comune più comune.
L'autore ha volontariamente costruito la macchina
convenzionale che regge i tre atti: egli non nasconde la
volontà del convenzionale, non tende delle trappole al
pubblico; il lavoro suo è come una campana di cristallo, e
lascia trasparire il suo volto che sogghigna senza la
maschera della falsa serietà drammatica e artistica. Il
suo lavoro è pertanto opera di sincerità, e ha un grande
valore per l'educazione estetica del pubblico, per
correggere il gusto del pubblico, attutito e fatto lapposo
dalla falsa grandezza e dall'artificio abilmente nascosto
nel teatro solito. La storia è questa.
Nei tre atti agiscono altre maschere caratteristiche,
mariti filosofi, donne adultere, i soliti personaggi da
commedia, tutti adattati al grottesco centrale, alla
rappresentazione deformata della vita solita del teatro di
maniera, resi vivaci dalla volontà costruttrice
dell'autore, che con molta abilità e molta elasticità
d'ingegno li compone in modo piacevole.
La commedia ha avuto un successo discreto. Essa si
replica. La compagnia Talli ne ha dato una interpretazione
molto accurata ed efficacissima: attori principali il
Betrone, la Melato, il Gandusio e il Paoli.
LA
MASCHERA E IL VOLTO
Commedia in tre atti scritta
nel 1913, rappresentata a Roma al Teatro Argentina nel
1916 e pubblicata a Milano nel 1917. Definita dall'autore
"grottesco", essa costituisce la sua opera migliore.
Protagonista della commedia è Paolo Grazia: tipico
esponente di una società borghese che lo scrittore dipinge
con acrimonia, egli proclama la propria convinzione,
contraria agli accomodamenti scettici o vili che in quella
società prevalgono, secondo la quale il marito tradito ha
il dovere di uccidere la moglie infedele. Scoperto
casualmente il tradimento di Savina, sua sposa, a Paolo
manca tuttavia il coraggio di tener fede ai princìpi. Per
non coprirsi di ridicolo agli occhi degli amici, egli
ingiunge alla moglie di sparire definitivamente dalla sua
vita, espatriando sotto falso nome, quindi dichiara a
tutti di averla uccisa facendola precipitare nel lago, e
va a costituirsi. Al processo, dove ha avuto per difensore
Luciano, l'amico con il quale Savina lo tradiva, e che non
ha esitato a infangare pubblicamente la donna per coprire
la propria viltà, Paolo viene assolto. Le accoglienze
trionfali che trova al suo ritorno lo pongono di fronte al
triste spettacolo della società marcia, per paura del cui
giudizio egli ha messo in esecuzione un piano di cui,
anche se pentito, continua a scontare le conseguenze,
essendo costretto a riconoscere come quello di Savina un
cadavere di donna ripescato sfigurato dal lago. Mentre il
cadavere è in casa, ecco apparirgli Savina, ritornata di
nascosto, per rivedere il marito, del quale soltanto, in
realtà, è stata innamorata. L'intimo sentimento riavvicina
i due, che sono tuttavia sorpresi da alcuni amici, i quali
pongono Paolo di fronte a questa paradossale realtà: la
legge, che lo ha assolto come uxoricida, lo condannerebbe
invece ora, innocente di quel delitto, per simulazione di
reato e falso. Al fine di evadere dalle convenzioni
sociali che ancora una volta lo irretiscono, Paolo non ha
altra alternativa se non fuggire con Savina come amante
verso una autentica libertà, mentre di lei si celebra agli
occhi della società il funerale. Il gusto per una polemica
contro le convenzioni della società borghese, colorata di
umori paradossali, fu così espresso da C. per la prima
volta in forma drammatica; ma già si trova nelle opere
narrative di Pirandello. La maschera e il volto non perde
per questo d'importanza: essa impose quel tipo di commedia
che si chiamò appunto "grottesco" e fiorì negli anni del
primo dopoguerra. Ciò che l'opera ha di più vivo è il
meccanismo teatrale, di una impeccabile costruzione, dove
quegli eleganti fantocci che sono i suoi personaggi
vengono mossi dall'A. secondo una logica scenica ricca di
effetti, di sorprese, al di là di ogni compiacimento
letterario. La nota dominante della Maschera è quella di
un'irridente, scettica ironia, che colpisce,
satireggiandolo, tutto un mondo, e con esso il teatro,
quello fondato sul "triangolo" ottocentesco, che ne era
stato espressione. Cesare Giulio Castelli |