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Sotto questo titolo Benedetto Croce ha raccolto in volume
una serie di scritti sparsi di Cesare De Lollis,
pubblicati in vari tempi a partire dal 1904. La serie
costituisce un tutto organico, perché retta da un medesimo
concetto: la storia letteraria italiana dei primi due
terzi dell'Ottocento vi è vista per capisaldi (Leopardi,
Berchet, Prati, Tommaseo, Tosti, Mamiani, Regaldi,
Carducci, Carrer, Dall'Ongaro, Maffei, Aleardi, Zanella;
di scorcio anche Monti e Manzoni) come una specie di
conflitto tra forma classica e forma romantica, tra la
tradizione di un linguaggio eletto, sostenuto,
arcaicizzante, generalizzante e l'aspirazione a un
linguaggio realistico, familiare, aderente alla vita
moderna, proprio. Ciò non va inteso, è ovvio, nel senso
che tali due antagoniste costituiscano definite entità per
sé stanti; il De Lollis sapeva molto bene che
concretamente esistono solo i singoli poeti, con le loro
capacità e deficienze d'arte: che lucidi splendori o
opachi orpelli, nell'una forma, calda intimità o pedestre
ciottolame, nell'altra, coincidono con la presenza o meno
della poesia, sì che nei grandi poeti o nei momenti felici
degli scrittori minori le due tendenze si compongono
armoniosamente. Ma il De Lollis, filologo, d'una filologia
che potrebbe dirsi storicistica, sentiva il difetto di
considerare i poeti isolandoli come nel vuoto, l'esigenza
di non staccarli dal mondo di relazioni in cui visse il
loro spirito; e della tradizione sentiva non soltanto
l'importanza storica ma anche il valore morale,
"l'impossibilità", come rileva il Croce nella breve
avvertenza premessa al volume, "di spezzarla o di saltarvi
sopra, la necessità di conservarla sempre, innovando
sempre". |