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Gente
in Aspromonte |
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Raccolta di
tredici novelle. La prima dà il titolo a tutta la
raccolta e ha il respiro di un vero, seppur breve,
romanzo. In questi scorci di vita regionale (calabrese),
A. ha rinnovato la tradizione verghiana, fondendo con
intenso vigore gli elementi del paesaggio con quelli del
costume popolare, e i motivi sociali della miseria con
quelli psicologici della passione e della sensualità.
Grava su ogni racconto una concezione fatalistica della
vita umiliata sotto il peso di una duplice condanna (della
povertà e della morte), che si identifica liricamente con
l'ombra minacciosa di un unico destino avverso. Il primo
racconto rivela quasi esplicitamente la sua matrice
verghiana nell'impostazione del contrasto sociale fra
possidenti esosi (Filippo e Camillo Mezzatesta) e
dipendenti tiranneggiati dall'egoismo dei padroni e dalla
cattiva sorte (il pastore Argirò e i figli suoi, Antonello
e Benedetto). Quando all'Argirò precipitano quattro buoi
da un burrone, Filippo Mezzatesta (che ne era
comproprietario) rimane insensibile alla sua sventura e
gli rifiuta ogni aiuto. L'Argirò è costretto così a
ricorrere all'appoggio di uno strozzino e ad affrontare la
miseria più nera. Nell'intento di uscire da una condizione
di inferiorità e di salire socialmente, decide allora di
por fine a questo stato di cose facendo studiare da prete
il figlio Benedetto. Senonché l'altro figlio, Antonello,
non regge agli stenti e torna a casa sfinito; e i figli di
Camillo Mezzatesta, a loro volta, uccidono la mula dell'Argirò.
Le forze della società e della natura si mettono contro al
suo drammatico sforzo. Ma quando la sopportazione è giunta
al massimo, esplode l'istinto della vendetta: Antonello
stermina il bestiame di Camillo Mezzatesta e ne
distribuisce la carne ai compaesani; quando giungono i
carabinieri per arrestarlo, esulta di poter finalmente
parlare con la giustizia e difendere la sua causa. Negli
altri racconti il fatalismo si ispira più di frequente a
vicende d'amore, in cui la sensualità sconfina nella
gelosia e nell'odio, il senso dell'onore provoca la
violenza, l'istintività pagana si mescola alla
superstizione religiosa in un clima favoloso. In "La
pigiatrice d'uva" una minaccia di tragedia aleggia
nell'implacabile calura estiva sotto la spinta di una
sensualità selvaggia (la pigiatrice è stata di tutti,
tranne dell'uomo che ne è innamorato). In "Coronata" il
tema romantico dell'amore fatale sconfina nella leggenda:
una giovane è costretta a partecipare a una cerimonia di
grazie alla Madonna in riconoscenza della guarigione
ottenuta. Ma, fra le urla e i pianti, viene rapita da un
uomo a cavallo: è il suo amante. Da quel momento la
famiglia la considera morta. Questo tema della forza
dell'amore ritorna con sfumature diverse in quasi tutte le
pagine successive: con tono patetico o trasfigurato in
"Teresita", "Romantica", "Innocenza", sotto forma di
sacrificio o di ricordo fedele o di pietosa generosità;
con toni più accesi in "La signora Flavia", "Temporale di
autunno", "Casa dorme", sotto forma di corrotta malizia o
di ribellione o di terrificante scoperta. Ma appare sempre
una linfa inestinguibile, la cui fonte è impastata di
peccato e di dannazione, e i cui doni non restano mai
senza pedaggio. Il taglio narrativo è secco, incisivo,
senza concessioni al descrittivo o al romanzesco, in una
prosa di forte concentrazione drammatica che ha costituito
un caso originale nella narrativa fra le due guerre e un
prezioso raccordo fra il verismo dell'Ottocento e il
recente neorealismo. Giorgio Pullini
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