Parliamo di |
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Letteratura italiana del Novecento |
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Giovanni Giudici |
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Giovanni
Giudici è nato a Le Grazie (Spezia) nel 1924. Oltre che
nel paese natale, ha vissuto a Rama, dove si é laureato in
letteratura francese e ha svolto a lungo attività di
giornalista politico; quindi si é trasferito a Ivrea,
Torino e Milano (dove attualmente risiede), impiegandosi
nell'industria come copywriter presso l'Olivetti e
svolgendo attività di giornalista culturale. Le sue
principali raccolte dì poesia sono: La vita in versi
(1956), Autobiologia (7969), O Beatrice (1972), Il male
dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume
dei tuoi misteri (1984), Quanto spera di campare Giovanni
(1993). Ha pubblicato anche Tre racconti (1974) e una
raccolta di saggi, La letteratura verso Hiroshima (1976).
Molte le sue traduzioni, fra cui si segnala quella dell'Evgenij
Onegin di Puskin (1976 e 1983).
Un neo-crepuscolarismo ironico
«Giovanni Giudici nei suoi primi libri ha organizzato una
propria originaria tematica intimistica, crepuscolare o
pseudomontaliana, per creare un personaggio autoironico
dove residuano e si agitano, fra amarezza e impotenza,
elementi cattolica; ribellismi anarcoidi e socialistica;
cadenze populistiche. Capace di effusione e respiro
narrativo, Giudici gioca su forme del passato (quelle che
egli ebbe a chiamare le "forme logore") con una bravura
molto attiva, un senso dell'oggetto, dei personaggi e
della realtà quotidiana quasi unico fra i poeti d'oggi.
Giudici è l'unico che abbia avuto il coraggio di
riprendere il discorso poetico, deliberatamente, dove
Gozzano lo aveva lasciato» (Fortini).
La condizione dell'uomo contemporaneo, colta nelle
quotidiane frustrazioni del personaggio protagonista delle
prime raccolte di Giudici (ampiamente autobiografico, a
quanto è dato di capire), si concreta in entrambi i testi
in un dolente monologo autoanalitico. In Una sera come
tante assistiamo alle riflessioni serali (nelle due ore al
giorno che può concedere a se stesso) di un personaggio
emblematicamente collocato al settimo piano di un palazzo
cittadino, attorniato da bambini che dormono, da una
moglie che batte il cucciolo col giornale, dai segni
insomma della quotidianità che la prima strofe mette
subito in mostra per definire un contesto ambientale e
psicologico. Poi, con la seconda strofe, sedati gli urli e
i guaiti, nelle due ore di libertà prima di dormire, il
personaggio allarga lo sguardo dagli oggetti circostanti
all'intera sua vita. Lo stato di quiete in cui si trova
(né sonno, né sete, né particolari «impiegatizie
frustrazioni») gli si rivela uno stato di apatia,
indolenza, indifferenza, viltà, uno stato di passiva
accettazione del presente, da «private persone senza
storia» totalmente immerse nel flusso della moderna
società della comunicazione e dei consumi. E gli
interrogativi che si pone, le attese che formula sono già
di per sé vanificati dalla disillusione e dalla passiva
accettazione di questa disillusione: « è la mia vecchia
impostura / che dice: domani, domani.. pur sapendo / che
il nostro domani era già ieri da sempre». |
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