Parliamo di |
|
Letteratura italiana del Novecento |
OPERE |
Poesie |
|
|
|
|
Poesie |
|
|
Ampia scelta di tutte le raccolte poetiche edite e inedite
di Corrado Govoni, pubblicata a Milano nel
1961 a cura di Giuseppe Ravegnani. Reca le date 1903-1959,
e segue all'Antologia poetica (1903-1953), a cura di
Giacinto Spagnoletti, apparsa a Firenze nel 1953. Le fiale
(Firenze, 1903) e Armonia in grigio et in silenzio: poema
(ivi, 1903), raccolgono la prima e originaria esperienza
crepuscolare di Govoni: sono i consueti temi di quella
poetica, giardini chiusi, conventi, interni grigi e
malinconici, paesaggi autunnali, povere campagne, tristi
animali, vecchi oggetti, entro cui Govoni porta un colore più
acceso, un immaginare più intenso, un'insistenza di
figure, di forme, di descrizioni, che un poco contrasta
con le atmosfere spente e ovattate e la povertà e l'umiltà
delle cose evocate (ma l'influenza del D'Annunzio del
Poema paradisiaco, V. O., è pure presente, per certi
preziosismi di descrizioni o per il lessico che si fa, a
tratti, aulico e raro, in contrasto con la media misura
crepuscolare). Con Fuochi d'artifizio (Palermo, 1905) la
crisi dei modi crepuscolari è denunciata in modo più
cosciente: ci sono, sì, ancora inni alla malinconia o
motivi conventuali o evocazioni di sfatte musiche
strazianti o di campagne tristi e dolci, ma gli elenchi di
oggetti (come in "Fuori moda") hanno ora una nuova forza
ironica, e in componimenti come "La fiera" o "L'ora di
notte" compare già ben delineato il gusto tutto visivo ed elencativo del Govoni più maturo. Sono gli stessi modi che si
ritrovano in alcune poesie di Gli aborti (Ferrara, 1907),
come "Le domeniche", "Le dolcezze", "Le città di
provincia", "Le cose che fanno la domenica", "Ferrara",
veri e propri repertori figurativi, dove l'invenzione
ironica, la semplice descrizione, l'accumulazione
meccanica, la meravigliata gioia di nominare le cose, il
gusto di riempire la pagina con tutti gli ingredienti
possibili, fissano già la struttura del tipico modo govoniano di far poesia; ma la raccolta contiene in sé
anche tutto il catalogo degli oggetti della moda
crepuscolare, come la tisi, gli organetti di Barberia, le
domeniche solitarie, il compiacimento delle lacrime,
aggiungendovi lo sfogo conclusivo del dannunzianesimo
sotto forma di sonetti di lusso e lussuria, sullo sfondo
di un manieratissimo esotismo. Con le Poesie elettriche
(Milano, 1911) inizia la fase futurista di Govoni (che in
questo suo primo itinerario esteriormente ricorda non poco
le vicende di Palazzeschi): ora il gusto dell'immagine
piena di stupore (e, anche, dell'intenzione di stupire con
la novità, con l'abbondanza, con l'inventività profusa)
trova una giustificazione di "poetica" entro la libertà
della parola inaugurata dal futurismo. Così Govoni, dopo
essersi in fondo mortificato con i colori attenuati del
crepuscolarismo, può espandere la sua fertilità
associativa senza limiti. Ne nascono poesie che rimangono
fra le più tipiche e valide del poeta: come l'inno "A
Venezia elettrica" che è una mirabile orgia di immagini
dettate da un'instancabile furia accumulativa, o come la
divisionistica descrizione di "Il duello", o l'ironia che
fervidamente ricerca analogie e associazioni verbali in
"Anima". Ormai G. ha trovato la sua strada: e se in
Rarefazioni e parole in libertà (Milano, 1915) rende
omaggio alla moda dell'avanguardia, scrivendo calligrammi
e poesie figurate, in L'inaugurazione della primavera
(Firenze, 1915) anche il metro si chiarisce come quello a
cui resta legato il momento più personale dell'intero
itinerario poetico govoniano: il verso libero enumerativo,
gremito di similitudini, di cose, ciascuno con il suo
oggetto da indicare. Si vedano in particolare poesie come
"La città morta", "Nel cimitero di Corbetta", "Casa
paterna", soprattutto "L'usignuolo e gli ubriachi",
"Passaggio magnetico", e "Il saluto delle rondini", dove
nel furore delle associazioni di forme, di suoni,
soprattutto di colori, nell'inesausta rassegna delle cose,
nella ricerca accanita di analogie, accostamenti,
improvvise e impreviste similitudini, nelle ripetizioni
protratte per lunghe serie di versi, Govoni riesce a
raggiungere il vertice di un'ossessività caotica e
primordiale, indubbiamente nuova e incisiva. In La santa
verde (Ferrara, 1919) Govoni si lascia tentare dal poemetto in
prosa: descrittivo, patetico, pieno anch'esso, come i
versi, di associazioni verbali, ma già rivelatore di
quello che sarà il carattere dell'esperienza poetica govoniana fino, almeno, agli anni quaranta: l'assenza di
movimento interno. Il quaderno dei sogni e delle stelle
(Milano, 1924), Brindisi alla notte (ivi, 1924), Il flauto
magico (Roma, 1932), Canzoni a bocca chiusa (Firenze,
1938), Pellegrino d'amore (Milano, 1941) rappresentano il
corpo centrale dell'opera poetica di Govoni sempre più ricca,
abbondante, insistente, ma anche ripetuta, nella sua
fissità incapace di storia, in quanto compiutamente felice
dell'accumulazione caotica delle associazioni. Si fissa
qui l'immagine tipica di Govoni, quella del meravigliato
catalogatore del mondo, al di qua di ogni preoccupazione
critica e di ordinamento, guidato soltanto dall'estro e
dal gioco compositivo, di un manierismo sempre più
immaginoso e ricercato: da tutta la gran massa di versi
esce fuori un mondo della natura denso di colori, luci,
suoni, ma come fermato nelle bolle di sapone della
similitudine o dell'analogia ingegnosa e intesa a stupire,
senza indagine conoscitiva, senza sollecitazione
gnoseologica. Sono di questa specie componimenti pur
esemplari, come "Effetto di nebbia", "Ho visto", "Le
bellezze della campagna", le metafore entomologiche o
zoologiche di "Infinitesimo" o di "Ballerina" o di "Il
canto della raganella di Pomposa". Si avverte una sapienza
sempre maggiore di accostamenti, fino al virtuosismo
pittorico e musicale, e si moltiplicano anche i nomi delle
cose, ma, in realtà, si tratta di arricchimenti unicamente
quantitativi, e le ripetizioni si fanno sempre più
numerose, fino alla formula fissa. Con Govonigiotto
(Milano, 1943), G. compie una trasformazione notevole di
linguaggio; gli accenni a una ricerca di essenzialità, che
nelle ultime raccolte poetiche precedenti qua e là si era
avvertita, con inflessioni quasi ungarettiane, si
precisano come tentativo di adeguazione all'avanguardia
ermetica, intesa anzitutto come regolarizzazione metrica,
come norma e freno al profluvio fantastico, poi come
sforzo di caricare gli oggetti di una simbolicità
sentimentale e perfino metafisica; infine come scoperta di
un orfismo che ripropone gli aspetti del mondo quali
manifestazioni cosmiche. La tensione nuova così attinta
permette a Govoni di scrivere, con Aladino (Milano, 1946), il
suo libro non soltanto più commosso ma forse anche più
alto, a contatto con l'esperienza biografica
dell'uccisione del figlio alle Fosse Ardeatine:
l'essenzialità estrema della parola dà un perfetto risalto
alla straordinaria unione di patetico e di maledizione, di
disperata memoria e di inesausta celebrazione degli
aspetti vitali del mondo di negazione gelida e amara e di
rassegna di stagioni, paesaggi, fiori, alberi, venti,
colori, suoni. Ancora Conchiglia sul quaderno (1948,
inedito in volume) ha, nella parte che continua l'orrore e
l'inno di Aladino, una sicura novità poetica; ma già qui,
e ancora di più nelle successive raccolte Patria d'alto
volo (Siena, 1953), Preghiera al trifoglio (Roma, 1953),
Manoscritto nella bottiglia (Milano, 1954), Stradario
della primavera (Venezia, 1958), I canti del puro folle
(1959, inedito), si ripresenta in buona misura il vecchio
Govoni degli anni venti e trenta; e fa eccezione soltanto la
vena polemica, ironica, disperata e patetica di L'Italia
odia i poeti (Roma, 1950). Certo, la tensione esistenziale
e il simbolismo attinti con Govonigiotto non sono rimasti
senza influsso sull'ultimo Govoni: ma i lunghi elenchi
descrittivi, le invenzioni surreali, le metafore
continuate per lunghe serie di versi, ritornano
puntualmente e si ripetono nelle ultime raccolte, non
particolarmente distinguibili fra loro. Se mai, gli unici
punti che hanno suono nuovo sono le esclamazioni
polemiche, le maledizioni etiche e politiche, gli accenni
di disperazione personale e sulle sorti del mondo, che qua
e là compaiono; ma troppo occasionalmente in confronto con
la costanza descrittiva e accumulativa.
Giorgio Barberi Squarotti
|
|
|
|